(massima n. 1)
Vietando e sanzionando l'attività di chi pone in vendita o mette altrimenti in commercio come genuine sostanze alimentari non genuine, il legislatore ha voluto reprimere ogni operazione che sia comunque diretta allo scambio ed allo smercio di cibi e bevande non genuini; e poiché il porre in vendita e l'immettere in commercio presuppongono necessariamente la detenzione per vendere, è di ragione che anche quest'ultima attività, se è accompagnata da comportamenti rivelatori del fine di vendere e di commerciare (quali l'esposizione dei cibi in pubblici esercizi e l'offerta di vendita di essi enunciata in listini ed avvisi), basta di per sé sola ad integrare l'elemento materiale del delitto previsto nell'art. 516 c.p. Il reato di cui all'art. 516 c.p. si consuma nel momento stesso in cui l'attività di commercio prende inizio ed avvio (quello dell'immagazzinaggio, ad esempio) piuttosto che nel momento della trattativa con avventori ed acquirenti. La maggiore o minore durata della detenzione, e la maggiore o minore imminenza della vendita, sono irrilevanti ai fini della configurazione del reato di cui all'art. 516 c.p., oggettivamente integrato dalla relazione di fatto tra esercente e sostanza non genuina e soggettivamente completato dall'intenzione di esitarla come genuina.