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Articolo 132 Codice Penale

(R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)

[Aggiornato al 02/10/2024]

Potere discrezionale del giudice nell'applicazione della pena: limiti

Dispositivo dell'art. 132 Codice Penale

Nei limiti fissati dalla legge(1), il giudice applica la pena discrezionalmente(2); esso deve indicare i motivi che giustificano l'uso di tale potere discrezionale(3).

Nell'aumento o nella diminuzione della pena non si possono oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, salvi i casi espressamente determinati dalla legge [64, 66, 73, 78, 133bis, 133ter, 136].

Note

(1) La disposizione in esame, al suo primo comma, indica le tre regole fondamentali relative all'applicazione della pena, cui il giudice deve attenersi: tenersi nei limiti fissati dalla legge, applicare discrezionalmente la pena e indicare i motivi che lo hanno portato alla commisurazione della stessa. Per quanto attiene al primo aspetto, l'espressione "nei limiti fissati dalla legge" prevede che non possa essere irrogata una pena superiore/minore al massimo/minimo edittale. Questi possono subire delle variazioni, solo quando è la legge stessa a prevederlo,secondo quanto previsto dal secondo comma di questo articolo.
(2) In secondo luogo, nell'applicazione della pena, il giudice è chiamato ad agire discrezionalmente. Ciò non significa che questi può agire arbitrariamente, quanto che dovrà attenersi a criteri legalmente predeterminati (si parla dunque di discrezionalità vincolata), ravvisabili nei limiti esterni, ovvero il c.d. spazio edittale: minimi e massimi di pena, e in quelli interni, rinvenibili nell'art. 133 e sintetizzati nelle formule della retribuzione (gravità complessiva del fatto) e prevenzione speciale (capacità a delinquere). A ciò si aggiungano altre situazioni che il giudice deve tenere in considerazione, quali, ad esempio, la scelta tra pene edittali comminate alternativamente, l'individuazione di eventuali attenuanti generiche (art. 62bis) o indefinite, il bilanciamento tra le circostanze eterogenee (art. 69), la concedibilità della sospensione condizionale della pena (v. 163), l'ammissione del contravventore all'oblazione (art. 162bis), la concessione del perdono giudiziale (art. 169), la concessione del beneficio della non menzione della condanna (art. 175), l'accertamento in concreto della pericolosità sociale ai fini dell'applicazione, della scelta e della revoca delle misure di sicurezza (art. 199 ss.), la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato (artt. 103-105) o di tendenza a delinquere (art. 107).
(3) Infine, il giudice deve motivare le proprie scelte, in attuazione del principio costituzionale di motivazione obbligatoria dei provvedimenti giurisdizionali (art. 111 Cost.), in modo da garantire un uso corretto e regolamentato del proprio potere discrezionale, nonché la congruità della pena inflitta al reo. Si ricordi che tale dovere non si considera assolto in presenza di motivazioni implicite o stereotipate, in quanto deve consentirsi un controllo effettivo sull'operato del giudice.

Ratio Legis

La norma trova chiaramente il proprio fondamento nell'impossibilità di prevedere a carico del giudice un libero ed arbitrario potere nella commisurazione della pena, che quindi necessariamente deve essere limitato da precise regole di comportamento, atte a svolgere una funzione garantista.

Spiegazione dell'art. 132 Codice Penale

La norma in oggetto codifica il potere discrezionale del giudice in ordine alla quantificazione della pena, precisando l'obbligo di motivazione in seguito all'esercizio di tale potere.

Invero, la rigida predeterminazione edittale di un minimo e di un massimo della pena non è sufficiente ad integrare i requisiti richiesti dal principio di responsabilità personale della pena, il quale pretende di commisurare la pena alla condotta ed alla personalità del reo.

Per contro, quindi, l'applicazione discrezionale della pena permette, anche grazie ai criteri di cui all'art. 133, di personalizzare la sanzione afflittiva in modo conforme e proporzionale al fatto concreto ed alla persona del reo.

Ovviamente ciò non toglie che il giudice non possa oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, anche in considerazione del riconoscimento di circostanze attenuanti o aggravanti (artt. 66 e 67).

Il collegamento tra l'art. 132 e l'art. 133 c.p. evidenzia il conferimento al giudice di un potere discrezionale nella quantificazione della sanzione il cui uso è corretto e legittimo se garantito da una motivazione da cui risulti che i parametri stabiliti dall'art. 133 c.p. siano stati sostanzialmente ed in concreto presi in esame e valutati, quale che sia la misura della sanzione inflitta.

Massime relative all'art. 132 Codice Penale

Cass. pen. n. 44428/2022

In tema di reato continuato, il giudice di merito, nel calcolare l'incremento sanzionatorio in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, non è tenuto a rendere una motivazione specifica e dettagliata qualora individui aumenti di esigua entità, essendo in tal caso escluso in radice ogni abuso del potere discrezionale conferito dall'art. 132 cod. pen.

Cass. pen. n. 36256/2020

In tema di reati fallimentari, la durata delle pene accessorie deve essere determinata in concreto dal giudice sulla base dei criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., da parametrarsi, con specifica ed adeguata motivazione, alla funzione preventiva ed interdittiva delle stesse.

Cass. pen. n. 17209/2020

In tema di quantificazione della pena a seguito di applicazione della disciplina del reato continuato in sede esecutiva, il giudice - in quanto titolare di un potere discrezionale esercitabile secondo i parametri fissati dagli artt. 132 e 133 cod. pen. - è tenuto a motivare, non solo in ordine all'individuazione della pena-base, ma anche in ordine all'entità dei singoli aumenti per i reati-satellite ex art. 81, comma secondo, cod. pen., in modo da rendere possibile un controllo effettivo del percorso logico e giuridico seguito nella determinazione della pena, non essendo all'uopo sufficiente il semplice rispetto del limite legale del triplo della pena-base.

Cass. pen. n. 16226/2020

In tema di quantificazione della pena, il divieto di oltrepassare il limite legale della pena sancito dall'art 132, comma secondo, cod. pen. si riferisce anche ai conteggi intermedi resi necessari, ai fini della determinazione della pena finale, dal concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti non bilanciabili ai sensi dell'art. 69 cod. pen..

Cass. pen. n. 25556/2019

In tema di determinazione del trattamento sanzionatorio, nel caso in cui, per la violazione ascritta all'imputato sia prevista una pena congiunta, il giudice che, fissando in prossimità del c.d. minimo edittale la pena detentiva, ritenga di irrogare invece la sanzione pecuniaria in misura apprezzabilmente superiore al cd. medio edittale, è tenuto ad esporre diffusamente le ragioni di tale seconda determinazione.

Cass. pen. n. 37867/2015

In tema di irrogazione del trattamento sanzionatorio, quando per la violazione ascritta all'imputato sia prevista alternativamente la pena dell'arresto e quella dell'ammenda, il giudice non è tenuto ad esporre diffusamente le ragioni in base alle quali ha applicato la misura massima della sanzione pecuniaria, perché, avendo l'imputato beneficiato di un trattamento obiettivamente più favorevole rispetto all'altra più rigorosa indicazione della norma, è sufficiente che dalla motivazione sul punto risulti la considerazione conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la decisione, ben potendo esaurirsi tale motivazione nell'accenno alla equità quale criterio di sintesi adeguato e sufficiente.

Cass. pen. n. 11539/2014

Il giudice di merito non è tenuto a riconoscere le circostanze attenuanti generiche, né è obbligato a motivarne il diniego, qualora in sede di conclusioni non sia stata formulata specifica istanza, non potendo equivalere la generica richiesta di assoluzione o di condanna al minimo della pena a quella di concessione delle predette attenuanti.

Cass. pen. n. 28707/2013

La valutazione della sussistenza dei presupposti per l'adozione di una sanzione sostitutiva è legata agli stessi criteri previsti dalla legge per la determinazione della pena, e quindi il giudizio prognostico positivo cui è subordinata la possibilità della sostituzione non può prescindere dal riferimento agli indici individuati dall'art. 133 cod. pen., con la conseguenza che il giudice può negare la sostituzione della pena anche soltanto perché i precedenti penali rendono il reo immeritevole del beneficio, senza dovere addurre ulteriori e più analitiche ragioni.

Cass. pen. n. 27114/2009

La violazione della disposizione che regola gli aumenti o le diminuzioni di pena in caso di concorso di circostanze aggravanti o di circostanze attenuanti dà luogo ad una mera irregolarità che non vizia quindi la sentenza, se la pena irrogata resta nei limiti di legge e non emerge l'inosservanza delle norme che provvedono alla quantificazione della pena.

Cass. pen. n. 41702/2004

La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell'ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato globalmente gli elementi indicati nell'art. 133 c.p. Anzi, non è neppure necessaria una specifica motivazione tutte le volte in cui la scelta del giudice risulta contenuta in una fascia medio bassa rispetto alla pena edittale.

Cass. pen. n. 35164/2003

L'obbligo stabilito dall'art. 132, secondo comma, c.p., impone di non oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, dopo che siano stati computati tutti gli aumenti e le diminuzioni relativi al concorso di circostanze attenuanti e aggravanti, e tali limiti non possono essere superati neanche della pena patteggiata, avente natura conforme alle attenuanti. (Fattispecie nella quale il giudice aveva applicato, per il reato di furto pluriaggravato, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti contestate, la pena di mesi tre di reclusione).

Cass. pen. n. 5339/1996

I limiti minimi legali per ciascuna pena sono stati stabiliti in modo assoluto, facendo salvi i casi espressamente determinati dalla legge, fra i quali non rientra certo la disposizione di cui all'art. 444 c.p.p., in tema di patteggiamento, che prevede solo una diminuzione di pena.

Cass. pen. n. 3632/1995

Per l'ipotesi in cui la violazione ascritta all'imputato sia prevista alternativamente la pena dell'arresto e quella dell'ammenda (nella specie art. 651 c.p.), il giudice non è tenuto ad esporre diffusamente le ragioni in base alle quali ha applicato la misura massima della sanzione pecuniaria, perché, avendo l'imputato beneficiato di un trattamento obiettivamente più favorevole rispetto all'altra più rigorosa indicazione della norma, è sufficiente che dalla motivazione sul punto risulti la considerazione conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la decisione. Poiché l'equità, cui il giudice faccia cenno per dare ragioni delle scelte, rappresenta un criterio di sintesi che dà spiegazione dell'orientamento logico e valutativo del ragionamento seguito, l'accenno all'equità stessa esaurisce l'obbligo della motivazione in ordine all'applicazione della misura massima della pena pecuniaria edittale, prevista alternativamente alla pena dell'arresto.

Cass. pen. n. 9442/1993

Il limite minimo di quindici giorni previsto dalla legge per la reclusione (art. 23 c.p.) non è suscettibile di riduzione sia ai fini del computo della pena da infliggere in concreto sia ai fini dei calcoli intermedi consistenti anch'essi in un aumento o in una diminuzione della pena. Infatti la portata dell'art. 132 cpv. c.p., secondo cui, nell'aumento o nella diminuzione della pena, non si possono oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, salvo i casi espressamente determinati dalla legge, non può essere limitata al risultato finale del calcolo ma investe anche gli aumenti di pena. Ne consegue che il limite legale della reclusione di quindici giorni non può essere vulnerato dalla diminuzione delle attenuanti o diminuenti eventualmente concesse, mentre deve essere aumentato nel minimo consentito per effetto, in ipotesi, della ritenuta continuazione.

Cass. pen. n. 7842/1992

Pur costituendo la adeguatezza della pena nella sua concretezza più il risultato di una intuizione che di un processo logico di natura analitica, il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale di determinazione di essa, per evitare che la discrezionalità si trasformi in arbitrio, ha l'obbligo di enunciare, sia pure concisamente, le ragioni che l'hanno indotto alla decisione in concreto adottata sul punto. (Nella fattispecie, la S.C. ha annullato la sentenza del giudice di appello che, nel ridurre la pena irrogata dal giudice di primo grado, avendola ritenuta eccessiva, così argomentava: «equo appare comminare», senza neppure richiamare i criteri di cui all'art. 133 c.p.).

Cass. pen. n. 12372/1990

Ai fini del trattamento sanzionatorio le disposizioni di cui agli artt. 132 e 133 cit. nella impossibilità di catalogare gli svariati elementi di valore — prevedono innegabili «spazi discrezionali», anche se questi hanno carattere vincolato: essi cioè non si incentrano — come nell'attività amministrativa — su motivi di opportunità, essendovi non solo limiti ben definiti, ma criteri legali che guidano il potere del giudice. E di qui il dovere di una motivazione coerente che consenta il controllo sulle modalità di esplicazione dell'anzidetto potere. Pertanto, trattandosi di discrezionalità vincolata (cosiddetta discrezionalità regolamentata), il giudice deve dar ragione dei criteri legali, essendo la omissione causa di nullità della sentenza; criteri che possono sintetizzarsi in quelli della retribuzione (gravità complessiva del fatto) e della prevenzione speciale (capacità a delinquere in termini di attitudine del reo a commettere crimini).

Cass. pen. n. 12364/1990

Pur costituendo la adeguatezza della pena nella sua concretezza più il risultato di una intuizione che di un processo logico di natura analitica, il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale di determinazione di essa, per evitare che la discrezionalità si trasformi in arbitrio, ha l'obbligo di enunciare, sia pure concisamente, le ragioni che l'hanno indotto alla decisione in concreto adottata sul punto. (Nella fattispecie, la S.C. ha annullato la sentenza del giudice di appello che, nel ridurre la pena irrogata dal giudice di primo grado, avendola ritenuta eccessiva, così argomentava: «equo appare comminare», senza neppure richiamare i criteri di cui all'art. 133 c.p.).

Cass. pen. n. 10408/1990

L'irrogazione di una pena o di un aumento di pena per la continuazione, in misura intermedia tra minimo e massimo implica per ciò stesso un corretto uso del potere discrezionale del giudice e, escludendo ogni abuso, non abbisogna di specifica motivazione.

Cass. pen. n. 10009/1990

Il giudizio con il quale il giudice di merito apprezza l'entità dell'intero fatto in relazione a tutti gli elementi e alle circostanze che lo compongono, al fine di determinare il grado di responsabilità dell'imputato e l'adeguatezza della pena, rientra nell'ambito della discrezionalità dello stesso giudice e per essa non è richiesta un'analitica esposizione dei criteri di valutazione adottati, ma è sufficiente la sola indicazione degli elementi scelti per la formulazione del giudizio globale, tenendo conto di tutte le componenti del fatto criminoso.

Cass. pen. n. 2350/1990

La determinazione della misura della pena è compito esclusivamente affidato alla prudente valutazione del giudice di merito. Trattandosi di una potestà interamente affidata alla discrezionalità, il controllo sulla corretta applicazione della legge può essere esercitato esclusivamente sulla motivazione che sorregge la decisione. Poiché è peraltro inesigibile, di fronte ad una gamma di discrezionalità tanto vasta quale quella affidata al giudice di merito dal combinato disposto degli artt. 132, 133 ed 81 del c.p., una motivazione che spieghi le ragioni delle differenze tra l'entità della pena concretamente prescelta ed un'altra di poco inferiore (o eventualmente superiore) l'obbligo della motivazione deve intendersi adempiuto tutte le volte che la scelta del giudice di merito venga a cadere su una pena che per la sua entità globale, non appare, sul piano della logica, manifestamente sproporzionata rispetto al fatto oggetto di sanzione. Quando poi il giudice di merito si discosti dai minimi edittali, e determini la pena entro i limiti segnati dall'art. 81 c.p. la discrezionalità diventa di tale ampiezza da assorbire anche le potestà di riduzione che la legge affida al giudice ai sensi dell'art. 62 bis c.p. In tali casi, poiché la «diminuzione della pena» può essere ottenuta per altre vie e con la utilizzazione di altri e diversi strumenti giuridici, non rimane spazio per l'applicazione delle attenuanti generiche, posto che queste ultime sono strumentali alla realizzazione di diminuzioni di pena non ottenibili con l'uso di poteri discrezionali previsti dagli artt. 132 e 133 c.p.

Cass. pen. n. 112/1990

I parametri di riferimento per il giudice di merito per la graduazione dell'entità della pena sia quando deve applicarsi una sola circostanza (aggravante od attenuante) che quando trattasi di più circostanze (aggravanti od attenuanti) ed i limiti entro cui operano gli aumenti ovvero le diminuzioni di pena sono previsti dagli artt. 66 e 68 c.p. È all'interno, appunto, di questi limiti che si articola il potere discrezionale del giudice nella determinazione dell'entità della variazione (o delle successive variazioni) da apportare alla pena base quando ricorrano una ovvero più circostanze. Tale potere discrezionale non può essere censurato in sede di legittimità attraverso la mera critica alla valutazione delle prove fatta dai giudici di merito ovvero attraverso una propria interpretazione delle risultanze processuali diversa da quella cui i detti giudici sono pervenuti e sostitutiva di essa.

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Cliente chiede
mercoledì 25/09/2024
“Buongiorno,
Spero di riuscire ad essere chiaro a porvi il mio quesito .
Sono stato imputato in un procedimento penale per un fallimento del febbraio 2020 , la pubblica accusa mi ha inserito inspiegabilmente come amministratore di fatto in quanto un socio , oltre a me sono imputati gli amministratori reali che si sono susseguiti .
Con intesa con il curatore fallimentare prima dell’udienza preliminare ci ha proposto una transazione con il giudice delegato in una sorta di chiusura tombale della responsabilità civile ed economica anche di intesa con il pm .
Oggi mi vedo imputato normalmente come gli altri che non hanno riparato il danno quantificato dalla pubblica accusa e dal giudice delegato soddisfacenti tutte le loro richieste con la mia transazione sono riusciti a pagare al 100% il debito verso i dipendenti e non solo anche in riferimento alle dichiarazione di distribuzione del curatore .oggi non solo sono imputato ma anche alcuni dipendenti sono parte civile senza estrapolare la mia persona .
Chiedo se possibile avere un vostro parere in merito .
Grazie”
Consulenza legale i 03/10/2024
Quanto esposto nella richiesta di parere è del tutto normale e di seguito ne spieghiamo le ragioni, nel modo più semplice possibile, vista la complessità del tema.

Stando a quanto si riferisce, il richiedente il parere era imputato, quale amministratore di fatto, in un procedimento penale riguardante verosimilmente il reato di bancarotta, visto il riferimento al fallimento.

Ora, in ogni procedimento penale bisogna distinguere due fronti: quello strettamente penale (che attiene alla punizione del reato commesso) e quello civile che riguarda, invece, il risarcimento del danno che è stato causato dal reato che e che compete, come è ovvio che sia, al responsabile del reato, laddove si arrivi all’affermazione di colpevolezza.

Questi due fronti, sebbene connessi (in quanto ogni reato genera un danno che va risarcito), devono ritenersi sempre e comunque “separati” quantomeno con riferimento all’influenza che ha il risarcimento del danno sulla sussistenza del reato.
Detto in parole povere ciò vuol dire che il procedimento penale non cessa se l’imputato risarcisce il danno atteso che tale evenienza si verifica solo in alcune risicatissime ipotesi, espressamente previste dalla legge e generalmente per reati poco gravi.

In tali ipotesi non rientra il reato di bancarotta che va a punire la condotta dell’imprenditore che compie determinate attività, opportunamente censurate dal codice della crisi d’impresa, che diminuiscono la garanzia dei creditori.
Queste condotte, secondo la legge attuale, devono essere punite e il fatto che l’imprenditore proceda a risarcire il danno da bancarotta (che si riduce spesso al passivo fallimentare) non determina la cessazione del processo penale che, quindi, seguirà il suo corso.

L’unico effetto immediato del risarcimento sarà:
- che la curatela non potrà costituirsi parte civile nel processo penale e che, almeno dal punto di vista civilistico, il soggetto che ha risarcito non può subire ulteriori conseguenze;
- Che il giudice penale potrà valutare tale condotta per l’applicazione delle attenuanti o comunque per essere più mite nell’applicazione della pena stante il combinato disposto degli articolo 132 e 133 c.p.

Questa è, in estrema sintesi, la ragione per la quale il processo penale ha continuato a svolgersi sebbene il risarcimento operato dall’amministratore di fatto (risarcimento che potrebbe rivelarsi mossa non furbissima in quanto potrebbe essere interpretato dal PM come una confessione indiretta di colpevolezza).