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Articolo 53 Testo unico sul pubblico impiego (TUPI)

(D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165)

[Aggiornato al 17/09/2024]

Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi

Dispositivo dell'art. 53 TUPI

1. Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, salva la deroga prevista dall'art. 23 bis del presente decreto, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dall'art. 6, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 marzo 1989, n. 117 e dall'art. 1, commi 57 e seguenti della legge 23 dicembre 1996, n. 662. Restano ferme altresì le disposizioni di cui agli articoli 267, comma 1, 273, 274, 508 nonché 676 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, all'art. 9, commi 1 e 2, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, all'art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, ed ogni altra successiva modificazione ed integrazione della relativa disciplina.

1-bis. Non possono essere conferiti incarichi di direzione di strutture deputate alla gestione del personale a soggetti che rivestano o abbiano rivestito negli ultimi due anni cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali o che abbiano avuto negli ultimi due anni rapporti continuativi di collaborazione o di consulenza con le predette organizzazioni.

2. Le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati.

3. Ai fini previsti dal comma 2, con appositi regolamenti, da emanarsi ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono individuati gli incarichi consentiti e quelli vietati ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonché agli avvocati e procuratori dello Stato, sentiti, per le diverse magistrature, i rispettivi istituti.

3-bis. Ai fini previsti dal comma 2, con appositi regolamenti emanati su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, di concerto con i Ministri interessati, ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, sono individuati, secondo criteri differenziati in rapporto alle diverse qualifiche e ruoli professionali, gli incarichi vietati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2.

4. Nel caso in cui i regolamenti di cui al comma 3 non siano emanati, l'attribuzione degli incarichi è consentita nei soli casi espressamente previsti dalla legge o da altre fonti normative.

5. In ogni caso, il conferimento operato direttamente dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d'impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente.

6. I commi da 7 a 13 del presente articolo si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, compresi quelli di cui all'art. 3, con esclusione dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali. Sono nulli tutti gli atti e provvedimenti comunque denominati, regolamentari e amministrativi, adottati dalle amministrazioni di appartenenza in contrasto con il presente comma. Gli incarichi retribuiti, di cui ai commi seguenti, sono tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso. Sono esclusi i compensi e le prestazioni derivanti:

  1. a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili;
  2. b) dalla utilizzazione economica da parte dell'autore o inventore di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali;
  3. c) dalla partecipazione a convegni e seminari;
  4. d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate;
  5. e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo;
  6. f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita;
  7. f-bis) da attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica.
  8. f-ter) dalle prestazioni di lavoro sportivo, fino all'importo complessivo di 5.000 euro annui, per le quali è sufficiente la comunicazione preventiva(3).

7. I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.

7-bis. L'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti.

8. Le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Salve le più gravi sanzioni, il conferimento dei predetti incarichi, senza la previa autorizzazione, costituisce in ogni caso infrazione disciplinare per il funzionario responsabile del procedimento; il relativo provvedimento è nullo di diritto. In tal caso l'importo previsto come corrispettivo dell'incarico, ove gravi su fondi in disponibilità dell'amministrazione conferente, è trasferito all'amministrazione di appartenenza del dipendente ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.

9. Gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. In caso di inosservanza si applica la disposizione dell'art. 6, comma 1, del decreto legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, e successive modificazioni ed integrazioni. All'accertamento delle violazioni e all'irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, avvalendosi della Guardia di finanza, secondo le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni ed integrazioni. Le somme riscosse sono acquisite alle entrate del Ministero delle finanze.

10. L'autorizzazione, di cui ai commi precedenti, deve essere richiesta all'amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti pubblici o privati, che intendono conferire l'incarico; può, altresì, essere richiesta dal dipendente interessato. L'amministrazione di appartenenza deve pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta stessa. Per il personale che presta comunque servizio presso amministrazioni pubbliche diverse da quelle di appartenenza, l'autorizzazione è subordinata all'intesa tra le due amministrazioni. In tal caso il termine per provvedere è per l'amministrazione di appartenenza di 45 giorni e si prescinde dall'intesa se l'amministrazione presso la quale il dipendente presta servizio non si pronunzia entro 10 giorni dalla ricezione della richiesta di intesa da parte dell'amministrazione di appartenenza. Decorso il termine per provvedere, l'autorizzazione, se richiesta per incarichi da conferirsi da amministrazioni pubbliche, si intende accordata; in ogni altro caso, si intende definitivamente negata(1).

11. Entro quindici giorni dall'erogazione del compenso per gli incarichi di cui al comma 6, i soggetti pubblici o privati comunicano all'amministrazione di appartenenza l'ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici. Per le prestazioni di lavoro sportivo, le comunicazioni di cui al primo periodo sono effettuate entro i trenta giorni successivi alla fine di ciascun anno di riferimento, in un'unica soluzione, ovvero alla cessazione del relativo rapporto di lavoro se intervenuta precedentemente(3).

12. Le amministrazioni pubbliche che conferiscono o autorizzano incarichi, anche a titolo gratuito, ai propri dipendenti comunicano in via telematica, nel termine di quindici giorni, al Dipartimento della funzione pubblica gli incarichi conferiti o autorizzati ai dipendenti stessi, con l'indicazione dell'oggetto dell'incarico e del compenso lordo, ove previsto.

13. Le amministrazioni di appartenenza sono tenute a comunicare tempestivamente al Dipartimento della funzione pubblica, in via telematica, per ciascuno dei propri dipendenti e distintamente per ogni incarico conferito o autorizzato, i compensi da esse erogati o della cui erogazione abbiano avuto comunicazione dai soggetti di cui al comma 11.

14. Al fine della verifica dell'applicazione delle norme di cui all'art. 1, commi 123 e 127, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e successive modificazioni e integrazioni, le amministrazioni pubbliche sono tenute a comunicare al Dipartimento della funzione pubblica, in via telematica, tempestivamente e comunque nei termini previsti dal decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, i dati di cui agli articoli 15 e 18 del medesimo decreto legislativo n. 33 del 2013, relativi a tutti gli incarichi conferiti o autorizzati a qualsiasi titolo. Le amministrazioni rendono noti, mediante inserimento nelle proprie banche dati accessibili al pubblico per via telematica, gli elenchi dei propri consulenti indicando l'oggetto, la durata e il compenso dell'incarico nonché l'attestazione dell'avvenuta verifica dell'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Le informazioni relative a consulenze e incarichi comunicate dalle amministrazioni al Dipartimento della funzione pubblica, nonché le informazioni pubblicate dalle stesse nelle proprie banche dati accessibili al pubblico per via telematica ai sensi del presente articolo, sono trasmesse e pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un formato digitale standard aperto che consenta di analizzare e rielaborare, anche a fini statistici, i dati informatici. Entro il 31 dicembre di ciascun anno il Dipartimento della funzione pubblica trasmette alla Corte dei conti l'elenco delle amministrazioni che hanno omesso di trasmettere e pubblicare, in tutto o in parte, le informazioni di cui al terzo periodo del presente comma in formato digitale standard aperto. Entro il 31 dicembre di ciascun anno il Dipartimento della funzione pubblica trasmette alla Corte dei conti l'elenco delle amministrazioni che hanno omesso di effettuare la comunicazione, avente ad oggetto l'elenco dei collaboratori esterni e dei soggetti cui sono stati affidati incarichi di consulenza.

15. Le amministrazioni che omettono gli adempimenti di cui ai commi da 11 a 14 non possono conferire nuovi incarichi fino a quando non adempiono.[I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9.](2)

16. Il Dipartimento della funzione pubblica, entro il 31 dicembre di ciascun anno, riferisce al Parlamento sui dati raccolti, adotta le relative misure di pubblicità e trasparenza e formula proposte per il contenimento della spesa per gli incarichi e per la razionalizzazione dei criteri di attribuzione degli incarichi stessi.

16-bis. La Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica può disporre verifiche del rispetto delle disposizioni del presente articolo e dell'art. 1, commi 56 e seguenti, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, per il tramite dell'Ispettorato per la funzione pubblica. A tale fine quest'ultimo opera d'intesa con i Servizi ispettivi di finanza pubblica del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato.

16-ter. I dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell'attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti.

Note

(1) Il D.L. 19 maggio 2020, n. 34, ha disposto (con l'art. 247, comma 9) che "Nelle more dell'adozione del decreto di cui all'articolo 3, comma 15, della legge 19 giugno 2019, n. 56, il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri individua i componenti delle commissioni esaminatrici sulla base di manifestazioni di interesse pervenute a seguito di apposito avviso pubblico. A tal fine e per le procedure concorsuali di cui al presente articolo, i termini di cui all'articolo 53, comma 10, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, relativi all'autorizzazione a rivestire l'incarico di commissario nelle procedure concorsuali di cui al presente articolo, sono rideterminati, rispettivamente, in dieci e quindici giorni".
(2) Con sentenza 29 aprile - 5 giugno 2015, n. 98, la Corte Costituzionale ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 nella parte in cui prevede che «I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9»".
(3) Il presente articolo è stato modificato dall'art. 3, comma 1, lettere a) e b) del D.L. 31 maggio 2024, n. 71, convertito con modificazioni dalla L. 29 luglio 2024, n. 106, che ha disposto l'introduzione della lettera f-ter) al comma 6 e la modifica del comma 11.

Massime relative all'art. 53 TUPI

Cass. civ. n. 3467/2019

Nei confronti dei dirigenti medici opera il regime delle incompatibilità, cumulo di impieghi ed incarichi di cui all'art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, quale precipitato dell'obbligo di esclusività sancito per i dipendenti pubblici dall'art. 98 Cost.; tale regime non è derogato neppure nei confronti di coloro che ricoprano ruoli di governo di aziende pubbliche di servizi alla persona, dovendosi escludere che il legislatore abbia inteso equiparare tale categoria di soggetti integralmente e ad ogni effetto agli amministratori degli enti territoriali, in forza dell'art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 207 del 2001, che invece dispone per gli organi delle aziende di servizi un rinvio limitato a taluni specifici istituti di garanzia previsti per i rappresentati degli enti locali.

Cass. civ. n. 3622/2018

Da una lettura complessiva del D.P.R. 16 gennaio 2002, n. 18, si desume che, aldilà degli specifici obblighi previsti in singole disposizioni, tutta la disciplina in materia di indipendenza e "autonomia tecnica" dettata per i dipendenti delle Agenzie fiscali - più rigorosa rispetto a quella ordinaria dei pubblici dipendenti, specialmente con riguardo all'incompatibilità e al cumulo di impieghi - risponde a due principi generali: a) il principio secondo cui "il dipendente salvaguarda l'immagine e la credibilità dell'Agenzia di appartenenza e delle funzioni istituzionali a questa demandate, evitando ogni possibile condizionamento dell'attività di servizio"; b) il principio in base al quale "il dipendente evita le attività che possono condurre a conflitti di interesse con l'Agenzia di appartenenza e che possono interferire con la sua capacità di adottare decisioni imparziali".

Corte cost. n. 98/2015

È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 76 Cost., l'art. 53, comma 15, D.Lgs. n. 165/2001 ("Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche"), nella parte in cui prevede che gli enti pubblici economici e i privati che conferiscono incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione della amministrazione di appartenenza e che omettano di comunicare a quest'ultima, entro quindici giorni, l'ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici, incorrono nella sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti.

Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella versione introdotta» dall'art. 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), nella parte in cui prevede che «I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9».

Corte cost. n. 41/2015

È manifestamente inammissibile, in quanto prospettata in forma ancipite, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 53, comma 7, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, impugnato, in riferimento agli artt. 36, primo comma, 41, primo comma, e 97, primo comma, Cost., nella parte in cui prevede che, per i dipendenti pubblici che abbiano svolto incarichi retribuiti non conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza, "il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti". Il giudice rimettente ha sollevato la questione sulla base di una duplice e irrisolta prospettiva interpretativa - la prima, fatta propria dalla sentenza oggetto di opposizione nel giudizio a quo, secondo cui l'amministrazione di appartenenza deve prioritariamente escutere il soggetto che ha ricevuto le prestazioni lavorative non autorizzate, a nulla rilevando l'eventuale già avvenuto pagamento; la seconda, frutto di un diverso e recente orientamento giurisprudenziale, secondo cui in quest'ultima - ipotesi l'amministrazione avrebbe titolo per agire direttamente nei confronti del pubblico dipendente - senza optare per l'una o l'altra delle ricostruzioni ermeneutiche indicate, ciascuna delle quali è orientata a un proprio petitum e a una differente soluzione decisoria.

Cass. civ. n. 617/2015

L'istituto della decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli articoli 60 e seguenti del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, si applica ai dipendenti di cui all'art. 2, commi 2 e 3, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in forza dell'espressa previsione contenuta nell'art. 53, comma 1, dello stesso decreto, che, riguardando la materia delle incompatibilità, è estraneo all'ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all'art. 55 dello stesso testo normativo.

C. Conti n. 216/2014

L'autorizzazione prevista dall'art. 53 comma 7 D.Lgs. n. 165 del 2001 è volta a verificare, in concreto: l'esistenza di eventuali situazioni di conflittualità tra le funzioni assegnate al singolo dipendente e gli interessi della struttura di appartenenza; la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza nonché con le mansioni e le posizioni di responsabilità attribuite al dipendente stesso; la occasionalità o saltuarietà del nuovo incarico; la materiale compatibilità, in termini di impegno, del nuovo incarico con il rapporto di pubblico impiego; le specificità attinenti alla posizione del dipendente stesso e la corrispondenza fra il livello di professionalità posseduto dal dipendente e la natura dell'incarico esterno a lui affidato.

L'inosservanza del divieto posto dall'art. 53 comma 7 D.Lgs. n. 165 del 2001 impone al lavoratore che ha disatteso l'obbligo di esclusività del rapporto di pubblico impiego, il versamento, a favore all'amministrazione di appartenenza, del compenso dovuto per le prestazioni non autorizzate. Qualora il lavoratore non abbia ancora percepito dette somme, l'amministrazione di appartenenza potrà invece agire direttamente nei confronti dell'erogatore esterno.

Il versamento alla propria amministrazione di compensi extraistituzionali percepiti da un pubblico dipendente privo dell'autorizzazione allo svolgimento di incarichi esterni previsto dall'art. 53 comma 7 D.Lgs. n. 165 del 2001, va calcolato tenendo conto del netto e non del lordo percepito dal lavoratore.

La sanzione prevista dall'art. 53 comma 7 D.Lgs. n. 165 del 2001 non riveste natura penale, in quanto l'espletamento di una occasionale attività extralavorativa, non avendo una offensività elevata, renderebbe sproporzionate le conseguenze derivanti da tale tipo di sanzione. Si tratta, pertanto, di una sanzione prettamente amministrativa, rafforzativa di quella disciplinare ed avente una ragionevole "ratio" preventiva e dissuasiva.

La previsione dell'art. 53 comma 7 D.Lgs. n. 165 del 2001 di una sanzione amministrativa in aggiunta a quella disciplinare rafforza la finalità di prevenire e reprimere condotte che possono porsi in contrasto con il buon andamento e l'imparzialità della P.A. e dei suoi funzionari (art. 98 Cost.). Uno Stato può infatti imporre una doppia sanzione (fiscale e penale, amministrativa e penale, amministrativa e disciplinare) per gli stessi fatti, purché le misure punitive abbiano diversa natura e diversi fini.

La controversia concernente il mancato versamento, all'amministrazione di appartenenza, delle somme indebitamente percepite dal lavoratore per lo svolgimento di attività extraistituzionali rappresenta una ipotesi di responsabilità erariale tipica che radica la giurisdizione in capo alla Corte dei Conti.

Il regime autorizzatorio previsto dall'art. 53 comma 7 D.Lgs. n. 165 del 2001 risponde all'esigenza di consentire al datore di lavoro di valutare la compatibilità dell'attività extralavorativa eventualmente esercitata dal dipendente pubblico, con il corretto e puntuale espletamento, in modo terzo ed imparziale, della prestazione contrattualmente dovuta dal lavoratore alla P.A., in ossequio anche al principio costituzionale di tendenziale esclusività (art. 98 Cost.) e di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.).

Nel pubblico impiego, il divieto di espletare incarichi extraistituzionali è attenuato dalle disposizioni contenute nel comma 7 e nel comma 6 dell'art. 53 D.Lgs. n. 165 del 2001, in base alle quali al dipendente pubblico è concesso, rispettivamente, di svolgere attività occasionali "liberalizzate" o espletabili previa autorizzazione datoriale, ovvero attività liberamente esercitabili anche senza previa autorizzazione, in quanto espressive di basilari libertà costituzionali.

Il rapporto di lavoro con il datore pubblico è caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d. regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente pubblico è preclusa la possibilità di svolgere attività extralavorative. La ratio di tale divieto risiede nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico, per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della P.A., che risulterebbe turbato dall'espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto.

Cass. civ. n. 24689/2010

Gli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 - in base ai quali non è consentito ai dipendenti pubblici a tempo parziale di svolgere contemporaneamente anche la libera professione di avvocato - non sono in contrasto con i principi comunitari di uguaglianza, di libera prestazione dei servizi e di tutela della concorrenza, poiché tale normativa ha inciso sul modo di svolgere il servizio presso gli enti pubblici e non sulle modalità di organizzazione della professione forense; i dipendenti pubblici, del resto, non svolgono un'attività economica assimilabile a quella di impresa ed il divieto di cui alla citata legge è giustificato nell'ottica per cui i medesimi devono essere ad esclusivo servizio dell'interesse pubblico.

Cass. civ. n. 8642/2010

In materia di pubblico impiego contrattualizzato, alla luce delle disposizioni dei decreti legislativi n. 165 del 2001 (art. 53) e 267 del 2000 (art. 92), nonché della legge n. 662 del 1996 (art. 1, comma 58-bis, aggiunto dall'art. 6 del D.L. n. 79 del 1997, conv. con mod. dalla legge n. 40 del 1997), non sussiste un divieto di cumulo di impieghi per i dipendenti degli enti locali, essendo invece prevista la possibilità per i medesimi di svolgere prestazioni per conto di altri enti, previa autorizzazione dell'Amministrazione di appartenenza, a meno che tale divieto non sia espressamente contemplato dallo Statuto del singolo ente locale o dalla contrattazione collettiva, secondo quanto disposto dall'art. 89, lett. g, del D.Lgs. n. 267 citato. (Fattispecie relativa a procedimento disciplinare attivato nei confronti di un dipendente part-time di un comune, con la qualifica di capo dell'ufficio tecnico, in relazione ad un incarico assunto da questi presso altra Amministrazione comunale).

Cass. civ. n. 18608/2009

In materia di pubblico impiego, la disciplina dell'incompatibilità prevista dagli artt. 60 e seguenti del D.P.R. n. 3 del 1957, - applicabile a tutti i dipendenti pubblici, contrattualizzati e non, a norma dell'art. 53, comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001 nonché ai dipendenti degli enti locali, in virtù dell'abrogazione, da parte dell'art. 64 della legge n. 142 del 1990, dell'art. 241 del R.D. n. 393 del 1934 - prevede che l'impiegato che si trovi in situazione di incompatibilità venga diffidato a cessare da tale situazione e che, decorsi quindici giorni dalla diffida, decada dall'incarico. Ne consegue che soltanto nel caso in cui l'impiegato ottemperi alla diffida, il suo comportamento assume rilievo disciplinare e rientra nelle previsioni di cui all'art. 55 del decreto citato, posto che, diversamente, trova applicazione l'istituto della decadenza, che non ha natura sanzionatoria o disciplinare, ma costituisce una diretta conseguenza della perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati "ab origine", avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro.

Cass. civ. n. 24669/2007

Con riferimento agli incarichi extragiudiziari, tra la disposizione di cui all'art. 16 del R.D. n. 12 del 1941, secondo cui i magistrati non possono accettare incarichi di qualsiasi specie senza l'autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura, e quella - applicabile anche ai magistrati - contenuta nell'art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001, in base alla quale i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza (comma 7), non esiste un rapporto in termini di abrogazione della prima da parte della seconda, ma di coordinamento e integrazione, atteso che l'esistenza per i dipendenti pubblici di una previsione generale che consenta la possibilità di svolgimento di incarichi non retribuiti non esclude per i magistrati la potestà autorizzatoria dell'organo di autogoverno ai fini della verifica in concreto delle ragioni connesse al prestigio della magistratura e alla funzionalità dell'ufficio giudiziario.

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R U. chiede
lunedì 18/11/2024
“Salve,
Vi scrivo per un dubbio.
Nel 2022 sono stata immessa in un corso concorso dirigenziale per emendamento per dirigenti scolastici. Nel frattempo ho vinto un concorso come funzionario e ho preso sevizio con contratto a tempo indeterminato con conservazione del posto per prova. Successivamente alla prova ho chiesto alla dirigente scolastica e use l’applicazione della legge decreto PA ‘aspettativa per esperienza in altra amministrazione che estende a 3 anni l’aspettativa per poter effettuare il corso concorso dirigenziale ed esser immessa in graduatoria. Ora mi chiedo posso incorrere in qualche sanzione disciplinare o rischio il licenziamento per cumulo di impieghi? Ovviamente io non percepisco stipendio dalla amministrazione in cui sono in aspettativa. Cosa devo comunicare alla amministrazione per cui sto lavorando?
Sono preoccupata. È chiaro che se mi licenziassi dalla scuola perderei il diritto di diventare dirigente scolastico perchè perdendo la funzione docente non avrei più diritto a diventare dirigente scolastico. (almeno credo).
Potete darmi indicazioni in merito?
Cosa comunicare al mio attuale datore di lavoro? Che sono in graduatoria lo sanno perché ho chiesto un periodo per fare il corso concorso.
Ma devo comunicare dell’ aspettativa?
Grazie

Consulenza legale i 28/11/2024
Il caso in esame è particolarmente complesso e presenta alcune incertezze dal punto di vista della normativa applicata.

Innanzitutto, è d’obbligo evidenziare come, anche a seguito del processo di privatizzazione, deve considerarsi permanente nell’ordinamento del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione la regola dell’esclusività del rapporto di lavoro, il cui fondamento giuridico va ricercato negli articoli 97 e 98 della Costituzione e nei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione. Il generale divieto di svolgimento, da parte del dipendente pubblico, di incarichi e attività extraistituzionali è un principio di diretta derivazione del principio di esclusività la cui disciplina, in quanto concorrente all’attuazione di principi contenuti nella nostra Costituzione, è riservata alla legge ed è, pertanto, suscettibile di temperamenti solo mediante deroghe legislative espresse.

Come noto, il principio dell’esclusività è stato normativamente affermato nell’art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 secondo cui “L'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del Ministro competente”. A tale disposizione fanno da corollario ulteriori previsioni contenute nel medesimo decreto presidenziale tra le quali è bene ricordare, per la sua portata anch’essa generale, il divieto di cumulo degli impieghi pubblici posto dall’art. 65, richiamato da codesta Università nel quesito proposto, secondo cui “Gli impieghi pubblici non sono cumulabili, salvo le eccezioni stabilite da leggi speciali.” con la conseguenza che "l'assunzione di altro impiego nei casi in cui la legge non consente il cumulo importa di diritto la cessazione dall'impiego precedente".

L’art. 18 della Legge 183/2010, così come modificato dal Decreto Legge 22 aprile 2023, n. 44, prevede che “ I dipendenti pubblici possono essere collocati in aspettativa, senza assegni e senza decorrenza dell'anzianità di servizio, per un periodo massimo di trentasei mesi e rinnovabile per una sola volta, anche per avviare attività professionali e imprenditoriali.

L'aspettativa è concessa dall'amministrazione, tenuto conto delle esigenze organizzative, previo esame della documentazione prodotta dall'interessato”.


Al comma 2 si legge: “Nel periodo di cui al comma 1 del presente articolo non si applicano le disposizioni in tema di incompatibilità di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni”.
È, quindi, la stessa legge ad escludere l’applicazione delle disposizioni in tema di incompatibilità.

Si precisa che, secondo un parere del Ministero della Funzione pubblica del 26/04/2021, “poiché il legislatore del 2010, nel derogare a tale disposizione, ha richiamato esclusivamente le fattispecie indicate nel citato art. 18 - attività professionali e imprenditoriali -, se ne desume che, in base al tenore letterale della norma ed alla previsione generale di cui al citato art. 60 del T.U. n. 3 del 1957, è preclusa ai dipendenti pubblici, in assenza di una deroga espressa, la stipula di contratti di lavoro subordinato con datori di lavoro privati nel regime in aspettativa in esame”.

Il parere non tratta di lavoro presso altre amministrazioni, ma seguendo il ragionamento del Ministero dovrebbero essere escluso anche il contratto di lavoro subordinato con la PA.

A parere di chi scrive, la formulazione letterale dell’art. 18 Legge 183/2010 non esclude tassativamente la prestazione di lavoro subordinato ed anzi, al comma 2, prefigura una deroga generale alle norme sull’incompatibilità di cui all’art. 53 del TUPI.
Tuttavia, vige sempre il divieto di cumulo di impieghi pubblici evidenziato sopra, che richiederebbe una deroga espressa.

Peraltro, l’aspettativa in questione, disciplinata appunto dalla Legge 183/2010, per sua particolare natura, per i suoi specifici contenuti e per le sue finalità, rappresenta una autonoma tipologia di aspettativa del tutto diversa e distinta dalle altre forme di aspettativa previste a livello normativo e\o contrattuale e in particolare da quelle previste dall’art. 18 del CCNL 2007. relativo al personale del comparto Scuola che prevede un’aspettativa per svolgere una diversa attività lavorativa o per superare un periodo di prova.

La disciplina contrattuale così dispone:
comma 3: “Il dipendente è inoltre collocato in aspettativa, a domanda, per un anno senza assegni per realizzare l’esperienza di una diversa attività lavorativa o per superare un periodo di prova.”
Il docente che richiede aspettativa di cui all’art. 18 comma 3 del CCNL Scuola deve avere la consapevolezza che al termine del periodo indicato dovrà fare una scelta: rientrare a scuola o lasciarla definitivamente per la nuova attività.
Ciò perché l’aspettativa in parola non potrà essere prorogata e il limite riconosciuto è quello dell’anno scolastico di riferimento.
Anche per tale aspettativa non si applicano le disposizioni in tema di incompatibilità di cui all’articolo 53 del D. Lgs. 165/2001, e successive modificazioni, proprio perché specifica allo svolgimento di altra attività lavorativa.

Giova, infine, ricordare che ai sensi dell'articolo 23 bis del D. Lgs. 165/2001, è possibile chiedere di essere collocati “in aspettativa senza assegni per lo svolgimento di attività presso soggetti e organismi, pubblici o privati, anche operanti in sede internazionale, i quali provvedono al relativo trattamento previdenziale”.
Quest’ultimo tipo di aspettativa non può essere applicata nel caso di specie in quanto può essere richiesta soltanto in ragione di rapporto di lavoro a termine di natura subordinata.

Pertanto, nel caso di specie, si dovrà innanzitutto chiarire quale tipo di aspettativa è stata concessa per evitare problemi interpretativi ed applicativi anche da parte dell’amministrazione che l’ha concessa.

A prescindere dal tipo di aspettativa concessa, a parere di chi scrive le amministrazioni dovrebbero essere informate del motivo per cui si chiede l’aspettativa e dell’attività che si va a svolgere, in quanto, ai fini della concessione, devono valutarne eventuali incompatibilità.

Secondo l’art. 18 della Legge 183/2010, infatti, l'aspettativa è concessa dall'amministrazione, tenuto conto delle esigenze organizzative, previo esame della documentazione prodotta dall'interessato.
Sarebbe opportuno comunicare dell’aspettativa all’amministrazione per cui attualmente si lavora, affinché sia ufficialmente a conoscenza dello status del proprio dipendente. È importante che l'amministrazione conosca la situazione per fare le opportune valutazioni.

Anche se in aspettativa senza stipendio è comunque necessario essere trasparenti in modo tale che ogni amministrazione (l’amministrazione scolastica e la PA per cui si lavora attualmente) possa valutare eventuali incompatibilità.

La particolare situazione del caso di specie non è stata prevista dalla legge ed anzi proprio per questo è necessario chiarire la situazione e fare in modo che le amministrazioni possano esprimersi sul punto.

Come correttamente osservato, la perdita del posto di docente comporterebbe la cessazione della funzione docente, e, di conseguenza, la perdita del diritto di partecipare al concorso per dirigente scolastico. È pertanto fondamentale prendere in considerazione tale implicazione prima di decidere eventuali dimissioni o altre azioni che possano influire sul suo status di docente.

Dall’altro lato, le amministrazioni potrebbero ritenere incompatibili tra loro i due incarichi presso la PA contemporaneamente in essere e chiedere al dipendente di scegliere quale dei due mantenere.

Ai sensi dell’art. 53, comma 8, D. Lgs. 165/2001, le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi.
L’applicazione delle incompatibilità di cui all’art. 53 citato è espressamente esclusa nel caso di cui all’aspettativa di cui alla Legge 183/2010.

Tuttavia, nel caso di specie, come visto, potrebbe essere in dubbio che tale tipo di aspettativa si possa applicare al caso di specie.

Il conferimento di incarichi senza la previa autorizzazione comporta ai sensi dell’art. 53 D. Lgs. 165/2001, la cui applicazione è tuttavia esclusa nel caso di cui all’aspettativa di cui alla Legge 183/2010:
  • per il funzionario responsabile del procedimento: infrazione disciplinare, nullità del provvedimento e il compenso previsto come corrispettivo dell'incarico è versato direttamente all’amministrazione di appartenenza del dipendente ed è destinato ad incrementare il fondo per la produttività dei dipendenti;
  • il dipendente che svolge l’incarico in assenza di autorizzazione è responsabile disciplinarmente e il relativo compenso è versato, da questi o dall’erogante, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza.
È anche vero che, dal momento che l’attuale amministrazione è a conoscenza della posizione in graduatoria come dirigente scolastico, dovrebbe essere anche a conoscenza del rapporto di lavoro come docente. Tuttavia, sarebbe opportuno essere il più possibile chiari, con entrambe le amministrazioni.


F. T. chiede
martedì 22/10/2024
“Sono un oss assunto a tempo indeterminato presso l'asl della mia provincia (ASL AL). Avendo anche una laurea, svolgo oramai da 7 anni attività di docenza presso un agenzia di formazione professionale (un'istituto paritario alberghiero), per poche ore l'anno, un totale di 220 ore nel corso dei 10 mesi di attività, mediante contratto di collaborazione. Attività regolamentata da regolamento interno asl e da d.lgs 165 del 2001 come "attività extraistituzionale non soggetta ad autorizzazione" per la quale mi erano state indicate le modalità dall'ufficio competente dell'asl quando iniziai tale attività " da quel momento tutti gli anni inoltro prima dell'inizio dell'anno scolastico una comunicazione di attività extraistituzionale non soggetta ad autorizzazione, in cui indico tipo di attività, ore , luogo e compenso lordo orario che andrò a percepire. Quest'anno mi hanno comunicato, per il momento solo telefonicamente, e anche in malomodo, che per loro il contratto di collaborazione con cui svolgo tale attività non ècompatibile. Ma credo che mi scriveranno anche. Sul regolamento e credo anche il decreto, si parla di attività che possono essere svolte, "anche se sia prevista, SOTTO QUALSIASI FORMA, un compenso". Furono loro ad indicarmi telefonicamente le modalità 7 anni fa, e adesso invece mi ostacolano sulla base di quella che a me sembra essere una loro interpretazione, soggettiva, sulla tipologia di contratto. Sul regolamento non parla di tipologie di contratti, tranne la frase poco sopra citata "sotto qualsiasi forma, un compenso" può l'amministrazione bloccare questa mia attività che non dovrebbe nemmeno essere sottoposta ad autorizzazione? Ma soprattutto la mia paura è: possono avermi fatto svolgere per sette anni questa attività (io ho le comunicazione di inizio attività per ogni anno, loro quindi erano informati su tutto) e ora sostenere che non avevo l'autorizzazione e chiedermi eventualmente un risarcimento? Ripeto, dopo aver avallato (secondo me in conformità con il d.lgs ed il regolamento) per tutti questi anni tale attività? Esiste un articolo del decreto 165 del 2001 che vincola l'attività extraistituzionale di docenza alla tipologia di contratto? O qualche altra legge che lo faccia? Grazie per la risposta”
Consulenza legale i 30/10/2024
La norma di riferimento in tema di incompatibilità è l’art. 53 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, il quale a sua volta richiama l’art. 60 e seguenti del D.P.R. 3/1957.
L’art. 60 del D.P.R. 3/1957 vieta ai dipendenti pubblici di esercitare il commercio, l'industria, e qualsiasi professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro.
Il dipendente pubblico è obbligato a prestare il proprio lavoro in maniera esclusiva nei confronti dell’Amministrazione da cui dipende. A questo principio di carattere generale fanno eccezione alcuni regimi speciali (ad esempio la possibilità per i docenti di esercitare la libera professione) ed il personale in part time con prestazione lavorativa non superiore al 50%.
La ratio di tale divieto va rinvenuta nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” art. 98 cost.), per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della p.a., che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto. Difatti, centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico rivestito, implicanti un’attività caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, potrebbero turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e il prestigio della p.a.
In secondo luogo, risulta di fondamentale importanza che le singole amministrazioni disciplinino la materia, con la redazione di un un regolamento ad hoc. La parte essenziale di tale documento dovrebbe riguardare la individuazione delle attività che non possono essere svolte perché determinano un conflitto di interessi, anche solo potenziale. Il vincolo ad adottare questo documento è stato ribadito dalla legge 190/2012, c.d. legge anticorruzione. Ed è bene ricordare che tale vincolo vincolo non esclude i dipendenti in part time fino al 50%; da qui discende come conseguenza l’obbligo da parte di questi dipendenti di comunicare eventuali incarichi remunerati ricevuti.
Vi sono poi una serie di incarichi, espressione di principi costituzionali che non possono essere limitati, come, ad esempio, la libertà di associazione, di pensiero, la partecipazione ad associazioni, comitati scientifici, collaborazioni giornalistiche, relazioni in convegni, ecc.
Tali tipologie di incarichi – anche se in alcuni casi retribuiti – non necessitano di autorizzazione, purché siano svolti al di fuori dell’orario di servizio e non pregiudichino l’impegno principale che viene espletato nell’amministrazione di appartenenza.
L’art. 53, comma 6, del d. Lgs. 165/2001 indica espressamente le seguenti attività liberalizzate:
A) collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili (l’amministrazione può pretendere che il dipendente sia preventivamente autorizzato ad utilizzare la qualifica di appartenenza ed esigere la precisazione che quanto scritto non rappresenti la linea di azione dell’amministrazione di titolarità);
B) utilizzazione economica, da parte dell’autore, di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali;
C) partecipazione a convegni e seminari; la partecipazione a convegni e seminari; sul punto si tenga conto che secondo la dottrina occorre distinguere tra le partecipazioni a convegni e seminari e l’attività didattica o di docenza in senso lato, la quale è invece soggetta ad autorizzazione e restanti adempimenti; un criterio distintivo suggerito è quello di valutare se l’evento pubblico a cui il dipendente partecipa si configura per la prevalenza dell’aspetto didattico e formativo (che implica l’autorizzazione) rispetto a quello divulgativo di confronto e di dibattito;
D) incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate (in questi casi il dipendente dovrà conservare copia della relativa documentazione);
E) incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo;
F) incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita;
F-bis) attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica.
I predetti incarichi non necessitano di comunicazione al Dipartimento della Funzione Pubblica in quanto liberalizzati e, quindi, non assoggettati ad autorizzazione. Si tenga conto, tuttavia, che molti regolamenti delle Pubbliche amministrazioni richiedono, in ogni caso, l’autorizzazione preventiva. Sarebbe opportuno verificare nel caso di specie che cosa dice sul punto il regolamento aziendale.
L’articolo 53, comma 6, lettera f-bis, esclude, quindi, dall’obbligo di autorizzazione le attività di formazione, docenza e ricerca scientifica per i dipendenti della pubblica amministrazione.
Sul punto la Circolare del Ministero della Giustizia del 23 Novembre 2022, ha fornito chiarimenti sull’applicazione di tale normativa per i propri dipendenti, affermando che ogni forma di docenza è esente dall’obbligo di autorizzazione, indipendentemente dalla natura pubblica o privata dei soggetti coinvolti. È, tuttavia, previsto un obbligo di comunicazione all’ufficio di appartenenza per consentire la valutazione di eventuali conflitti di interesse.
Il dipendente deve comunicare formalmente la sua partecipazione come docente, tutor o relatore a corsi e seminari, includendo:
  • Soggetto conferente;
  • Oggetto e natura della prestazione;
  • impegno e retribuzione eventualmente prevista.
Fine modulo
Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha diramato i “Criteri generali in materia di incarichi vietati ai dipendenti delle Amministrazioni pubbliche”.
In tale circolare, ha chiarito i criteri generali relativi agli incarichi vietati ai dipendenti pubblici. Questa circolare sottolinea che:
  • Gli incarichi, comprese le deroghe dall’autorizzazione di cui all’art. 53, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001, non possono interferire con l'attività ordinaria del dipendente.
  • La valutazione di compatibilità deve considerare il tempo, la durata, l’impegno richiesto e le responsabilità professionali del dipendente, tenendo conto della qualifica e del ruolo all’interno dell’amministrazione.
Si legge infatti nella circolare che “Gli incarichi, ivi compresi quelli rientranti nelle ipotesi di deroga dall’autorizzazione di cui all’art. 53, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, che interferiscono con l’attività ordinaria svolta dal dipendente pubblico in relazione al tempo, alla durata, all’impegno richiestogli, tenendo presenti gli istituti del rapporto di impiego o di lavoro concretamente fruibili per lo svolgimento dell’attività; la valutazione va svolta considerando la qualifica, il ruolo professionale e/o la posizione professionale del dipendente, la posizione nell’ambito dell’amministrazione, le funzioni attribuite e l’orario di lavoro.
Sotto questo profilo, pertanto, anche attività che non necessitano autorizzazione possono essere considerate incompatibili dalla propria amministrazione per le ragioni di cui sopra.
Indipendentemente dalla consistenza dell'orario di lavoro, pertanto, sono preclusi a tutti i dipendenti pubblici gli incarichi che interferiscono con l’attività ordinaria.
Secondo alcuni, pertanto, le ipotesi c.d. liberalizzate dall’art. 53, comma 6 f-bis, ossia attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica riguardano situazioni occasionali e non continuative, non potendosi ammettere in contemporanea due rapporti distinti con diversi datori di lavori pubblici, salvi i casi in cui sia ammesso il part time.
Pertanto, anche in relazione alle indicazioni del Dipartimento della Funzione pubblica, in sede di rilascio dell’autorizzazione allo svolgimento di incarichi, ex art. 53 del decreto legislativo n. 165 del 2001, si deve tenere conto dell’impegno e della natura degli stessi, che dovranno comunque essere caratterizzati da occasionalità e non dovranno presentare profili, anche potenziali, di conflitto di interesse rispetto all’attività istituzionale.
L’autorizzazione non potrà, quindi, essere accordata qualora l’espletamento degli incarichi integri svolgimento di attività professionale, preclusa al pubblico dipendente a tempo pieno, se svolta con abitualità, sistematicità e continuità (art. 5 del D.P.R. del 1972; art. 53 del D.P.R. 917 del 1986; v. anche Cass. Civ., I, n. 9102/2003; Cass. Civ., II, n. 9019/1993, Cass. Civ., V, n. 15538/2002), ovvero quando l’oggetto dell’incarico evidenzi situazioni, anche potenziali, di conflitto di interesse. Inoltre, l’incarico dovrà svolgersi al di fuori dell’orario di lavoro, eventualmente mediante utilizzo degli istituti contrattuali che disciplinano le assenze del personale (ferie, permessi non retribuiti), compatibilmente con le esigenze dell’amministrazione.
Nel caso di specie, si deve, inoltre, tenere presente la legge 30 dicembre 1991, n. 412, che, all’art. 4, comma 7, afferma che “Con il Servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico rapporto di lavoro. Tale rapporto è incompatibile con ogni altro rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato, e con altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale. Il rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale è altresì incompatibile con l’esercizio di altre attività o con la titolarità o con la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con lo stesso”.
Tale norma non può essere derogata dalle disposizioni del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165. In quest’ultimo decreto si legge, infatti, all’art. 53, comma 1, che “Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, salva la deroga prevista dall’articolo 23-bis del presente decreto, nonché’, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dall’articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 marzo 1989, n. 117 e dall’articolo 1, commi 57 e seguenti della legge 23 dicembre 1996, n. 662. Restano ferme altresì le disposizioni di cui … all’articolo 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, ed ogni altra successiva modificazione ed integrazione della relativa disciplina”.
Nel caso specifico, è stata svolta attività di docenza per sette anni, comunicando annualmente all’ASL. La recente comunicazione dell’ASL sulla presunta incompatibilità del Suo contratto collaborazione solleva interrogativi, specialmente considerando l’approvazione tacita ricevuta negli anni.
Tuttavia, interpretando restrittivamente quanto previsto dall’art. 4, comma 7, legge 412/1991 cit. la collaborazione con l’agenzia di formazione professionale sarebbe in contrasto con l’unicità del rapporto di lavoro con il SSN.
Secondo quanto riferito, tuttavia, gli incarichi di docenza non sono soggetti ad autorizzazione secondo il regolamento aziendale.
In ogni caso, resta fermo il divieto per il dipendente di svolgere attività che possano risultare in concorrenza o in contrasto con l’amministrazione di appartenenza. Pertanto, l’amministrazione potrebbe aver ritenuto in qualche modo incompatibile, l’attività di docenza in parola per una delle motivazioni sopra descritte.
Non esiste un articolo nel D.Lgs. n. 165/2001, né altra normativa, che vincoli l'attività extraistituzionale di docenza a specifiche tipologie contrattuali. La legge si concentra su criteri di compatibilità e conflitto di interessi, piuttosto che su dettagli contrattuali. Le norme sul conflitto di interesse e sull’assenza di interferenze rimangono centrali nella valutazione della compatibilità.
Dal momento che né la normativa, né il regolamento aziendale specificano particolari tipologie contrattuali, limitandosi a stabilire che le attività possono essere svolte “sotto qualsiasi forma” e con compenso, l’amministrazione non dovrebbe vietare la Sua attività di docenza, a meno che non sussistano elementi concreti di incompatibilità, come conflitti d’interesse o interferenze con il servizio.
Per quanto riguarda la preoccupazione riguardo a un possibile risarcimento o sanzione, effettivamente l’omessa richiesta di autorizzazione comporta per i dipendenti, sia sanzioni disciplinari che la sanzione pecuniaria oggetto del contendere. Recita infatti l’art.53, co.7, d.lgs. n.165 che “il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Il novellato comma 7-bis del d.lgs. n.165 (introdotto dalla l. n.190 del 2012) aggiunge che “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilita’ erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”. Il termine di prescrizione per l’eventuale azione dell’amministrazione è quinquennale.
Con la sentenza 238/2020, la Corte dei Conti ha condannato una dipendente alla restituzione degli stipendi di diversi anni e al risarcimento del danno erariale, per mancata richiesta di autorizzazione. Tuttavia, ha sottolineato che in quel caso la dipendente non aveva informato l’amministrazione di appartenenza circa l’esercizio dell’attività di lavoro estranea al rapporto d’impiego; l’emersione del fatto dannoso è conseguita alle verifiche svolte dall’Ispettorato della Funzione Pubblica e dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza.
Tuttavia, nel caso di specie, vi è stata una sorta di approvazione tacita per sette anni. La comunicazione annuale all'ASL, di cui ha tenuto traccia, dimostra che l'amministrazione era informata della Sua attività.
In assenza di comunicazioni formali che attestino un divieto o una modifica delle politiche in materia di attività extraistituzionali durante gli anni passati, è difficile che l’amministrazione possa legittimamente sostenere ora che Lei stesse operando senza autorizzazione e quindi sia tenuto alla restituzione dei compensi.


C. T. chiede
martedì 17/09/2024
“Sono stato assunto a tempo indeterminato come ATA (collaboratore scolastico). Al momento della presa di servizio ho chiesto la trasformazione in part time al 50% (faccio 18 ore su 36). Sono titolare di P.IVA con codice ATECO 10.89.09 cioè laboratorio artigianale con produzione e vendita di pizza a taglio. Lavoro a scuola il lunedi, martedi e mercoledi mentre la mia attività è aperta dalle 17 alle 21 con due dipendenti a tempo indeterminato. Io vado solo qualche ora il fine settimana.
Chiedo se tale attività artigianale è compatibile con il lavoro di collaboratore scolastico.
In caso affermativo se devo chiedere autorizzazione alla scuola.”
Consulenza legale i 25/09/2024
Un dipendente pubblico, se assunto nella pubblica amministrazione con contratto part-time con orario di lavoro inferiore o uguale al 50% dell’orario ordinario, può svolgere un secondo lavoro solo se compatibile con gli orari di servizio, purché non determini un conflitto di interessi con l’impiego pubblico e previa autorizzazione dalla PA di appartenenza.
Se il datore del secondo lavoro è però un privato, tale attività è concessa solo con ritenuta d’acconto o P. Iva. Questo perché il doppio lavoro per il dipendente pubblico è vietato se comporta l’assunzione alle dipendenze di datori lavoro privati al fine di evitare il conflitto di interessi e non violare il principio di imparzialità dalla Pubblica Amministrazione sancito all’art. 97 della Costituzione).

La preventiva autorizzazione serve agli uffici PA di appartenenza per verificare la compatibilità tra il secondo lavoro e il ruolo ricoperto dal lavoratore all’interno dell’Amministrazione.
In particolare, con sentenza n. 9801 del 2024, la Corte di Cassazione, ribadendo quanto già riportato nella sentenza n. 216 del 2014 della Corte dei Conti, ha precisato che: anche se il secondo lavoro svolto “rientra tra le attività compatibili con il pubblico impiego, la concreta valutazione sull’insussistenza dell’incompatibilità spetta comunque al datore di lavoro”. Pertanto, il dipendente pubblico è obbligato sempre a “chiedere autorizzazione per lo svolgimento di attività extraistituzionale”.
Pertanto, si legge nella decisione presa: “L’articolazione della prestazione lavorativa deve essere definita mediante accordo tra l’Amministrazione ed il dipendente, all’ interno del rapporto individuale di lavoro”. In caso contrario, senza preventiva autorizzazione, secondo quanto stabilito dalla sentenza richiamata, la mancanza di autorizzazione può anche comportare una responsabilità disciplinare.


Anonimo chiede
lunedì 26/08/2024
“Buongiorno,

sono un docente a tempo indeterminato a tempo pieno, avendo vinto un posto all’ultimo concorso ordinario. Prima ho lavorato per quattro anni per un’azienda privata.
Sono interessato a intraprendere un secondo lavoro come libero professionista, aprendo regolare partita IVA senza iscrivermi a qualche albo o ordine professionale. Vorrei sapere se vi siano stati dei precedenti legali aventi coinvolto docenti con le seguenti caratteristiche:
- erano docenti a tempo pieno che hanno continuato a restare a tempo pieno;
- hanno intrapreso un secondo lavoro come libero professionista aprendo partita IVA;
- hanno avuto problematiche legali poiché questo secondo lavoro era configurabile come una falsa partita IVA (ad esempio, per via di una perdurante situazione di monocommittenza);
Infatti io prevedo di iniziare ricevendo commesse dal mio precedente datore di lavoro, però temo di impiegare molto tempo prima di poter ricevere commesse anche da altri soggetti. Mi chiedevo quindi se in tale periodo intermedio potessi ricevere un qualche tipo di contestazione da parte di un qualche ente di controllo.

Grazie”
Consulenza legale i 04/09/2024
Tutti i dipendenti pubblici, in linea generale, sono vincolati a svolgere il proprio lavoro in maniera esclusiva.

La norma di riferimento in tema di incompatibilità è l’art. 53 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, il quale a sua volta richiama l’art. 60 e seguenti del D.P.R. 3/1957.
L’art. 60 del D.P.R. 3/1957 vieta ai dipendenti pubblici di esercitare il commercio, l'industria, e qualsiasi professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro. Il dipendente pubblico è obbligato a prestare il proprio lavoro in maniera esclusiva nei confronti dell’Amministrazione da cui dipende.
La legislazione, però, prevede alcune eccezioni, alcune proprio per la categoria dei docenti.

In particolare, l’articolo 508, D.lgs. n. 297/94, illustra i casi di incompatibilità con la professione di insegnante, ovvero:
  • impartire lezioni private ad alunni del proprio istituto;
  • avere un altro rapporto di impiego pubblico;
  • svolgere attività/esercitare attività commerciale, industriale e professionale;
  • assumere o mantenere impieghi alle dipendenze di privati;
  • accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società od enti per i quali la nomina è riservata allo Stato (ad eccezione di cooperative).
Il paragrafo finale, però, indica un’eccezione: “Al personale docente è consentito, previa autorizzazione del dirigente scolastico, l‘esercizio di libere professioni che non siano di pregiudizio all’assolvimento di tutte le attività inerenti alla funzione docente e siano compatibili con l’ orario di insegnamento e di servizio".

Pertanto, il docente può esercitare anche la libera professione, e quindi aprire partita IVA, a due condizioni:
1. La libera professione non deve entrare in conflitto con l’attività di insegnante
2. Le due attività devono svolgersi in fasce orarie differenti.

Se a svolgere la seconda attività è un docente assunto full time, come nel caso di specie, è previsto l’obbligo di richiedere l’autorizzazione al provveditorato per poter aprire una Partita IVA. In caso contrario, il rischio è quello di incorrere in sanzioni disciplinari, fino al licenziamento per giusta causa.

L’attività svolta con partita IVA verrà autorizzata, a condizione che non si ponga in conflitto di interesse con l’attività di insegnamento. Il dirigente scolastico, nello specifico, verificherà:
  • se l’espletamento dell’attività, anche in via solo ipotetica o potenziale, confligga con gli interessi dell’amministrazione e, quindi, con le funzioni assegnate sia al singolo dipendente che alla struttura di appartenenza;
  • la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza (l’incarico dovrà comunque non solo essere svolto fuori dall’orario di lavoro, ma pure compatibilmente con le esigenze di servizio), nonché con le mansioni e posizioni di responsabilità attribuite al dipendente medesimo, interpellando eventualmente a tal fine il responsabile dell’ufficio di appartenenza il quale dovrà esprimere il proprio parere o assenso circa la concessione dell’autorizzazione richiesta;
  • l’occasionalità o saltuarietà ovvero non prevalenza della prestazione sull’impegno derivante dall’orario di lavoro;
  • la materiale compatibilità dello specifico incarico con il rapporto di impiego, tenuto conto del fatto che taluni incarichi retribuiti sono caratterizzati da una particolare intensità di impegno;
  • specificità attinenti alla posizione del dipendente richiedente l’autorizzazione medesima (incarichi già autorizzati in precedenza, assenza di procedimenti disciplinari a suo carico o note di demerito in relazione all’insufficiente livello di rendimento);
  • corrispondenza fra il livello di professionalità posseduto dal dipendente e la natura dell’incarico esterno a lui affidato.
Per quanto riguarda la monocommittenza e il pericolo che venga a configurarsi una finta partita iva, si deve fare riferimento a quanto previsto dall’art. 2 del D. lgs 81/2015.

Tale disposizione ha posto la etero-organizzazione quale criterio fondamentale per l’applicazione delle norme del rapporto di lavoro subordinato, sostituendo il criterio della monocommittenza previsto dalla Riforma Fornero, come criterio discretivo.

Secondo l’art. 2 del Jobs Act, infatti, si fa applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione quando questi consistano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

Tale norma è stata poi riformata dalla legge 128 del 2019 con l’eliminazione del riferimento ai tempi e al luogo di lavoro e l’applicazione della disciplina ai rapporti che si concretano in “prestazioni di lavoro prevalentemente personali”.

La norma in parola introduce, dunque, una presunzione legale di subordinazione, destinata a operare allorché:
  • la prestazione sia svolta in modo prevalentemente personale;
  • la prestazione sia svolta con continuità;
  • la prestazione sia etero organizzata dal committente.

Pertanto, la collaborazione autonoma monocommittente, quando dotata dei suddetti requisiti, viene disciplinata dalle norme del rapporto subordinato.

Ma la conversione non è automatica: l’accertamento dovrà sempre essere effettuato da un giudice che valuti in concreto la sussistenza o meno dell’etero-organizzazione.

La giurisprudenza, in particolare, ha concentrato la sua attenzione sul dato empirico, valorizzando la presenza nella fattispecie concreta di indici sintomatici della situazione di subordinazione, via via elaborati dalla stessa giurisprudenza, fra cui:
  • la continuità nello svolgimento della prestazione lavorativa;
  • la cadenza periodica del relativo compenso;
  • l’alienità del risultato;
  • l’assenza di rischio economico in capo al lavoratore;
  • il fatto che l’attività lavorativa si svolga presso i locali aziendali;
  • una presenza costante sul lavoro, specie se ad orario fisso e caratterizzata da un vero e proprio obbligo di presenza (e dunque con necessità di avvertire e di giustificarsi in caso di assenza);
  • il concordare il periodo feriale;
  • l’utilizzo, per lo svolgimento dell’attività lavorativa, di strumenti di proprietà del datore di lavoro;
  • il ricevere costantemente ordini e disposizioni;
  • la mancanza, in capo al lavoratore, di una propria attività imprenditoriale e della relativa struttura, sia pur minima.
Nessuno degli elementi sopra indicati è, di per sé, determinante ma, laddove sia riscontrabile la contemporanea presenza di più indici tra quelli esemplificativamente indicati, ciò potrà costituire una prova della natura subordinata del rapporto.

A tali criteri si è attenuta l’ordinanza n. 17384 del 27 giugno 2019 della Corte di Cassazione , negando rilevanza alle doglianze formulate dalla società datrice di lavoro contro la pronuncia di merito che aveva riconosciuto, erroneamente a suo dire, la natura subordinata della collaborazione prestata in suo favore sul solo presupposto della presenza nel caso di specie di taluni indizii sussidiari della subordinazione, ed in totale assenza di alcuna prova dell’esercizio del potere direttivo e di controllo sulla prestazione lavorativa resa dal collaboratore ed oggetto della controversia.

La Corte ha, in proposito, ricordato che l’assenza di un potere disciplinare o del potere direttivo esercitato in modo continuativo può non risultare significativo, di per sé, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, dovendo, di contro e soprattutto nei casi di prestazioni lavorative elementari e predeterminate nella modalità dell’esecuzione, dare prevalenza ad elementi distintivi sussidiari, che spetta al Giudice di merito individuare nell’analisi del concreto svolgimento del rapporto di lavoro.
Secondo la Suprema Corte, non è necessario che tutti i criteri distintivi sussidiari, per elevarsi a elemento dirimente, siano in concreto provati, né può ammettersi, come sostenuto nel caso in questione, che la mancanza di prova di uno dei detti criteri costituisca vizio di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta contenuta nella disposizione codicistica, posto che la stessa risulta connotata “esclusivamente dall’assunzione di un’obbligazione di collaborare nell’impresa in cambio di una retribuzione, offrendo una prestazione di lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.

Secondo la giurisprudenza di merito, l’elemento idoneo a caratterizzare il rapporto di lavoro subordinato e a differenziarlo da altri tipi di rapporto (quali quello di lavoro autonomo, la società o l’associazione in partecipazione con apporto di prestazioni lavorative) e l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, tenendo presente che il potere direttivo non può esplicarsi in semplici direttive di carattere generale (compatibili con altri tipi di rapporto), ma deve manifestarsi in ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e che il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento (anch’esso compatibile con altri tipi di rapporto), ma deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale. (Corte app. Palermo 22/4/2020).

Qualsiasi attività umana economicamente rilevante è suscettibile di essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle modalità del suo svolgimento e del fatto che requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione della prestazione lavorativa. (Trib. Milano 11/9/2014).

In tema di rapporto di lavoro, al fine della qualificazione dello stesso come rapporto di lavoro subordinato piuttosto che come di lavoro autonomo, costituisce elemento decisivo in tal senso l’essere il lavoratore inserito stabilmente e in modo esclusivo all’interno dell’organizzazione aziendale in diretta conseguenza all’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro. Nella stessa direzione qualificativa, costituiscono, invece, indici sintomatici della subordinazione, l’assenza di rischio di impresa, la continuità della prestazione, l’obbligo di osservanza dell’orario di lavoro, la cadenza periodica e la forma della retribuzione, l’utilizzazione da parte del lavoratore di strumenti di lavoro e lo svolgimento della prestazione in ambienti messi a disposizione dal datore di lavoro. (Trib. Milano 21/7/2014).



A. R. chiede
lunedì 29/07/2024
“Lavoro come dipendente statale (Carabiniere), sono iscritto all'albo dei consulenti finanziari indipendenti, superato l'esame e regolarmente iscritto.
Per poter esercitare la professione in modo regolare devo chiedere autorizzazione al Comando Arma.

Il problema è che loro non vogliono rilasciare l'autorizzazione perché sostengono che non posso aprirmi partita iva, quando la circolare dell'arma (che allego successivamente secondo le modalità stabilite), non menziona pareri negativi riguardo alla partita iva, ma solamente al mantenimento dei requisiti di carattere generale, che io già soddisfo pienamente (confermato anche dal mio comando e dagli uffici superiori).

A tal proposito volevo chiedere se ci sono riferimenti normativi che precisano e regolamentano le modalità di esercizio della professione, ovvero i casi di relative eccezioni nei quali si può esercitare la professione, con riferimenti normativi, possibilmente anche con riferimento alla partita iva.

La questione è complessa, perché nella linea gerarchica e al comando generale non sanno nulla a riguardo (alla professione di consulente finanziario indipendente), e come si vedrà dalla circolare, la mia professione non è menzionata perché in vigore dal 2018, mentre la circolare è del 2007/2008.”
Consulenza legale i 14/08/2024
Secondo la circolare inviata, una delle condizioni per poter svolgere attività extraprofessionale retribuita è che quest’ultima sia effettuata senza carattere di continuità ed assiduità e sia meramente isolata e saltuaria. L’attività dovrà in buona sostanza inquadrarsi nell’ambito del cosiddetto lavoro occasionale, con la conseguenza che la remunerazione percepita non potrà eccedere i cinquemila euro annui ed i giorni di impiego non potranno superare i trenta all’anno.

L’apertura della partita IVA si porrebbe in contrasto con l’occasionalità dell’attività. L’apertura della Partita Iva non è vietata in sé, ma indirettamente visto il suo significato inequivocabile, perché presuppone proprio l’intenzione di svolgere un’attività professionale a cui dedicare impegno costante.

Peraltro, le prestazioni occasionali sono, per consolidato orientamento, vietate per i professionisti iscritti ad albi o ruoli professionali.

È pur vero che la Corte di Cassazione con la sentenza 19 aprile 2021 n. 10267 apre le porte alla possibilità, anche per i professionisti iscritti ad un albo professionale, di espletare prestazioni di lavoro occasionale.
La sentenza afferma che il requisito dell’abitualità deve essere accertato in base all’evidenza “nella sua dimensione di scelta ex ante del libero professionista”, non rappresentando il reddito prodotto un elemento funzionalmente adatto ad accertare il requisito.

La stessa ci dice anche che l’abitualità dell’attività, in sede di contestazione, deve essere provata da chi la contesta (nella fattispecie dall’INPS, essendo un contenzioso di natura previdenziale), e, di conseguenza, non sarà il professionista a dover dimostrare l’occasionalità.

Secondo la Cassazione, “la mera iscrizione all’albo o la titolarità di partita IVA non sono elementi sufficienti a dimostrare l’abitualità dell’esercizio dell’attività professionale, trattandosi per converso – come accertato dalla corte territoriale – di modesta attività non esorbitante dall’occasionalità”.

L’interpretazione della Cassazione, seppure autorevole, costituisce una novità e bisognerebbe attendere altre pronunce sul punto per ritenere consolidato l’orientamento.

Ad ogni modo, bisognerebbe anche verificare che il proprio ordine di appartenenza ritenga possibile l’esercizio occasionale della professione in parola e che non vi siano incompatibilità per quanto riguarda il lavoro nei carabinieri ed in particolare con la funzione istituzionale dell’amministrazione di appartenenza, che, per consentire l’espletamento di un lavoro aggiuntivo, dovrà preliminarmente verificare, a salvaguardia del buon andamento della pubblica amministrazione, l’insussistenza di casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, e l’assenza di situazioni, anche solo ipotetiche o potenziali, di conflitti di interessi tra l’amministrazione di appartenenza e l’ulteriore attività da svolgere.


Tamara C. chiede
martedì 23/07/2024
“Gentilmente, vorrei fogare i dubbi sulla possibilità che un ex agente immobiliare con ditta individuale cessata e non più operante, in nessun modo chiedendo l' iscrizione al REA "per non perdere i requisiti abilitanti la ex professione" possa lavorare presso un ente pubblico non essendo in contrasto con l' articolo 60 (casi di incompatibilità), e che sia anche nel giusto nel caso di eventuali controlli di appartenenza ad albi Professionali. Quindi che sia corretto poter mantenere i requisiti abilitanti con iscrizione al REA delle camere di commercio (con pagamento f 24 € 18,00 annui ), non esercitare ne essere partecipe di alcuna attività, con ciò rimanendo non in contrasto con nessuna norma inerente il lavoro nell' ambito pubblico, ne le eventuali verifiche di appartenenza ad Ordini professionali. ( In definitiva che iscrizione al REA sia possibile e si differenzi dall' appartenenza ad ordini professionali? Vi ringrazio anticipatamente per la risposta.”
Consulenza legale i 03/08/2024
Gli agenti con impresa individuale che vogliono conservare la possibilità di riattivarsi in futuro, entro 90 giorni dalla pratica di cessazione dell'attività di agente immobiliare devono inviare una nuova pratica al Registro Imprese per iscriversi nella sezione REA-persone fisiche del Registro Imprese al solo fine del mantenimento senza termine del vecchio requisito abilitante dato dall'iscrizione al soppresso Ruolo. L'iscrizione comporta il pagamento del diritto annuale, mantiene il requisito dell'ex ruolo, ma non permette di svolgere l'attività, neppure in forma occasionale.

L’iscrizione al REA, a parere di chi scrive, non è paragonabile all’iscrizione all’Albo, tanto più che, prerequisito per tale forma di iscrizione, è proprio quello di aver cessato l’attività. Peraltro, tale iscrizione non consente di svolgere alcuna attività, neppure in forma occasionale.

Se si considera, inoltre, che l’iscrizione ad albi professionali è vietata per evitare che il dipendente pubblico possa utilizzare la sua posizione per ottenere un vantaggio indebito, non si vede come quest’ultimo possa ottenere un vantaggio indebito tramite una forma di iscrizione al REA che non consente di svolgere alcuna attività, neppure in forma occasionale.


G. F. chiede
mercoledì 17/07/2024
“Gentili avvocati,
sono un dipendente pubblico a tempo indeterminato, in servizio presso un’università come amministrativo.
Dati i miei studi pregressi e le mie competenze in un ambito completamente diverso rispetto al lavoro che svolgo come amministrativo, sono stato contattato da una scuola paritaria per tenere attività di laboratorio (come esperto), per tutto l’anno scolastico, con la possibilità di proseguire la collaborazione nell’ipotesi di rinnovo del progetto, per un totale di max 4 ore a settimana e per un importo inferiore a €5000.
La proposta che mi è stata fatta dalla scuola è stata presentata come “incarico di collaborazione occasionale”.
Prima di chiedere l’autorizzazione all’amministrazione presso cui lavoro, vorrei capire se si tratta di un incarico compatibile con il mio lavoro oppure no.
Il compenso proposto dalla scuola è orario e netto (non lordo). Devo per caso chiedere che sulla proposta, da allegare ai documenti per l’autorizzazione, sia indicato il compenso lordo?
Grazie per le delucidazioni”
Consulenza legale i 24/07/2024
Il rapporto di lavoro con il datore pubblico è caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d. regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente pubblico è preclusa la possibilità di svolgere attività extralavorative. La ratio di tale divieto risiede nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico, per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della P.A., che risulterebbe turbato dall'espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto.

La norma di riferimento è l’art. 53 del Testo unico sul pubblico impiego. Secondo tale norma, si può distinguere tra attività assolutamente incompatibili, attività relativamente incompatibili ed attività compatibili tassativamente indicate dal legislatore.

Ai sensi dell’art. 53, comma 6, lettere fbis), del Testo Unico l’attività di docenza e di ricerca scientifica rientrano nelle attività compatibili.

Pertanto, considerando l’attività di esperto di laboratorio come attività di docenza, l’incarico in questione dovrebbe essere compatibile con lo status di dipendente pubblico.

Alla luce dell’articolo 53, comma 7, del Testo Unico è obbligatorio chiedere l’autorizzazione all’ufficio del personale dell’amministrazione di appartenenza per svolgere attività compatibili che siano retribuite.
Naturalmente deve trattarsi di attività di evidente modesta rilevanza (poco assorbenti fisicamente o intellettivamente).

L’unico limite al libero espletamento di tali attività è dato dalla loro compatibilità con l’ordinaria prestazione lavorativa presso il datore della Pubblica Amministrazione. Le attività per svolte in favore della scuola paritaria non potranno mai andare a scapito dell’ordinario svolgimento delle mansioni d’ufficio. Ne consegue che tali attività andranno svolte in orari extralavorativi. Se poi l’oggetto dell’incarico liberalizzato ed espletato possa ledere l’immagine della p.a. o urtare con i suoi fini istituzionali l’amministrazione potrà esercitare i tradizionali rimedi disciplinari.

Prima di accettare l'incarico, pertanto, è opportuno presentare una richiesta formale di autorizzazione all'amministrazione di appartenenza. La richiesta deve includere tutti i dettagli relativi all'incarico, come la descrizione delle attività, la durata, il numero di ore settimanali e il compenso previsto.

Per quanto riguarda il compenso, è preferibile che sulla proposta sia indicato il compenso lordo. Questo perché il compenso netto non fornisce una chiara indicazione dell'importo complessivo.




P. E. chiede
mercoledì 12/06/2024
“Buongiorno
Sono una dipendente comunale a tempo pieno e indeterminato.
Autorizzata dal mio Comune ho iniziato una collaborazione occasionale con una società cooperativa a ritenuta d'acconto per effettuare supervisioni ad operatori sociali dipendenti di altri enti pubblici(a seguito dei bandi PNRR). Poiché ora si verifica che gli importi che andrei ad incassare nel 2024 e nel 2025 sono superiori ai 5.000€, la società cooperativa mi chiede se posso aprire la partita iva; è possibile solo per il periodo legato ai fondi PNRR, comunque temporanei che finanziano l' attività di supervisione obbligatoria agli operatori sociali, chiedendo ovviamente l' autorizzazione alla mia Amministratore comunale?
E nel caso fosse assolutamente impossibile aprire la partita iva per un dipendente comunale a tempo pieno, cosa succede se l' importo annuo supera i 5.000€?
Grazie”
Consulenza legale i 19/06/2024
La norma di riferimento in tema di incompatibilità è l’art. 53 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, il quale a sua volta richiama l’art. 60 e seguenti del D.P.R. 3/1957.

L’art. 60 del D.P.R. 3/1957 vieta ai dipendenti pubblici di esercitare il commercio, l'industria, e qualsiasi professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro.
Tuttavia, lart. 61 dello stesso D.P.R. n. 3/1957 dispone che il divieto di cui al richiamato art. 60 non si applichi nei casi di società cooperative.

I dipendenti pubblici possono svolgere alcune attività che non sono assolutamente incompatibili, ma possono essere espletate al di fuori dell’orario lavorativo, se si richiede una specifica autorizzazione al proprio datore di lavoro. Trattasi, in effetti, di attività occasionali, saltuarie, compatibili con l’orario e la funzione istituzionale dell’amministrazione di appartenenza, che, per consentire l’espletamento di un lavoro aggiuntivo, dovrà preliminarmente verificare, a salvaguardia del buon andamento della pubblica amministrazione, l’insussistenza di casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, e l’assenza di situazioni, anche solo ipotetiche o potenziali, di conflitti di interessi tra l’amministrazione di appartenenza e l’ulteriore attività da svolgere.

La disciplina è contenuta nel comma 7 dell’art. 53 del d. Lgs. 165/2001, per il quale “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza”.

Per le considerazioni sopra esposte, sembra, pertanto, consentita, la partecipazione a cariche sociali in società cooperative, sempre previa autorizzazione, in ottemperanza alla previsione di cui al comma 5 dell’art. 53, D.Lgs. n. 165/2001, secondo cui, in ogni caso, l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da società, che svolgono attività di impresa o commerciale, è disposta dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità del dipendente, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione.

In tema di pubblico impiego privatizzato, l'esperimento di incarichi extraistituzionali retribuiti da parte di dipendenti della P.A. è condizionato al previo rilascio di autorizzazione da parte dell'amministrazione di appartenenza, con un onere di verifica dell'assenza delle condizioni che ne impongono la richiesta posto a carico dell'ente pubblico economico o del datore di lavoro privato conferenti dall'art. 53, comma 9, del d.lgs. n. 165 del 2001, senza che detta verifica possa essere surrogata dalle dichiarazioni dei lavoratori che attestino la superfluità dell'autorizzazione, in quanto inidonee ad elidere la colpevolezza della condotta del conferente (Cass. n. 25752/2016).

La partita Iva potrebbe quindi essere aperta una volta ottenuta l’autorizzazione da parte dell’amministrazione comunale.

Tuttavia, il superamento della soglia dei 5.000 euro di reddito non comporterà automaticamente l’obbligo di apertura della partita Iva. Tuttavia, il lavoratore sarà tenuto a pagare i contributi previdenziali sui guadagni realizzati oltre tale soglia. In altre parole, dovrà aprire una posizione previdenziale presso la Gestione separata Inps.

Semmai, potrebbe sorgere qualche dubbio circa l’occasionalità della prestazione, presupposto per il rapporto di collaborazione occasionale e, in pratica, anche per la compatibilità con il rapporto di lavoro pubblico.


F. F. chiede
sabato 16/03/2024
“Buongiorno sono un dipendente pubblico (Ministero della Difesa) da qualche giorno mio fratello mi ha conferito la procura institoria della sua Azienda e una procura generale per le altre attività di rappresentanza in quanto di trova in stato di detenzione.
Chiedo se la. Procura in particolare quella Institoria può essere diciamo così svolta dal sottoscritto o ci sono limitazioni
Grazie

Consulenza legale i 24/03/2024
L'institore, tanto in dottrina che in giurisprudenza, è chi ha maggiori poteri di rappresentanza e amministrazione dell'impresa; è l’alter ego dell'imprenditore, potendolo sostituire quasi totalmente nell’esercizio dell’impresa.
A differenza di altri collaboratori che svolgono incarichi importanti ma saltuari, infatti, l’institore svolge la sua prestazione in maniera continuativa. La dottrina maggioritaria ha affermato che l’institore si caratterizza per il fatto che compie atti non fini a se stessi, ma collocati all’interno di una strategia volta al risultato finale. Egli è al vertice della gerarchia del personale in virtù di un atto di preposizione dell’imprenditore.

Il dipendente pubblico non può assumere incarichi di amministrazione in società o aziende.

L’articolo 60 del Dpr 3/1957 (richiamato dall'art. 53, comma 1, D. Lgs. 165/2001) dispone, infatti, che l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente.

Si tratta di una causa di incompatibilità al cui riscontro consegue una diffida e poi l’eventuale decadenza dal pubblico impiego. Sussistendo un divieto assoluto di legge l’attività non è neppure autorizzabile dall’amministrazione di appartenenza.

Secondo la Corte dei conti, “il divieto di accettare cariche in società aventi fine di lucro costituisce una specificazione del divieto di esercizio di attività commerciali o industriali e trova giustificazione nella necessità che il pubblico dipendente si astenga dall’esercizio di attività che da un lato lo espongano a compromissioni prestazionali ed economiche che potrebbero ledere la proficuità della sua prestazione istituzionale pubblica e, dall’altro lato, possano generare potenziali conflitti di interesse con l’amministrazione di appartenenza. Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, risulta evidente che la preminenza dell'interesse pubblico correlato al buon andamento della pubblica amministrazione (art.97 Cost.) ha determinato un’equiparazione di attualità e potenzialità della situazione conflittuale connessa allo svolgimento delle attività esterne (come evidenziato da Cass. Civ., Sez. Lavoro, n. 22188/2021). L’assunzione di cariche gestionali in società aventi finalità lucrative deve essere considerato, sulla base dell’ordinamento vigente, quale elemento oggettivo e automatico atto a perpetrare l'incompatibilità, senza che necessiti una valutazione sulla intensità dell'impegno o sui riflessi negativi riscontrabili sul rendimento nel servizio e sull'osservanza dei doveri di ufficio, equiparando la legge l'ipotesi all'esercizio di attività industriali e commerciali (cfr., sul punto, Cass. Civ., n.967/2006)” (Corte dei Conti, Sezione Regionale giurisdizionale Lombardia n. 352/2021 Pubblico impiego).

Pertanto, nel caso di specie, si ritiene che il ruolo di institore non sia compatibile con il lavoro presso il Ministero della Difesa.


G. C. chiede
lunedì 05/02/2024
“Una collaboratrice dello studio è stata assunta in una scuola come collaboratore A.T.A. per il profilo professionale di ASSISTENTE AMMINISTRATIVO agli effetti dell'articolo 44 del CCNL del 29 novembre 2007 per il comparto scuola a 36/36 ore settimanali. Il contratto è a tempo determinato scadenza 30/06.
Il nostro studio vorrebbe impiegarla sotto qualsiasi forma di collaborazione per il web che gestiva in precedenza.
Il quesito è se si possono impiegare le eventuali restanti 4 ore a settimana o c'è possibilità di collaborazione di tipo pubblicistico o in qualunque altro modo.”
Consulenza legale i 12/02/2024
La norma di riferimento in tema di incompatibilità è l’art. 53 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, il quale a sua volta richiama l’art. 60 e seguenti del D.P.R. 3/1957.

L’art. 60 del D.P.R. 3/1957 vieta ai dipendenti pubblici di esercitare il commercio, l'industria, e qualsiasi professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro.

Il dipendente pubblico è obbligato a prestare il proprio lavoro in maniera esclusiva nei confronti dell’Amministrazione da cui dipende. A questo principio di carattere generale fanno eccezione alcuni regimi speciali (ad esempio la possibilità per i docenti di esercitare la libera professione) ed il personale in part time con prestazione lavorativa non superiore al 50%.

Vi sono poi una serie di incarichi, espressione di principi costituzionali che non possono essere limitati, come, ad esempio, la libertà di associazione, di pensiero, la partecipazione ad associazioni, comitati scientifici, collaborazioni giornalistiche, relazioni in convegni, ecc.

Tali tipologie di incarichi – anche se in alcuni casi retribuiti – non necessitano di autorizzazione, purché siano svolti al di fuori dell’orario di servizio e non pregiudichino l’impegno principale che viene espletato nell’amministrazione di appartenenza.

L’art. 53, comma 6, del d. Lgs. 165/2001 indica espressamente le seguenti attività liberalizzate:
A) collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili (l’amministrazione può pretendere che il dipendente sia preventivamente autorizzato ad utilizzare la qualifica di appartenenza ed esigere la precisazione che quanto scritto non rappresenti la linea di azione dell’amministrazione di titolarità);
B) utilizzazione economica, da parte dell’autore, di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali;
C) partecipazione a convegni e seminari;
D) incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate (in questi casi il dipendente dovrà conservare copia della relativa documentazione);
E) incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo;
F) incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita;
F-bis) attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica.
I predetti incarichi non necessitano di comunicazione al Dipartimento della Funzione Pubblica in quanto liberalizzati e, quindi, non assoggettati ad autorizzazione.

In ogni caso, resta fermo il divieto per il dipendente di svolgere attività che possano risultare in concorrenza o in contrasto con l’amministrazione di appartenenza.

Il contratto come personale ATA di cui al caso di specie non è un part time al 50%. Pertanto, non è possibile proseguire il rapporto di collaborazione con lo studio, salvo che l’attività in questione non possa essere fatta rientrare in una delle eccezioni di cui all’art. 53, comma 6, cit.


Anonimo chiede
sabato 27/01/2024
“Buonasera,
desidero chiedere riservatezza e la non pubblicabilità del quesito, inerente al diritto del lavoro. Premesse certe incompatibilità lavorative tra dipendente pubblico e altri lavori e premesso l'art. 98 della Costituzione.
Un dipendente pubblico (es. insegnante di scuola) può contemporaneamente far parte formalmente come membro di centri di ricerca o di redazioni di riviste/editoriali, in forma totalmente gratuita e senza alcun contratto ? Sia in sede nazionale sia extra-UE.
Nel caso specifico: da insegnante di scuola ed essendo uno studioso nel mio ambito, ho la possibilità di divenire "membro del Centro di Ricerca Vattelapesca" di una Università in un paese straniero, assistendo quindi a riunioni etc. Tutto questo a titolo gratuito, senza una quantificazione di ore (può essere una riunione al mese al massimo), senza che questo incida con gli orari del lavoro pubblico e senza un contratto (ma con un certificato che attesta che sono membro del centro di ricerca). Nella mia richiesta (via email) ho già specificato di essere un insegnante italiano e che ciò non va visto come secondo lavoro. La mia domanda quindi è:
1) Si può parlare di "secondo lavoro" vista la gratuità e la mancanza di un contratto? Se, come ritengo io, non si tratta di un secondo lavoro allora posso tranquillamente svolgere il mio lavoro pubblico senza dimettermi dall'essere membro di centro di ricerca. Devo anche comunicarlo come obbligo al dirigente scolastico?
2) Visto l'art. 98 della Costituzione posso farlo anche in un Paese extra-UE?

Grazie”
Consulenza legale i 06/02/2024
Il rapporto di lavoro con il datore pubblico è caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d. regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente pubblico è preclusa la possibilità di svolgere attività extralavorative.
La ratio di tale divieto risiede nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico, per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della P.A., che risulterebbe turbato dall'espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto.

La norma di riferimento è l’art. 53 del Testo unico sul pubblico impiego. Secondo tale norma, si può distinguere tra attività assolutamente incompatibili, attività relativamente incompatibili ed attività compatibili tassativamente indicate dal legislatore.

Ai sensi dell’art. 53, comma 6, lettere a) e fbis), del Testo Unico la collaborazione a giornali e riviste e l’attività di docenza e di ricerca scientifica rientrano nelle attività compatibili.
Pertanto, l'attività di membro di centri di ricerca o di redazioni di riviste/editoriali è compatibile con lo status di dipendente pubblico.

Alla luce dell’articolo 53 comma 6 del testo unico pubblico impiego, è obbligatorio chiedere l’autorizzazione all’ufficio del personale dell’amministrazione di appartenenza solo per svolgere attività compatibili che siano retribuite.
Nel caso di specie, trattandosi di attività compatibile e svolta a titolo completamente gratuito non è necessario richiedere alcuna autorizzazione.

Naturalmente deve trattarsi di attività di evidente modesta rilevanza (poco assorbenti fisicamente o intellettivamente).

In tali ipotesi, il pubblico dipendente non deve richiedere alcuna autorizzazione né, in assenza di previsione di legge in tal senso, è tenuto a comunicare all’amministrazione da cui dipende l’avvenuta attribuzione di tali incarichi.

Tuttavia, alcuni enti, per verificare l’esatta interpretazione delle vigenti norme o per asserite esigenze di riscontro su conflitti di interesse, sono soliti richiedere una comunicazione (destinata a mera presa d’atto) da parte del lavoratore per i casi di collaborazione a giornali, riviste.
Pertanto, per evitare equivoci, conviene informare l’amministrazione di appartenenza delle attività in questione.
In ogni caso la mancata comunicazione non potrà avere conseguenze sul piano disciplinare in assenza di un obbligo legislativo o contrattuale sul punto.

L’unico limite al libero espletamento di tali attività è dato dalla loro compatibilità con l’ordinaria prestazione lavorativa presso il datore della Pubblica Amministrazione: l’espletamento di un intervento (e, soprattutto, una serie intensa attività) seminariale o convegnistico, o la necessità di redigere un articolo o un volume non potranno mai andare a scapito dell’ordinario svolgimento delle mansioni d’ufficio. Ne consegue che tali attività andranno svolte in orari extralavorativi. Se poi l’oggetto dell’incarico liberalizzato ed espletato possa ledere l’immagine della p.a. o urtare con i suoi fini istituzionali l’amministrazione potrà esercitare i tradizionali rimedi disciplinari.

Per quanto riguarda la compatibilità con l’art. 98 Cost., nell’affermare che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, il precetto costituzionale vuole evitare che il dipendente pubblico venga meno al suo impegno con l’Amministrazione e non rispetti del tutto i princìpi costituzionali di giustizia e di solidarietà. In altre parole, se il dipendente ha un legame con un privato, che si tratti di una piccola società o di una grande azienda, può capitare che favorisca volutamente dall’interno della Pubblica Amministrazione il settore in cui opera a discapito di altri e che, in sostanza, soddisfi degli interessi privati al posto di quelli generali della collettività.

Da ciò deriva il regime di incompatibilità di cui all’art. 53 del Testo Unico sopra citato. Tuttavia, l’attività in questione, come visto, è ritenuta compatibile per legge. E ciò in quanto espressione di una libertà fondamentale sancita dalla Costituzione, la libertà di pensiero con parola, scritto o ogni altro mezzo di diffusione di cui all’art. 21 Cost. Tale diritto fondamentale può essere ovviamente espletato anche in paesi extra UE; pertanto non rileva che la collaborazione a riviste e l’attività di ricerca sia svolta presso un istituzione estera.


S. A. chiede
mercoledì 27/12/2023
“un dipendente di ente locale (polizia locale) può chiedere di essere autorizzato a svolgere prestazioni occasionali (prestazioni sanitarie) nei confronti di un'azienda (no privato) per il ruolo per cui sono iscritto all'albo (tecnico audiometrista e tecnico audioprotesista) senza apertura di partita iva?

se può essere utile aggiungo che il mio albo non ha una cassa previdenziale propria.

ho trovato una risposta dell'agenzia delle entrate che sembra rispondere negativamente al quesito però allo stesso tempo ho trovato anche una sentenza della corte di cassazione n. 10267 del 19 aprile 2021 invece sembra rispondere positivamente al mio quesito.

chiedo voi un ulteriore approfondimento in materia.



Consulenza legale i 08/01/2024
Effettivamente, vi è un contrasto tra quanto stabilito dall’Agenzia delle Entrate lo scorso 15 luglio 2020 con la Risoluzione 41\E e quanto, invece, affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 19 aprile 2021 n. 10267.

Secondo l’Agenzia delle Entrate nel caso in cui il professionista sia iscritto ad un albo professionale, dimostrando con questo solo fatto la sua volontà di svolgere quella pluralità di atti che caratterizza l’abitualità di una professione organizzata, questi dovrà dichiarare redditi di lavoro autonomo abituale per le prestazioni professionali espletate, e soggiacere ai conseguenti obblighi fiscali e previdenziali.

Le prestazioni occasionali sono, per consolidato orientamento, vietate per i professionisti iscritti ad albi o ruoli professionali.

Di ben diverso avviso è la Corte di Cassazione che, con il suo ultimo arresto, apre le porte alla possibilità, anche per i professionisti iscritti ad un albo professionale, di espletare prestazioni di lavoro occasionale.

La sentenza afferma che il requisito dell’abitualità deve essere accertato in base all’evidenza “nella sua dimensione di scelta ex ante del libero professionista”, non rappresentando il reddito prodotto un elemento funzionalmente adatto ad accertare il requisito.

La stessa ci dice anche che l’abitualità dell’attività, in sede di contestazione, deve essere provata da chi la contesta (nella fattispecie dall’INPS, essendo un contenzioso di natura previdenziale), e, di conseguenza, non sarà il professionista a dover dimostrare l’occasionalità.

L’interpretazione della Cassazione, seppure autorevole, costituisce una novità e bisognerebbe attendere altre pronunce sul punto per ritenere consolidato l’orientamento.

Ad ogni modo, bisognerebbe anche verificare che il proprio ordine di appartenenza ritenga possibile l’esercizio occasionale della professione in parola e che non vi siano incompatibilità per quanto riguarda il lavoro nella polizia locale. Ad esempio, per quanto riguarda gli avvocati, il lavoro nella polizia locale sarebbe causa di incompatibilità per la permanenza nel relativo albo. Per quanto riguarda i tecnici audiometristi, non si rinviene una norma sulle incompatibilità simile a quella prevista dal codice deontologico forense. Tuttavia, quando si parla del decoro della professione per i tecnici audiometristi, all’art. 15, comma 2, tra i comportamenti da evitare si trova: “a) esercitare atti e competenze professionali che non sono di pertinenza del profilo”.

A parere di chi scrive, l’ultima parola, in ogni caso, spetterà all’Amministrazione di appartenenza.

Come riferito nel precedente parere, i dipendenti pubblici possono svolgere alcune attività che non sono assolutamente incompatibili, ma possono essere espletate al di fuori dell’orario lavorativo, previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza. Trattasi di attività occasionali, saltuarie, compatibili con l’orario e la funzione istituzionale dell’amministrazione di appartenenza, che, per consentire l’espletamento di un lavoro aggiuntivo, dovrà preliminarmente verificare, a salvaguardia del buon andamento della pubblica amministrazione, l’insussistenza di casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, e l’assenza di situazioni, anche solo ipotetiche o potenziali, di conflitti di interessi tra l’amministrazione di appartenenza e l’ulteriore attività da svolgere.

La disciplina è contenuta nel comma 7 dell’art. 53 del d. Lgs. 165/2001, per il quale “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza”.

L’amministrazione di appartenenza potrebbe sempre obiettare che la professione ancorché occasionale di tecnico audiometrista si ponga in conflitto con il ruolo nella polizia locale.


S. A. chiede
mercoledì 06/12/2023
“gentile Brocardi,

Attualmente svolgo una professione sanitaria non medica (iscritto ad albo senza cassa) come libero professionista essendo titolare di un negozio di dispositivi medici.
Attualmente mi ritrovo in una graduatoria come idoneo per il ruolo di agente di polizia locale a tempo pieno ed indeterminato in un comune limitrofo a dove vivo e lavoro.
La domanda che vi pongo è la seguente: nel momento in cui arriverà la chiamata ad entrare in servizio come posso sistemare la mia situazione lavorativa per non perdere il posto di lavoro nell’ente?
Non posso chiudere prima di quella data il mio attuale lavoro perché la chiamata potrebbe anche non arrivare mai ma allo stesso tempo non vorrei perdere questa opportunità lavorativa nel momento in cui si presentasse.

Come consigliate di muovermi? io ho individuato alcune ipotetiche soluzioni ma vorrei una vostra consulenza da esperti per capire se le mie soluzioni possano andare bene e quale potrebbe essere la migliore oppure se voi siete a conoscenza di altre tipologie di soluzioni.
1)provare a chiedere il part time prima di entrare di ruolo in maniera tale da avere un periodo dove poter svolgere entrambe le professioni ed avere il tempo necessario per cedere la mia vecchia attività.
2)provare a chiedere un ingresso posticipato in servizio per permettermi di trovare un acquirente della mia attività.
3)cedere la mia attuale attività alla mia coniuge che già possiede un altro negozio legato alla salute, assumere un sanitario che prenda il mio posto ed io potrei chiedere l’autorizzazione all’ente di svolgere attività sporadica ed occasionale di aiuto gratuito nell’azienda di mia moglie.
4)cedere l'attività rimanendo come socio di capitale senza funzioni di gestione
5)cedere totalmente l’attività e poi per mantenere un contatto con i pazienti facendomi autorizzare dall’ente delle prestazioni sanitarie occasionali nei confronti della nuova società: in questo caso potrei svolgere con partita iva o senza?
6)l’ente comunale potrebbe autorizzarmi ad aprire la partita iva per svolgere prestazioni sanitarie occasionali, fuori dall’orario di lavoro nei confronti di una società privata per mantenere la continuità assistenziale dei miei vecchi pazienti?
7)Alla luce dell’art 13 del Decreto-legge 34 del 30 marzo 2023, convertito con modificazioni nella L. 26 maggio 2023, n. 56, per tutti i professionisti sanitari iscritti all’Albo dell’Ordine TSRM e TSPRP possibile svolgere altre attività professionale al di fuori dell’orario di lavoro è applicabile anche al mio caso?

saluti”
Consulenza legale i 21/12/2023
La norma di riferimento in tema di incompatibilità è l’art. 53 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, il quale a sua volta richiama l’art. 60 e seguenti del D.P.R. 3/1957.

L’art. 60 del D.P.R. 3/1957 vieta ai dipendenti pubblici di esercitare il commercio, l'industria, e qualsiasi professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro.

Il dipendente pubblico è obbligato a prestare il proprio lavoro in maniera esclusiva nei confronti dell’Amministrazione da cui dipende. A questo principio di carattere generale fanno eccezione alcuni regimi speciali (ad esempio la possibilità per i docenti di esercitare la libera professione) ed il personale in part time con prestazione lavorativa non superiore al 50%.

Ai sensi dell’art. 92, Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267, gli enti locali possono costituire rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato, pieno o parziale, nel rispetto della disciplina vigente in materia.

Il CCNL Enti Locali prevede la possibilità per i propri dipendenti di impiego part time e passaggio da lavoro a tempo pieno a lavoro part time. Secondo le regole in vigore, si possono instaurare rapporti di lavoro part time con contratto Enti Locali con assunzioni per la copertura di posti e profili in base al fabbisogno di personale o tramite trasformazione di rapporti di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, su richiesta dei dipendenti interessati.

In ogni caso, il CCNL prevede che il numero dei rapporti di lavoro part time non possano essere superiori al 25% della dotazione organica complessiva di ciascuna categoria, rilevata al 31 dicembre di ogni anno, con esclusione delle posizioni organizzative e il dipendente che rivesta una delle posizioni organizzative può trasformare il suo rapporto di lavoro in part time solo se rinuncia al suo ruolo.

Pertanto, anche nel caso in cui si dovesse presentare la domanda di trasformazione in part-time prima della presa di servizio, non vi sarebbe un diritto ad ottenerlo. L’amministrazione potrebbe comunque negarlo perché si è già superato il limite massimo oppure per esigenze di servizio. Salvo casi particolari, non vi è un vero e proprio diritto del dipendente all’ottenimento del part-time.

La legge 23 dicembre 1996, n. 662, “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica all’art. 58 recita “La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale avviene automaticamente entro sessanta giorni dalla domanda, nella quale è indicata l’eventuale attività di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere. L’amministrazione, entro il predetto termine, nega la trasformazione del rapporto nel caso in cui l’attività lavorativa di lavoro autonomo o subordinato comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente ovvero, nel caso in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa, può con provvedimento motivato differire la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale per un periodo non superiore a sei mesi. La trasformazione non può essere comunque concessa qualora l’attività lavorativa di lavoro subordinato debba intercorrere con un’amministrazione pubblica. Il dipendente è tenuto, inoltre, a comunicare, entro quindici giorni, all’amministrazione nella quale presta servizio, l’eventuale successivo inizio o la variazione dell’attività lavorativa”.

Una volta ottenuto il part time, secondo la sentenza della Corte di Cassazione, sez. VI civ. 10/10/2018, n. 24979 “L’agente di polizia municipale ha facoltà di svolgimento di ulteriore attività lavorativa a condizione che quest’ultima sia connotata come rapporto di lavoro part time non superiore del 50% di quella a tempo pieno, con annesso onere di comunicazione all’Amministrazione al fine dell’espletamento delle relative verifiche.”
Naturalmente l’amministrazione dovrà valutare che le altre prestazioni di lavoro non arrechino pregiudizio alle esigenze di servizio e non siano incompatibili con le attività della stessa amministrazione.

Per quanto riguarda il posticipo della presa di servizio, si tenga conto che ai sensi dell’art. 9 del DPR n. 3/1957 “I vincitori del concorso conseguono la nomina in prova, che viene disposta con decreto del Ministro, salvo che la legge prescriva diversamente. La nomina dell'impiegato che per giustificato motivo assume servizio con ritardo sul termine prefissogli decorre, agli effetti economici, dal giorno in cui prende servizio. Colui che ha conseguito la nomina, se non assume servizio senza giustificato motivo entro il termine stabilito, decade dalla nomina”.

Si potrebbe, quindi, chiedere il differimento della presa di servizio, tuttavia il caso di specie non rientra tra i motivi tipici (malattia, maternità, dottorato ecc.) per cui è possibile chiederlo e l’amministrazione potrebbe ritenere che non si tratti di un giustificato motivo.

La cessione dell’attività alla coniuge potrebbe essere una soluzione.

I dipendenti pubblici possono svolgere alcune attività che non sono assolutamente incompatibili, ma possono essere espletate al di fuori dell’orario lavorativo, se si richiede una specifica autorizzazione al proprio datore di lavoro. Trattasi, in effetti, di attività occasionali, saltuarie, compatibili con l’orario e la funzione istituzionale dell’amministrazione di appartenenza, che, per consentire l’espletamento di un lavoro aggiuntivo, dovrà preliminarmente verificare, a salvaguardia del buon andamento della pubblica amministrazione, l’insussistenza di casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, e l’assenza di situazioni, anche solo ipotetiche o potenziali, di conflitti di interessi tra l’amministrazione di appartenenza e l’ulteriore attività da svolgere.

La disciplina è contenuta nel comma 7 dell’art. 53 del d. Lgs. 165/2001, per il quale “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza”.

Le attività a titolo gratuito, di norma, non necessitano di autorizzazione, ma le singole amministrazioni, con i loro regolamenti, possono prevedere di averne conoscenza preventiva e, in alcuni casi, il rilascio di un assenso scritto.

Pertanto, anche in questo caso conviene chiedere la preventiva autorizzazione alla propria amministrazione.

Cedere l’attività mantenendo lo status di socio di capitale senza funzioni di gestione è un’altra opzione praticabile.

La partecipazione in qualità di semplice socio di capitale ad una S.r.l. o una S.p.a. è compatibile con lo status di pubblico dipendente e conseguentemente, non necessita di autorizzazione, a condizione che il dipendente non svolga la propria opera né rivesta cariche sociali nell’ambito della società medesima.

La Funzione Pubblica nella circolare n. 6/97 aveva precisato che “la partecipazione a titolo di semplice socio (con responsabilità limitata) esime il dipendente dalla richiesta di autorizzazione”.

Si ricorda che sussiste il divieto per il pubblico dipendente di essere amministratore di qualsivoglia tipo di società commerciale e di ricoprire la qualità di socio illimitatamente responsabile di una società, come nel caso delle società di persone, salvo diversa previsione costitutiva.

Per quanto riguarda la possibilità di cedere totalmente l’attività e poi per mantenere un contatto con i pazienti facendosi autorizzare dall’ente delle prestazioni sanitarie occasionali nei confronti della nuova società si rinvia a quanto già precisato circa le attività occasionali.

Per quanto riguarda la possibilità di chiedere all’ente comunale l’autorizzazione all’apertura della partita iva per svolgere prestazioni sanitarie occasionali, fuori dall’orario di lavoro nei confronti di una società privata per mantenere la continuità assistenziale dei vecchi pazienti, il parere di chi scrive è negativo.

L’apertura della partita IVA sarebbe in contrasto con l’occasionalità dell’attività. La stessa continuità assistenziale dei vecchi pazienti contrasta con il concetto di attività sporadica ed occasionale.

L’apertura della Partita Iva sarebbe autorizzabile solo nel caso di accoglimento della richiesta di part time e di verifica della compatibilità dell’attività.

Per quanto riguarda, infine, la deroga al regime delle incompatibilità di cui all’art 13 del Decreto-legge 34 del 30 marzo 2023, non sembra che possa applicarsi al caso di specie. Innanzitutto, la professione descritta non sembra rientrare in quelle elencate dal decreto citato. In secondo luogo, la norma è applicabile agli “appartenenti al personale del comparto sanità”. Tale circostanza non ricorre nel caso di specie. Pertanto, la norma non è applicabile.


V. P. chiede
venerdì 04/08/2023
“Buongiorno, Sono socia di una cooperativa sociale e membro del cda formato da 3 soci. A settembre 2022 uno dei soci ha fatto richiesta per essere fuori dal consiglio di amministrazione e proprio per questo il 30 settembre 2023 (dopo esattamente 1 anno) ci sarà possibile svolgere la liquidazione semplificata presso la camera di commercio. La cooperativa al momento è inattiva, senza nessun contratto e nessuna fatturazione da dicembre 2022. Il mio problema sopraggiunge perché a settembre 2023 prenderò servizio a scuola come docente e per evitare di chiedere l'autorizzazione al dirigente scolastico in quanto avente una carica sociale, ho mandato pec richiedendo di uscire dal consiglio di
amministrazione. Il commercialista mi ha spiegato che essendo rimasti solo in 3 non posso formalmente uscire e devo aspettare che la cooperativa venga liquidata, ma che comunque sarà messa a verbale la mia richiesta. La mia domanda è: avendo mandato pec con richiesta di uscire dal cda di una cooperativa che comunque a fine settembre inizierà le pratiche di liquidazione, devo comunque chiedere l'autorizzazione al dirigente scolastico quando prenderò servizio o non ce n'è bisogno?
Specifico inoltre che la cooperativa non mi occupa nessun tipo di tempo e non percepisco niente a livello economico. Grazie”
Consulenza legale i 10/08/2023
La norma di riferimento in tema di incompatibilità è l’art. 53 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, il quale a sua volta richiama l’art. 60 e seguenti del D.P.R. 3/1957.

L’art. 60 del D.P.R. 3/1957 vieta ai dipendenti pubblici di esercitare il commercio, l'industria, e qualsiasi professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro.

Tuttavia, l’art. 61 del D.P.R. 3/1957 stabilisce che il divieto di cui all’art. 60 non si applica in caso di società cooperative.

Pertanto, è consentita la partecipazione a cariche sociali in società cooperative, sempre però previa autorizzazione, in ottemperanza alla previsione di cui al comma 5 dell’art. 53, D.Lgs. n. 165/2001, secondo cui, in ogni caso, l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da società, che svolgono attività di impresa o commerciale, è disposta dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità del dipendente, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione.

Anche la Circolare 6/1997 del Dipartimento della Funzione Pubblica precisa che il dipendente è tenuto a richiedere l’autorizzazione della propria amministrazione da rilasciare secondo gli usuali criteri ed elementi di fattibilità.

Nel caso di specie, l’autorizzazione sarebbe superflua. Tuttavia, dal momento che la cooperativa è ancora in essere, si ritiene opportuno, per scrupolo, comunicare la situazione al datore di lavoro, specificando che, in ogni caso, la cooperativa non occupa tempo e non vengono percepiti utili.

A. G. chiede
lunedì 19/06/2023
“Buongiorno, sono una insegnante di ruolo nella scuola media di 48 anni. Vorrei provare un concorso per ricercatore a tempo determinato, di durata 6 anni, ma non mi sono chiari alcuni aspetti.
Volevo sapere se
1. c'è l'obbligo di residenza in sede per i ricercatori e se questo obbligo vale anche in caso di assunzione in università telematica online , come unipegaso ecc. (nel bando in questione si parla di questo obbligo)
2. come funziona la previdenza se una persona ha sia contributi versati dalla scuola, sia contributi versati dall'università o altri enti. Si può fare un cumulo gratuito? E quando converrebbe farlo? Adesso che sono a scuola o dopo l'assunzione eventuale in università?
3. si può richiedere l'aspettativa per 6 anni? Di che tipo? In che modo e a chi va indirizzata?
4. L'aspettativa in questione richiesta da chi è assunto come ricercatore a tempo determinato per 6 anni (in base all'ultima riforma) interrompe l'anzianità di servizio a scuola ai fini della graduatoria interna e si perde la titolarità?
5. Questa aspettativa non è utile ai fini dell’anzianità di qualifica e non è utile ai fini previdenziali?
6. Il posto è part-time, quindi volevo sapere la retribuzione netta annuale
Magari per email mando il bando universitario in questione.
Grazie, cordiali saluti”
Consulenza legale i 25/06/2023
Quesito 1

L’obbligo di residenza in sede per i ricercatori e professori universitari deriva dall’art. 7 Legge 18 marzo 1958, n. 311, secondo il quale “I professori hanno l'obbligo di risiedere stabilmente nella sede dell'Università od Istituto cui appartengono. In casi del tutto eccezionali, i professori possono, tuttavia, essere autorizzati dal Ministro per la pubblica istruzione, su proposta del rettore o direttore, udito il Senato accademico, a risiedere in località prossima, ove ciò sia conciliabile col pieno e regolare adempimento dei loro doveri di ufficio”.

Il Consiglio di Stato, già nel 1980, con parere n. 550, aveva precisato che la nozione di “località prossima” può essere intesa attualmente con una certa larghezza rispetto ai tempi anche non remoti nei quali i trasporti e le comunicazioni non avevano raggiunto l'odierno sviluppo.

Solitamente il Senato accademico stabilisce che la residenza entro un certo limite km (di solito 100 km) assolve all’obbligo di residenza insede, senza necessità di ulteriore autorizzazione.

Le autorizzazioni a risiedere in Comuni distanti più di 100 km (o altro limite stabilito) dalla sede vengono sottoposte al parere del Senato Accademico.

Quesito 2

Il cumulo, la ricongiunzione e la totalizzazione dei contributi sono istituti che si rendono necessari nel caso in cui i contributi siano stati versati presso diverse gestioni o casse. Nel caso di specie, mentre i contributi come docente di scuola media ricadono nella Gestione dipendenti pubblici dell’INPS, quelli relativi all’attività di ricercatrice saranno di competenza del Fondo pensione lavoratori dipendenti.

Ovviamente la scelta va fatta in base alla reale convenienza. La ricongiunzione, anche avendo un onere piuttosto pesante, potrebbe essere più conveniente in determinati casi visto che, praticamente, sposta nella gestione di appartenenza i contributi versati nell’altra proprio come se fossero sempre stati versati in essa. E questo potrebbe determinare un assegno di pensione sensibilmente più alto.
Il cumulo, d’altra parte, essendo gratuito permette di utilizzare lo stesso gli anni di contributi versati ad altra gestione nella determinazione della pensione spettante, ma lasciandoli nella gestione di versamento. La pensione sarebbe liquidata pro quota dalle due gestioni in base alle regole di ognuna.

Valutare la scelta di una strada piuttosto che l’altra, però, non è possibile senza tutta la documentazione. Si consiglia pertanto, di rivolgersi ad un Patronato di fiducia che le potrà simulare la pensione in un caso e nell’altro, e le saprà dire indicativamente anche il costo della ricongiunzione onerosa. Solo in questo modo si può comprendere se val la pena sostenere l’onere o se, invece, è meglio scegliere la strada gratuita.

Ad ogni buon conto, solitamente tali operazioni vengono fatte all’approssimarsi della pensione. Nel caso di specie, in cui il contratto sarebbe solamente a tempo determinato, la valutazione sarebbe prematura.

Quesito 3

Ai sensi dell’art. 24, comma 9-bis, Legge 240/2010 che regola i contratti dei ricercatori a tempo determinato “Per tutto il periodo di durata dei contratti di cui al presente articolo, i dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono collocati, senza assegni né contribuzioni previdenziali, in aspettativa ovvero in posizione di fuori ruolo nei casi in cui tale posizione sia prevista dagli ordinamenti di appartenenza”.

Per ottenere l’aspettativa è necessario presentare richiesta al Dirigente Scolastico della scuola di servizio indicando i riferimenti normativi (art. 24 comma 9-bis della Legge 240/2010).

Quesiti 4 e 5

Il periodo di aspettativa è utile ai fini della progressione di carriera, del trattamento di quiescenza e di previdenza. Per il personale assunto a tempo indeterminato è utile ai fini del punteggio relativo all’anzianità di servizio, mentre interrompe il punteggio di continuità nella scuola e nel comune.

Nel caso, sulla base della graduatoria di istituto, dovesse risultare perdente posto, perderebbe la titolarità in quel determinato istituto.

Quesito 6

Per quanto riguarda il calcolo dello stipendio netto, si rimanda ad un consulente del lavoro o ad un patronato di fiducia per calcoli più attendibili.

V. M. chiede
lunedì 29/05/2023
“Buongiorno,
Ho di nuovo bisogno del Vostro aiuto.
Faccio seguito alla consulente numero Q202232245 relativa ad alcune delucidazioni in merito al congedo straordinario per poter svolgere il dottorato di ricerca.

Innanzitutto grazie ancora per la Vostra risposta dello scorso Novembre molto esaustiva e chiarificatrice.

A questo punto io mi trovo in una situazione un po' di difficoltà. Infatti, ho già iniziato il mio dottorato di ricerca in Scienze Chimiche presso l'Università di Pavia e sono uscite le graduatorie relative al sopra citato concorso per l'Ispettorato Nazionale del Lavoro. Come immaginavo sono risultato tra i vincitori. Siamo arrivati alla scelta delle sedi, operazione che si concluderà formalmente in data 04 Giugno 2023. Dopo di che ci saranno comunicate le sedi di assegnazione e la presa di servizio avverrà il 1 Luglio 2023.
Volevo chiedere una Vostra consulenza su come a questo punto dovrei comportarmi nei confronti dell'Ente. Il mio obiettivo sarebbe proseguire il mio dottorato di ricerca e ottenere il congedo straordinario per il dottorato di ricerca.

I dubbi che ho, sono di tipo procedurale:
a) Quando riceverò la lettera di presa di servizio dovrò firmarla e poi successivamente provare a inoltrare la mia richiesta di congedo al dirigente della Sede a cui sarò assegnato.
b) Se firmo la lettera di presa di servizio e poi non accettano la mia richiesta di congedo sarò obbligato a prendere servizio e lasciare il dottorato (non vorrei essere citato in causa se firmo la lettera di presa di servizio e poi non mi presento al lavoro).

Insomma con il messaggio in oggetto vorrei sapere "la strategia migliore" che dovrei adottare per riuscire a continuare il mio dottorato di ricerca e al contempo ottenere il congedo straordinario.

Vi ringrazio per il tempo che mi potrete dedicare.
Grazie ancora.

Cordiali saluti”
Consulenza legale i 03/06/2023
Nella Circolare Ministeriale n. 376 del 1984, in relazione alla legge 476/1984, si afferma che anche il vincitore di concorso che non può assumere servizio, perché impegnato in attività proprie del dottorato di ricerca, deve essere collocato in congedo straordinario.
Tale precisazione è stata ribadita anche dalla Circolare Ministeriale 4 novembre 2002, n. 120.

Tuttavia, le Circolari citate sono antecedenti alla modifica legislativa di cui alla legge 30 dicembre 2010, n. 240 riguardante “Norme in materia di organizzazione delle università”, pubblicata in G.U. del 14.1.2011 – Suppl. ordinario n. 11, con particolare riferimento all’art. 19, comma 3, che modifica l’art. 2 , primo comma della legge 13 agosto 1984, n. 476. In particolare, il punto a) del predetto comma 3 stabilisce che “il pubblico dipendente ammesso ai corsi di dottorato di ricerca è collocato a domanda, “compatibilmente con le esigenze dell’amministrazione,” in congedo straordinario…”.
Sul tale punto, si rinvia, peraltro, alle considerazioni fatte nel precedente parere.

La Circolare Ministeriale n. 15/2011, emanata dopo la citata modifica legislativa, pur richiamando i precetti fondamentali di cui alla circolare n.120/2002, tace circa il vincitore di concorso che non può assumere servizio a causa delle attività del dottorato.

A seguito della modifica legislativa, il congedo per dottorato non è più concesso automaticamente, ma compatibilmente con le esigenze dell’amministrazione, che, come già argomentato nel precedente parere, potrebbe anche negare il congedo, ma sarebbe tenuta a specificare quali siano le esigenze ostative alla concessione.

Venendo meno l’automatismo, a parere di chi scrive, l’amministrazione non è più tenuta a collocare automaticamente in congedo straordinario il candidato che non può assumere servizio perché impegnato nelle attività del dottorato.

Sul punto non si rinviene giurisprudenza, né indicazioni operative.

L’USR Campania ha dato alcune indicazioni operative circa i docenti che sono impegnati in un dottorato. Nella nota del 1° settembre 2022 si legge che i dirigenti scolastici “dopo aver acquisito la comunicazione di accettazione della nomina in ruolo, provvederanno ad emettere il provvedimento di differimento della assunzione in ruolo, per la durata del corso di dottorato, reiterandolo per ogni anno scolastico e fino al completamento del corso stesso”.

Trattasi di altro ente, ma, in mancanza di altre indicazioni, si potrebbe trarre qualche spunto.

A parere di scrive, nel caso di specie, si potrebbe, innanzitutto, tentare di comunicare preventivamente all’ente la situazione e, in caso di mancata risposta, accettare la sede e prendere comunque servizio, per evitare decadenze e, successivamente, inoltrare domanda di congedo.

M. M. chiede
mercoledì 01/03/2023 - Calabria
“Buongiorno,

sono un militare dell'Arma dei Carabinieri con la passione per l'informatica e studi universitari svolti in tal senso.

Il titolare di una società che opera nel settore dell'informatica ha chiesto la mia disponibilità a progettare e realizzare un software per la gestione documentale e ritengo che, previa comunicazione al mio comando, io sia legittimato a svolgere tale attività extralavorativa in virtù del fatto che i programmi per elaboratori sono considerati Opere dell'ingegno e pertanto il loro sfruttamento economico rientri nella previsione del art 53 Comma 6 del DLGS 165/2001.

Ovviamente, per il compenso percepito, che sarebbe inferiore o pari a Euro 5.000,00 la società provvederà al versamento della ritenuta d'acconto pari al 20% del compenso pattuito ed io provvederò ad indicare il compenso in sede di dichiarazione dei redditi.

Inoltre comunicherò al Comando che l'attività sarà svolta al di fuori degli orari di servizio e senza incidere sulle prioritarie esigenze dell'Amministrazione di appartenenza.


Ritenete che quanto da me formulato sia legittimo?


Grazie”
Consulenza legale i 10/03/2023
Il software ha trovato riconoscimento normativo all’interno della legge sul diritto d’autore (l. 22 aprile 1941, n. 633), che lo qualifica come opera dell’ingegno di carattere creativo.

Tuttavia, la disciplina legislativa riguarda solo i diritti di sfruttamento economico riservati al titolare del diritto d’autore sul programma e le facoltà riconosciute al legittimo utilizzatore.

La legge non contiene disposizioni che definiscono e regolamentano le operazioni contrattuali con cui, nella prassi, il software viene commissionato, venduto o dato in licenza.

Nella prassi, si parla di “contratto di sviluppo software” con riferimento all’accordo che ha ad oggetto il programma informatico “fatto su misura”, ovvero l’accordo con cui un soggetto si rivolge a un’impresa (o a un lavoratore autonomo) perché questa progetti e realizzi un software con caratteristiche funzionali tali da soddisfare le sue particolari esigenze.

Tale contratto atipico viene ricondotto, a seconda dei casi, nell’ambito del contratto d’appalto (artt. 1655 e ss. c.c.), oppure, nel caso il fornitore sia un lavoratore autonomo o piccolo imprenditore, quelle relative al contratto d’opera (artt. 2222 e ss. c.c.).

Quindi, nel caso di specie, non si tratterebbe soltanto di sfruttamento di opere dell’ingegno, ma di una prestazione di lavoro autonomo, anche se occasionale.

Si deve, quindi, stabilire se la prestazione occasionale di lavoro autonomo in questione sia o no incompatibile con lo status di dipendente pubblico, in particolare di militare dell’arma dei carabinieri.

La norma di riferimento in tema di incompatibilità è l’art. 53 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, il quale a sua volta richiama l’art. 60 e seguenti del D.P.R. 3/1957.
L’art. 60 del D.P.R. 3/1957 vieta ai dipendenti pubblici di esercitare il commercio, l'industria, e qualsiasi professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro.
Un medesimo divieto è previsto anche dall’art. 894 del Codice dell’Ordinamento Militare (D. Lgs. 66/2010), secondo il quale “La professione di militare è incompatibile con l’esercizio di ogni altra professione, salvo i casi previsti da disposizioni speciali. È altresì incompatibile l’esercizio di un mestiere, di un’industria o di un commercio, la carica di amministratore, consigliere, sindaco o altra consimile, retribuita o non, in società costituite a fine di lucro”.

La prestazione di lavoro autonomo occasionale relativa allo sviluppo di un software non rientra, peraltro, tra quelle non soggette ad obbligo di autorizzazione di cui all’art. 53, comma 6, D. Lgs. 165/2001. Non si tratta, infatti, di sfruttamento economico di opera dell’ingegno (in cui rientrerebbero i guadagni per eventuali royalties sul software) ma di un contratto d’opera occasionale.

Sarà, quindi, necessario chiedere l’autorizzazione alla propria amministrazione.

Sul punto il ministero della Difesa ha emanato una direttiva il 21 luglio 2008, in cui si afferma che le attività extra-istituzionali per essere compatibili con lo status di militare (o di appartenente alle Forze dell’Ordine), devono caratterizzarsi come attività:
- compatibili con la dignità del grado e con i doveri d’ufficio;
- svolte fuori dell’orario di servizio;
- effettuate senza carattere di continuità e assiduità;
- isolate, o comunque occasionali e saltuarie, che si risolvano in prestazioni ben individuate e circoscritte nel tempo.

Nel caso di specie, non dovrebbero esserci problemi ad ottenere l’autorizzazione, che va comunque richiesta per evitare sanzioni.

G. G. chiede
martedì 14/02/2023 - Campania
“Sono un dipendente statale del comparto università, in servizio da oltre 15 anni, a tempo pieno ed indeterminato inquadrato come categoria B per l’area dei servizi generali e tecnici.
Sono stato contattato da un istituto privato per il recupero di anni scolastici, per attività di docenza in virtù della mia esperienza nel settore informatico. Queste docenze sono impartite in modalità online e durante il mio tempo libero e non interferiscono affatto con la mia attività istituzionale.
Per questa attività, l’istituto ha redatto un contratto, che non ho ancora firmato, nel quale è richiesto di indicare se il sottoscrivente è o non è pubblico impiegato e, in caso affermativo, di allegare autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza a poter svolgere detta attività.
A me è parso di capire, leggendo il punto f-bis del comma 6 dell’art. 53 del d. lgs. 165/2001, che per i compensi derivanti da attività di docenza non trova applicazione la disciplina dettata dai successivi commi, dal 7 al 13, che prevede la preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza a poter svolgere un’attività altra. Alla luce di ciò, quindi, credo che io non abbia alcun obbligo a comunicare alla mia amministrazione questa attività di docenza, non necessitando di specifica autorizzazione al riguardo e pertanto la parte del contratto redatto dall’istituto relativa al punto in questione non ha regione di esistere: è corretta la mia ricostruzione? Potrebbe, invece, la mia amministrazione accampare diritti sui compensi da me percepiti in qualità di docente qualora mancasse l’autorizzazione? Quali sono gli orientamenti giurisprudenziali al riguardo?”
Consulenza legale i 20/02/2023
La norma di riferimento è l’art. 53 del Testo unico sul pubblico impiego. Secondo tale norma, si può distinguere tra attività assolutamente incompatibili, attività relativamente incompatibili ed attività compatibili tassativamente indicate dal legislatore.
Secondo il comma 6, punto f-bis, l’attività di docenza rientra tra quelle compatibili.

La deroga all’obbligo di ottenere l’autorizzazione, però, non significa che l’incarico può essere assunto indiscriminatamente.

Le cause preclusive continuano a sussistere e, per esempio, non è possibile assumere incarichi che presentino una situazione di conflitto d’interesse.

Sono, inoltre, preclusi gli incarichi, rientranti nelle ipotesi di deroga dall´autorizzazione di cui all´art. 53, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, che interferiscono con l´attività ordinaria svolta dal dipendente pubblico in relazione al tempo, alla durata, all´impegno richiestogli, tenendo presenti gli istituti del rapporto d’impiego o di lavoro concretamente fruibili per lo svolgimento dell´attività.


Quindi, il dipendente, ancorché non soggetto all’autorizzazione, dovrebbe comunicare, in ogni caso, la proposta di conferimento dell’incarico, per mettere l’Amministrazione di appartenenza nelle condizioni di valutare, o meno, se esistono cause preclusive allo svolgimento del compito.
Infatti, la valutazione non può essere rimessa solamente al prudente apprezzamento dello stesso dipendente candidato all’incarico.

Con riferimento ad un incarico di giornalista pubblicista, il Dipartimento della Funzione Pubblica, rispondendo (con nota 09.10.1997, prot. 6352) al quesito posto dall'Associazione Italiana Editori, ha affermato che, se per collaborare con una rivista a titolo gratuito non è necessario chiedere alcuna autorizzazione, trattandosi di un'attività compatibile, per iscriversi all'albo dei giornalisti ed esercitare un'attività retribuita, è necessario richiedere la relativa autorizzazione all'amministrazione di appartenenza, al fine di accertare se trattasi di attività saltuaria e occasionale e non in conflitto con quella ordinaria.

L'amministrazione di appartenenza potrebbe negare l’autorizzazione nel caso ravvisi situazioni di conflitto di interesse con il lavoro pubblico che si svolge.

Infatti, sono considerate attività relativamente incompatibili, ovvero che necessitano di una previa autorizzazione gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali sia previsto sotto qualsiasi forma un compenso.

Secondo la Corte dei Conti n. 216/2014; “L'autorizzazione prevista dall'art. 53 comma 7 D.Lgs. n. 165 del 2001 è volta a verificare, in concreto: l'esistenza di eventuali situazioni di conflittualità tra le funzioni assegnate al singolo dipendente e gli interessi della struttura di appartenenza; la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza nonché con le mansioni e le posizioni di responsabilità attribuite al dipendente stesso; la occasionalità o saltuarietà del nuovo incarico; la materiale compatibilità, in termini di impegno, del nuovo incarico con il rapporto di pubblico impiego; le specificità attinenti alla posizione del dipendente stesso e la corrispondenza fra il livello di professionalità posseduto dal dipendente e la natura dell'incarico esterno a lui affidato.
L'inosservanza del divieto posto dall'art. 53 comma 7 D.Lgs. n. 165 del 2001 impone al lavoratore che ha disatteso l'obbligo di esclusività del rapporto di pubblico impiego, il versamento, a favore all'amministrazione di appartenenza, del compenso dovuto per le prestazioni non autorizzate. Qualora il lavoratore non abbia ancora percepito dette somme, l'amministrazione di appartenenza potrà invece agire direttamente nei confronti dell'erogatore esterno.
”.
Nel caso di specie, quindi, pur non trattandosi di attività che richiede autorizzazione, nel caso in cui la stessa dovesse risultare incompatibile, anche ad un controllo successivo, per le ragioni di cui sopra si è detto, vi sarebbe comunque la sanzione di cui all’art. 7 D. Lgs. N. 165/2001, oltre all’eventuale sanzione disciplinare.

Pertanto, per evitare qualsiasi rischio, nonostante l’attività di docenza rientri tra quelle compatibili, sarebbe opportuno comunicare all’amministrazione di appartenenza la proposta di incarico in modo da far valutare alla stessa che non vi sia alcun profilo di incompatibilità.

Anonimo chiede
mercoledì 30/11/2022 - Puglia
“Chiedo: un dipendente pubblico a tempo indeterminato (Università degli Studi di omissis), iscritto all’Albo dei Giornalisti di omissis, nell’elenco dei pubblicisti, può ricoprire l’incarico di direttore di una testata giornalistica regolarmente iscritta al Tribunale di omissis (periodico cartaceo e quotidiano online) edita da una associazione senza finalità di lucro (della quale il dipendente in questione è anche presidente)?
Il dipendente pubblico in questione non ha mai percepito compensi né per l’attività giornalistica svolta (direttore di testata), né per l’attività di presidente dell’associazione senza finalità di lucro.
Nel caso, potrebbe percepire compensi per la sua collaborazione (direttore) con la testata giornalistica, o sarebbe in contrasto con la sua funzione di dipende pubblico?
Nel caso in cui la testata fosse ceduta dall’associazione ad una società srls (di cui il dipende pubblico è socio senza cariche amministrative), potrebbe il dipendente-giornalista continuare a svolgere la funzione di direttore responsabile?


Consulenza legale i 07/12/2022
La norma di riferimento è l’art. 53 del Testo unico sul pubblico impiego. Secondo tale norma, si può distinguere tra attività assolutamente incompatibili, attività relativamente incompatibili ed attività compatibili tassativamente indicate dal legislatore.
La collaborazione a giornali e riviste rientra nelle attività compatibili indicate dal legislatore.

Pertanto, l'attività di pubblicista è in linea di massima compatibile.

Tuttavia, il Dipartimento della Funzione Pubblica, rispondendo (con nota 09.10.1997, prot. 6352) a quesito posto dall'Associazione Italiana Editori, ha affermato che, se per collaborare con una rivista a titolo gratuito non è necessario chiedere alcuna autorizzazione, trattandosi di un'attività compatibile, per iscriversi all'albo dei giornalisti ed esercitare un'attività retribuita, è necessario richiedere la relativa autorizzazione all'amministrazione di appartenenza, al fine di accertare se trattasi di attività saltuaria e occasionale e non in conflitto con quella ordinaria.

L'amministrazione di appartenenza potrebbe negare l’autorizzazione nel caso ravvisi situazioni di conflitto di interesse con il lavoro pubblico che si svolge.
Infatti, sono considerate attività relativamente incompatibili, ovvero che necessitano di una previa autorizzazione gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali sia previsto sotto qualsiasi forma un compenso.

In particolare, sarebbe opportuno chiedere l’autorizzazione in quanto nel caso di specie non si svolge semplicemente l’attività di pubblicista, ma si ha l’incarico di direttore responsabile che comporta impegno e responsabilità differenti, per le quali l’amministrazione di appartenenza potrebbe ravvisare delle incompatibilità.

Per quanto riguarda la carica di presidente dell’associazione senza fine di lucro, è valido un simile ragionamento.
Infatti, il pubblico dipendente può ricoprire il ruolo di presidente di un’associazione senza finalità di lucro, a patto di non percepire alcun compenso della persona giuridica che rappresenta legalmente. Diversamente si ricadrebbe nell’ipotesi di cui sopra e sarebbe necessario richiedere l’autorizzazione.

Ai sensi dell’art. 60 D.P.R. 3/57 (richiamato dall’art. 53, Testo unico sul Pubblico Impiego) “L'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, ne' alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro”.

Da tale disciplina consegue il divieto per il pubblico dipendente sia di svolgere qualsiasi professione, o attività imprenditoriale, sia di essere amministratore di qualsivoglia tipo di società commerciale. Allo stesso modo, al pubblico dipendente è vietato ricoprire la qualità di socio illimitatamente responsabile di una società. L’incompatibilità è prevista in particolare per il socio accomandatario in una Sas (società in accomandita semplice) o in una società semplice o in una Snc (società in nome collettivo).

Al contrario, il pubblico dipendente può essere socio senza poteri di amministrazione di una Spa o di una Srl, o socio accomandante in una Sas (società in accomandita semplice). Si tratta cioè delle società di capitali che, come noto, al contrario delle società di persone, implicano una limitazione di responsabilità: il socio cioè non risponde dei debiti contratti dalla società.

Pertanto, la carica di socio senza alcun incarico amministrativo non dovrebbe comportare alcuna incompatibilità.

Le incompatibilità potrebbero sorgere per quanto riguarda l’incarico di direttore responsabile.
Infatti, per quanto riguarda l’attività di pubblicista, anche con riferimento alla srl, valgono le considerazioni di cui sopra, ovvero sarà necessario richiedere l’autorizzazione nel caso si percepiscano compensi.
Invece, l’attività di direttore responsabile potrebbe essere considerata una professione svolta alle dipendenze di una società costituita a fini di lucro e, pertanto, potrebbe essere negata la relativa autorizzazione.

G. C. chiede
martedì 17/05/2022 - Campania
“Docente statale di ruolo da più anni. Da settembre 2021 ( 8 mesi) passaggio di ruolo alla scuola superiore.
Iscritto all'albo dei giornalisti pubblicisti.
Mensilmente pubblica 1, a volte raramente 2 articoli, a titolo COMPLETAMENTE GRATUITO, su una rivista tecnico-scientifica-ambientale edita da una agenzia di proprietà regionale e fruibile gratuitamente on-line.
Considerato che “per l'attività di pubblicazione di propri scritti da parte di un pubblico dipendente che avviene a titolo gratuito non è necessaria alcuna autorizzazione”, ( nota del Dipartimento della Funzione Pubblica prot. n. 6352 del 9 ottobre 1997), non è stata chiesta autorizzazione alla Preside.
È corretta tale procedura?
O bisogna provvedere a qualche adempimento per evitare di incorrere in sanzioni?”
Consulenza legale i 25/05/2022
La norma di riferimento è l’art. 53 del Testo unico sul pubblico impiego. Secondo tale norma, si può distinguere tra attività assolutamente incompatibili, attività relativamente incompatibili ed attività compatibili tassativamente indicate dal legislatore.

La collaborazione a giornali e riviste rientra nelle attività compatibili indicate dal legislatore.

Pertanto, l'attività di pubblicista è in linea di massima compatibile.

Alla luce dell’articolo 53, comma 6, del testo unico pubblico impiego, è obbligatorio chiedere l’autorizzazione all’ufficio del personale dell’amministrazione di appartenenza solo per svolgere attività compatibili, ma retribuite.

Nel caso di specie, trattandosi di attività compatibile e svolta a titolo completamente gratuito, non è necessario richiedere alcuna autorizzazione.

Qualche dubbio potrebbe sorgere circa l'iscrizione all'Albo dei giornalisti, per la quale è richiesto l'aver svolto attività di giornalista regolarmente retribuita.

Per puro scrupolo, si potrebbe informare l'amministrazione dell'iscrizione all'Albo, sottolineando il fatto che l'attività è attualmente svolta a titolo completamente gratuito e quindi non necessita di autorizzazione. Autorizzazione che comunque l'amministrazione non avrebbe motivo di negare.

B. R. chiede
venerdì 06/05/2022 - Toscana
“Sono vincitrice di concorso pubblico ripam come funzionario F1 area 3 assegnata presso il ministero dell interno ( questura) firmerò il contratto il 16 maggio 2022.
Detengo una partecipaIone societaria in una società semplice che gestisce alcuni immobili , non ho cariche gestorie e godo di limitazione di responsabilità ex art 2267 cc prevista da statuto.
Volevo sapere se tale situazione è in qualche modo incompatibile con il pubblico impiego e se deve essere comunicata all’ amministrazione.
Grazie”
Consulenza legale i 15/05/2022
Non vi è nessuna incompatibilità ai sensi all'articolo 53 commi 6 e 7 D. Lgs. n. 165/2001 tra il pubblico impiego e la partecipazione ad una società semplice, a patto che si goda della limitazione di responsabilità e non si abbia alcun incarico di amministrazione. È importante mantenere la limitazione di responsabilità e non assumere alcuna carica che possa comportare l'espletamento di poteri decisionali e/o gestionali.

Non essendoci incompatibilità non sussiste neppure un obbligo di comunicazione, né tantomeno di autorizzazione

G. L. G. chiede
martedì 22/02/2022 - Lombardia
“Un dipendente pubblico, appartenente al comparto funzioni centrali, svolgendo attività hobbistica evoluta di fotografo, può consegnare le proprie opere fotografiche ad una agenzia di stock fotografici e nel caso in cui l’agenzia venda l’utilizzo di una sua foto, incassare i proventi delle royalties, senza incorrere nell’incompatibilità? Si tratta di una attività del tutto saltuaria ed occasionale, che si verificherà solo e soltanto quando qualcuno, cliente dell’agenzia, è interessato a quella specifica fotografia.”
Consulenza legale i 01/03/2022

Ai sensi dell'articolo 53, comma 6, ultimo periodo del D. lgs. n. 165/2001, sono esclusi dalle norme sulle incompatibilità del pubblico dipendenti, i compensi derivanti “dalla utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali”.

Sebbene non sia prevista l'autorizzazione, è opportuno inviare una semplice comunicazione preventiva all'ufficio personale della propria amministrazione. Alcune amministrazioni lo richiedono espressamente nel regolamento in materia di incompatibilità.


G.A. chiede
giovedì 16/09/2021 - Sicilia
“Buongiorno,
Sono un impiegato full time e di ruolo dal 2010 del Dipartimento Protezione civile della Regione XXX.

Sono in possesso della Laurea in Architettura, non riconosciuta dalla Regione XXX che quindi mi ha inquadrato in categoria B "Collaboratore" ( licenza media).
Sono anche inscritto all'Albo Professionale.

All'interno dell'ufficio, sebbene la mia bassa qualifica mi impone di espletare mansioni di poca rilevanza (fotocopie , archivio, protocollo), mi sono sempre occupato di mansioni superiori, non tecniche , ma sempre nel campo amministrativo e solo per rispetto ai Dirigenti che ripongono in me notevole stima.

Ritengo pertanto di non avere alcuna incompatibilità lavorativa tra il lavoro di ufficio e quello professionale, che comunque viene svolto al di fuori degli orari di ufficio stesso.

Capite bene però che con una laurea come la mia ed una specializzazione post-laurea, non posso contentarmi di fare solamente il semplice impiegato, anche per via della bassa remunerazione mensile ed in confidenza, come avrete già capito, vi dico che ho sempre lavorato ufficiosamente in team con altri colleghi.

A questo punto mi chiedo cosa posso fare per poter ufficializzare la mia professione pur rimanendo un pubblico impiegato.

Ho colleghi nella stessa mia situazione che hanno aperto la P.I. in regime forfettario con gestione separata INPS, altri che operano con la "Prestazione occasionale", che a quanto pare non ha più limiti di durata e soglia dei compensi (€5.000), perchè se li avesse anche qui si dovrebbe aprire la Gestione separata INPS per i redditi eccedenti gli € 5.000. Voi in qualità di esperti cosa ne pensate?

Vi chiedo a questo punto di aiutarmi a comprendere meglio per poter trovare la giusta soluzione al mio caso, che mi possa consentire di lavorare in serenità e soprattutto senza sentirmi, pur lavorando, in difetto.

Grazie

Cordiali saluti”
Consulenza legale i 24/09/2021
Per rispondere al quesito, è necessario richiamare l’art. 53 del D. Lgs. n. 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego).

Secondo tale norma, il dipendente pubblico è obbligato a prestare il proprio lavoro in maniera esclusiva nei confronti dell’Amministrazione da cui dipende.

L’art. 53, comma 7, del D. Leg. 30/03/2001, n. 165, dispone, in particolare, che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza; lo stesso art. 53 prevede - ai commi 8 e 9 - il divieto per le pubbliche amministrazioni, nonché per gli enti pubblici economici e per i soggetti privati, di conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche o dipendenti pubblici in generale senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi.

Le disposizioni in questione non si applicano, ai sensi dell’art. 53, comma 6, del D. Leg. 165/2001, ai dipendenti con rapporto di lavoro part time non superiore al 50%, ai docenti universitari a tempo definito ed alle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali.

Il divieto in oggetto si applica a tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso, con esclusione delle attività elencate dal citato art. 53, comma 7, del D. Leg.vo 165/2001, tra le quali si cita a titolo di esempio la collaborazione a giornali, riviste, la partecipazione a seminari e convegni, lo sfruttamento di opere soggette al diritto d’autore.

Pertanto, si ritiene che l’attività professionale di architetto sia incompatibile ai sensi dell’art. 53 D. Lgs. 165/2001 a meno che non sia autorizzata dall’amministrazione di appartenenza.

Le condizioni e i criteri in base ai quali il dipendente a tempo pieno può essere autorizzato a svolgere un’altra attività sono predeterminati, a norma del comma 5 dell’art. 53 citato, dall’amministrazione di appartenenza tenendo in considerazione:
– la temporaneità e l’occasionalità dell’incarico. Sono, quindi, autorizzabili le attività esercitate sporadicamente ed occasionalmente, anche se eseguite periodicamente e retribuite, qualora per l’aspetto quantitativo e per la mancanza di abitualità, non diano luogo ad interferenze con l’impiego;
– il non conflitto con gli interessi dell’amministrazione e con il principio del buon andamento della pubblica amministrazione;
– la compatibilità dell’impegno lavorativo derivante dall’incarico con l’attività lavorativa di servizio cui il dipendente è addetto tale da non pregiudicarne il regolare svolgimento. L’attività deve essere svolta al di fuori dell’orario di servizio.

Ai sensi del comma 10, l'autorizzazione deve essere richiesta all'amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti pubblici o privati che intendono conferire l'incarico; può, altresì, essere richiesta dal dipendente interessato. L'amministrazione di appartenenza deve pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta stessa.

Circa l’inquadramento come contratto d’opera occasionale, si precisa che lavoratore autonomo occasionale può essere definito, alla luce dell’art. 2222 del Codice civile, chi si obbliga a compiere un’opera od un servizio, con lavoro prevalentemente proprio, senza vincolo di subordinazione e senza alcun coordinamento con il committente; l’esercizio dell’attività, peraltro, deve essere del tutto occasionale, senza i requisiti della professionalità e della prevalenza.

Come è stato chiarito in dottrina e giurisprudenza, la prestazione occasionale non è utilizzabile dai professionisti iscritti ad albi professionali.

Sul punto è intervenuta a chiarire la posizione di prassi anche l’Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 41/E/2020, secondo la quale, in breve, nessuna attività di un professionista iscritto ad un Albo può essere inquadrata come una prestazione occasionale.

Sostanzialmente, le prestazioni occasionali sono vietate in tutti i casi in cui il professionista risulti essere iscritto ad un Albo. Tutti questi professionisti quando svolgono attività legate alla loro iscrizione all’Albo devono operare esclusivamente con Partita IVA. Ricorrendone i requisiti si potrà optare per il regime forfettario.

I contributi dovranno essere versati alla gestione separata INPS.

Per quanto riguarda l’inquadramento fiscale, ad ogni modo, si consiglia di rivolgersi ad un commercialista.

In conclusione, per svolgere la professione di architetto, pur rimanendo un pubblico dipendente full time, sarà necessario, innanzitutto, ottenere l'autorizzazione all'amministrazione di appartenenza e, in secondo luogo, aprire una partita IVA, non essendo possibile svolgere la professione in parola con prestazione occasionale.


Fabio S. chiede
lunedì 21/06/2021 - Lombardia
“Buongiorno siamo un gruppo di sanitari (medici ed infermieri) che abbiamo dato vita da un paio di mesi ad una APS con lo scopo di formare, divulgare, informare, promuovere attività di crescita ed educazione di sanitari ma anche popolazione laica. Come ben sa l'attività è no profit.
esiste qualche obbligo verso le aziende sanitarie dove lavoriamo (pubbliche)?
Grazie”
Consulenza legale i 27/06/2021
Il D.P.R. 16 aprile 2013 n. 6 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165) all’art. 5 prevede che:
“1. Nel rispetto della disciplina vigente del diritto di associazione, il dipendente comunica tempestivamente al responsabile dell’ufficio di appartenenza la propria adesione o appartenenza ad associazioni od organizzazioni, a prescindere dal loro carattere riservato o meno, i cui ambiti di interessi possano interferire con lo svolgimento dell’attività dell’ufficio. Il presente comma non si applica all’adesione a partiti politici o a sindacati.
2. Il pubblico dipendente non costringe altri dipendenti ad aderire ad associazioni od organizzazioni nè esercita pressioni a tale fine, promettendo vantaggi o prospettando svantaggi di carriera.”.

Elemento costitutivo dell’obbligo di comunicazione è quindi l’interesse conflittuale.

Perché sussista l’obbligo di comunicazione lo scopo sociale dell’associazione deve porsi in potenziale conflitto con la finalità perseguita dall’unità produttiva ove il lavoratore presta la propria attività.
In altre parole, l’associazione deve porsi in concorrenza con l’azienda sanitaria presso cui presta servizio il socio come dipendente pubblico.

Ad esempio, nell’ipotesi in cui sia l’azienda sanitaria, sia l’APS si occupino di formazione dei sanitari, sussisteranno i presupposti per un obbligo di comunicazione nei confronti dell’ufficio di appartenenza.

Occorre, inoltre, tenere in considerazione le normative che disciplinano le attività extralavorative del pubblico dipendente e che potrebbero entrare in conflitto con il rapporto pubblico, come potrebbe essere appunto l’adesione all’APS.

Il D. Lgs. 30.03.2001 n. 165, all’art. 53 (Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi), dispone:
  • al comma 1, che resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957 (che esaminerò in seguito);
  • al comma 5, che in ogni caso, il conferimento operato direttamente dall’amministrazione, nonché l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d’impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente.
  • al comma 7, che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi.Il comma 12 prevede l’unico caso di incarico a titolo gratuito ma lo vincola solo tra le amministrazioni pubbliche e non per quelle private (così introdotto dall’art. 1, comma 42 della legge n. 190 del 2012).
L’art. 60 del D. Lgs. n. 165/2001 “limpiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente”.

La violazione del divieto di cui al comma 60 o la mancata comunicazione di cui al comma 58, nonchè le comunicazioni risultate non veritiere anche a seguito di accertamenti ispettivi dell’amministrazione, costituiscono giusta causa di recesso per i rapporti di lavoro disciplinati dai contratti collettivi nazionali di lavoro e costituiscono causa di decadenza dall’impiego per il restante personale, sempreché le prestazioni per le attività di lavoro subordinato o autonomo svolte al di fuori del rapporto di impiego con l’amministrazione di appartenenza non siano rese a titolo gratuito, presso associazioni di volontariato o cooperative a carattere socio-assistenziale senza scopo di lucro.

In definitiva, un’incompatibilità potrebbe sussistere nel caso in cui l’attività presso l’APS sia svolta a titolo oneroso.

Invece, non dovrebbe sussistere alcun obbligo di comunicazione per l’attività prestata nell’associazione a titolo gratuito.

Nel luglio 2013 il Dipartimento della Funzione Pubblica ha cercato di riordinare la normativa, emanando una circolare contenente i criteri generali in materia di incarichi vietati ai dipendenti pubblici.
Gli incarichi vietati sono quelli caratterizzati da abitualità, professionalità e conflitto di interessi con la pubblica amministrazione di appartenenza.

Tanto premesso, l'incarico di amministratore di una ONLUS presenta i caratteri dell'abitualità e della professionalità, anche in assenza del fine di lucro. La circolare vieta, quindi, di accettare cariche in società costituite a fine di di lucro, non nell’ambito della Onlus.

Tuttavia, considerando la normativa nel suo complesso, si ritiene che il pubblico dipendente possa ricoprire il ruolo di amministratore di una ONLUS esclusivamente a patto di non percepire alcun compenso della persona giuridica che rappresenta legalmente.

Si invita pertanto a chiedere l’autorizzazione a ricoprire il ruolo di amministratore dell’APS in via preventiva all’amministrazione di appartenenza.

Pur in assenza di compenso, si ricorda che sarà necessario tenere in considerazione l’eventuale incompatibilità ai sensi del D.P.R. 6/2013 e il relativo obbligo di comunicazione.

CLAUDIO G. chiede
lunedì 24/05/2021 - Lazio
“Spett.le Studio
Lo scrivente è un dipendente pubblico, del Ministero della Giustizia, Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, corpo di Polizia penitenziaria. Da alcuni anni il sottoscritto ha attivato un sito web relativo ad esperienze di viaggio maturate in prima persona. Questo sito, allo stato attuale, non presenta alcun tipo di pubblicità, e può essere fruito in rete gratuitamente da parte di chiunque. Stante però il successo riscosso, riscontrato dal numero di visualizzazioni quotidiane, mensili ed annuali, il sottoscritto vorrebbe ricavare dallo stesso un guadagno attraverso gli strumenti di pubblicità previsti da società che offrono questo servizio in rete. Il problema però è rappresentato dalla presenza di una norma specifica - art. 35 del DLGS 443/1992, la quale sostanzialmente impedisce ho sottoscritto di potere ricavare fonti di guadagno diverse da quel previste dal proprio contratto è stipendio.
Si chiede pertanto di sapere se il limite ostativo di cui sopra sia assoluto, oppure se esistano strumenti legali per poter trarre profitto dal proprio sito si cui alla narrativa, compatibili con l'attività lavorativa attualmente effettuata.
In attesa di cortese riscontro, si porgono cordiali saluti”
Consulenza legale i 01/06/2021
L’art. 35 del D. Lgs. 443/1992 vieta al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria qualsiasi tipo di attività commerciale. Pertanto, l’inserimento di banner pubblicitari sul sito web è attività assolutamente incompatibile e vietata, in quanto considerata a tutti gli effetti attività commerciale.

L’esercizio di una attività commerciale è sempre svolta in forma imprenditoriale. Questo indipendentemente dalla durata e dal volume dei compensi raggiunti nell’anno.

Infatti, i redditi derivanti dalla messa a disposizione di spazi web a fini pubblicitari sono qualificabile come reddito di impresa e non possono essere gestiti in forma occasionale o come attività professionale.

Sarà, infatti, necessario aprire una partita IVA per la fatturazione.

Non esistono, pertanto, strumenti legali per trarre profitto dal proprio sito web senza incorrere nelle incompatibilità previste per il dipendente pubblico ed in particolare per il dipendente del Corpo di Polizia Penitenziaria.

L'unica strada è trasferire il sito ad altro soggetto o fare un contratto di concessione in uso. Da studiare.

M. V. chiede
giovedì 18/03/2021 - Emilia-Romagna
“Sono un tecnico di istocito patologia, in servizio presso l'ausl di Imola ma al momento a comando presso l'aul di Bologna.
Il mio ufficio attuale ritiene che io svolga attività illegale dal momento che il regolamento aziendale vieta ai tecnici di effettuare attività extra istituzionale ex art 53 165/2001. Per la precisione io al momento vengo autorizzata dal mio ufficio di provenienza (Imola) con autorizzazione annuale e tenuta dell'anagrafe delle prestazioni per quanto la mia convinzione è che essendo l'attività che svolgo (strumentale in quanto ausiliario del CTU) inserita nominalmente nell'incarico ai sensi del 359 cpp in qualità di assistente del medico legale sia copera dagli stessi vincoli previsti per il CTU. Quindi la domanda è: sono un tecnico ed opero in qualità di ausiliare del CTU. il CTU comunica preventivamente al P.M. il mio nome che viene inserito in incarico. quali sono i miei doveri ? Effettuo sia la comunicazione preventiva alla mia AUSL che quella successiva. devo essere autorizzata essendo la mia attività professionale ed incopmatibile; opure è anch'essa una pubblica funzione soggetta agli stessi obblighi del CTU? Per quanto concerne i compensi sono soggetti al contratto d'opera occasionale ? Al tetto dei 5000 euro ?”
Consulenza legale i 06/04/2021
L’art. 53, comma 7, del D. Lgs. 30/03/2001, n. 165, dispone che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza; di converso lo stesso art. 53 prevede - ai commi 8 e 9 - il divieto per le pubbliche amministrazioni, nonché per gli enti pubblici economici e per i soggetti privati, di conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche o dipendenti pubblici in generale senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi.

Le disposizioni in questione non si applicano, ai sensi dell’art. 53, comma 6, del D. Lgs. 165/2001, ai dipendenti con rapporto di lavoro part time non superiore al 50%, ai docenti universitari a tempo definito ed alle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali.

Il divieto in oggetto si applica a tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso, con esclusione delle attività elencate dal citato art. 53, comma 7, del D. Leg.vo 165/2001, tra le quali si cita a titolo di esempio la collaborazione a giornali, riviste, la partecipazione a seminari e convegni, lo sfruttamento di opere soggette al diritto d’autore.

Il Consiglio di Stato, con sentenza del 17/07/2017, n. 3513, ha ritenuto che gli “incarichi” cui si riferisce il divieto stabilito dall’art. 53, comma 7, del D. Leg.vo 165/2001 sono di tipo essenzialmente diverso da quelli di consulenza tecnica. Ciò si afferma anzitutto con riguardo al soggetto che li conferisce, che nel caso della consulenza tecnica è l’Autorità giudiziaria, ovvero il Giudice o il Pubblico ministero, soggetto pertanto non identificabile con le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici economici ovvero i privati cui l’art. 53 del D. Leg.vo 165/2001 si riferisce.

La Corte ha poi sottolineato la diversità con riguardo alla natura intrinseca dell’incarico, che nel caso della consulenza tecnica non costituisce l’oggetto di un contratto di prestazione d’opera professionale o di altro tipo, ma una funzione pubblica che si adempie a fini di giustizia. Lo conferma anche il relativo regime giuridico, per cui l’assunzione dell’incarico è doverosa (come si ricava ad esempio dall’art. 366 del Codice penale, secondo il quale costituisce reato la condotta di chi, nominato all’ufficio, ne ottenga con mezzi fraudolenti l’esenzione, e dall’art. 63 del Codice di procedura civile, per cui “il consulente scelto tra gli iscritti in un albo ha l’obbligo di prestare il suo ufficio, tranne che il giudice riconosca che ricorre un giusto motivo di astensione”).

Pur non rinvenendosi precedenti sul punto, si ritiene che l’attività di ausiliario del CTU non possa essere equiparata, ai fini che qui interessano, all’attività del CTU.

Innanzitutto, nel caso di specie l’incarico non è conferito dal Giudice o dal Pubblico Ministero, ma dallo stesso CTU, che lo sceglie a sua discrezione.

Inoltre, l’ausiliario del CTU non si assume alcuna responsabilità per quanto riguarda il risultato della CTU, che sarà sottoscritta dal Consulente nominato dal giudice, il quale ne farà proprie le conclusioni.

Infine, non vi è alcun obbligo, per l’ausiliario del CTU, di prestare il suo ufficio.

Per tutto quanto sopra esposto, non si rinviene nella figura dell’ausiliario del CTU la stessa funzione pubblica che invece riveste il CTU.

Pertanto, si ritiene che tale attività sia incompatibile ai sensi dell’art. 53 D. Lgs. 165/2001 e debba essere autorizzata dall’amministrazione di appartenenza.

Circa l’inquadramento come contratto d’opera occasionale, si precisa che lavoratore autonomo occasionale può essere definito, alla luce dell’art 2222 del Codice civile, chi si obbliga a compiere un’opera od un servizio, con lavoro prevalentemente proprio, senza vincolo di subordinazione e senza alcun coordinamento con il committente; l’esercizio dell’attività, peraltro, deve essere del tutto occasionale, senza i requisiti della professionalità e della prevalenza.

Nel caso in cui manchi il requisito dell’autonomia, invece, l’attività dovrà essere svolta con un contratto di lavoro subordinato.

Per quanto riguarda il requisito dell’occasionalità, di norma si considerano occasionali le prestazioni che presentino entrambe le seguenti caratteristiche:
  • La durata della prestazione (lavoro occasionale) non supera i 30 giorni all'anno.
  • Il costo della prestazione non supera i 5.000€.
Diversamente, non si potrà parlare di lavoro autonomo occasionale, ma sarà necessaria l’apertura di una Partita IVA.

Per quanto riguarda l’inquadramento fiscale, ad ogni modo, si consiglia di rivolgersi ad un commercialista o ad un consulente del lavoro.


NICOLA M. chiede
giovedì 23/07/2020 - Sicilia
“Considerato che l'art. 16 della legge 20 maggio del 1985, n. 222, afferma che la costruzione di un edificio non è attribuibile alla competenza di una chiesa, essendo l'attività di religione o di culto lo scopo istituzionalmente riconosciuto agli enti ecclesiastici, può un poliziotto svolgere contemporaneamente anche il ruolo di Pastore fondatore e rappresentante legale di una chiesa evangelica, per cui chiede una concessione edilizia per realizzare un edificio per il culto religioso.”
Consulenza legale i 29/07/2020
Per rispondere al quesito è, innanzitutto, necessario richiamare le norme in tema di incompatibilità nel lavoro pubblico ed in particolare l’art. 53, D. Lgs. 165/2001.
Ai sensi dell’art. 60, D.P.R. 3/1957, richiamato dall’art. 53, D. Lgs. 165/2001, “l'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, nè alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del Ministro competente”.
L’art. 53, comma 7, D. Lgs. 165/2001, al comma 7, prevede che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza”.
Inoltre, ai sensi dell’art. 8 del Codice di Comportamento dei dipendenti del Ministero dell’Interno “Il dipendente non accetta incarichi retribuiti da soggetti pubblici o privati senza la preventiva autorizzazione dell'Amministrazione ai sensi dell'art. 53, co. 7, del D. Lgs. n. 165/2001. All'atto della richiesta di autorizzazione, il dipendente deve attestare che il soggetto privato o pubblico presso il quale intende svolgere la collaborazione non abbia in corso o non abbia avuto, nel biennio precedente la domanda di autorizzazione, un interesse economico significativo in decisioni o attività inerenti l’ufficio di appartenenza. A titolo meramente esemplificativo e, ferma restando la piena discrezionalità di giudizio dell'Amministrazione, sono considerati interessi economici significativi l'affidamento di concessioni, autorizzazioni o permessi, che comportino arricchimento patrimoniale o esercizio di attività economiche, affidamenti di incarichi di consulenza o collaborazione professionale, affidamento di appalti o cottimi fiduciari per forniture di beni o servizi o per l'esecuzione di lavori e, comunque, ogni decisione di carattere, anche parzialmente, discrezionale e non vincolato per legge. In mancanza della dichiarazione del dipendente o nel caso di attività per cui l'Amministrazione giudichi significativi gli interessi economici, l'autorizzazione non può essere rilasciata e il dipendente non può accettare l'incarico [[…]]”.
Perché un’attività possa essere autorizzata è necessario che sia caratterizzata da temporaneità e occasionalità. Sono, quindi, autorizzabili le attività esercitate sporadicamente ed occasionalmente, anche se eseguite periodicamente e retribuite, qualora l’aspetto quantitativo e per la mancanza di abitualità, non diano luogo ad interferenze con l’impiego.
Per il dovere di esclusività, vi è un’incompatibilità assoluta per i dipendenti pubblici con contratto a tempo pieno o a part-time superiore al 50%, dal momento che questi non hanno il tempo necessario per svolgere il doppio lavoro senza compromettere l’efficienza dell’impiego pubblico.
L’attività non deve, inoltre, essere in conflitto con gli interessi dell’amministrazione e con il principio del buon andamento della pubblica amministrazione. Inoltre, non deve pregiudicare il regolare svolgimento del servizio del pubblico dipendente. L’attività deve, quindi, essere svolta al di fuori dell’orario di servizio.
Sono invece attività incompatibili:
  • l’esercizio di attività commerciale, industriale o di tipo professionale che non prevedono uno specifico albo;
  • l’impiego alle dipendenze di privati;
  • l’incarico in società costituite a fini di lucro, tranne che si tratti di cariche in società od enti per i quali la nomina è riservata allo Stato.
Sono invece, pienamente compatibili con il lavoro pubblico, anche per i dipendenti a tempo pieno o con orario superiore al 50%, tra l’altro, le attività che sono esplicitazioni dei diritti e libertà costituzionalmente garantiti, quali la partecipazione ad associazioni sportive, culturali, religiose, di opinione ecc.
Pertanto, nel caso di specie, l’attività di Pastore di una Chiesa evangelica, in sé e per sé considerata, è pienamente compatibile con l’assunzione come poliziotto della Digos, trattandosi di partecipazione ad un’associazione religiosa.
L’incompatibilità, piuttosto, si ravviserebbe nel caso in cui la Chiesa evangelica fosse costituita in forma di società avente scopo di lucro e il pastore/poliziotto fosse retribuito per il suo incarico di rappresentante.
In ogni caso, si potrebbe ravvisare un conflitto di interessi del dipendente pubblico che chiede come rappresentante di una chiesa evangelica un permesso per costruire al Comune.
Tuttavia, nel caso di specie, da un lato, la decisione del Comune sul permesso non coinvolgerebbe l’ufficio di appartenenza del dipendente (DIGOS), dall’altro bisognerebbe dimostrare un interesse economico significativo della Chiesa Evangelica nell’ottenimento del permesso.

Tanto chiarito a proposito della prospettata incompatibilità, per quanto concerne il secondo aspetto del quesito si rileva quanto segue.
La Legge n. 222/1985, per quanto qui ci occupa, stabilisce le condizioni e le procedure per il riconoscimento della personalità giuridica agli enti costituiti o approvati dall’autorità ecclesiastica.
Quando il procedimento va a buon fine, tali enti acquistano la particolare denominazione di “enti ecclesiastici civilmente riconosciuti” e sono tenuti ad iscriversi nel registro delle persone giuridiche, nel quale devono essere pubblicate anche le norme di funzionamento ed i poteri degli organi di rappresentanza.
L’art. 16, L. n. 222/1985, richiamato nel quesito dà la definizione di “attività di religione e di culto” rilevante ai fini della predetta legge, includendo tutte le attività dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione cristiana.
La norma, però, non ha lo scopo di imporre limitazioni alle istituzioni religiose rispetto all’oggetto della loro attività, posto che una tale interpretazione sarebbe difficilmente conciliabile con i principi costituzionali di cui all’art. 20 Cost., ma semplicemente serve ad identificare siano le attività rilevanti ai fini del riconoscimento ex L. n. 222/1985.
Gli enti ecclesiastici non riconosciuti, comunque, non possono avvalersi dello speciale regime (anche fiscale) riservato a quelli riconosciuti, ma rimangono soggetti di diritto per l’ordinamento statuale e sono disciplinati dalle norme di diritto comune (Cassazione civile, sez. I, 04 giugno 2018, n. 14247).
Peraltro, la L. 116/1995, recante “Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l'Unione Cristiana Evangelica Battista d'Italia (UCEBI)”, riconosce la qualità di enti ecclesiastici alle Chiese costituite in ente nell’ordinamento battista, nonché alle istituzioni costituite in ente nell'ordinamento battista, con sede in Italia, che abbiano fine di culto, solo o congiunto con quelli di istruzione o assistenza (art. 11).
In conclusione, la richiesta di rilascio da parte di un pastore di una Chiesa Evangelica del titolo edilizio per la costruzione di un edificio destinato al culto religioso, a casa-famiglia e a Residenza Sanitaria Assistita sembra compatibile con i fini considerati nelle norme in materia di enti ecclesiastici.

Tanto premesso, l’art. 11, D.P.R. n. 380/2001, attribuisce la legittimazione a chiedere il permesso di costruire al proprietario e a chiunque abbia titolo per richiederlo.
L’espressione è piuttosto ampia e comprende, per costante giurisprudenza, tutti i soggetti che vantino la legittima disponibilità dell'area, in base ad una relazione qualificata con il bene di natura reale o anche solo obbligatoria che accordi al richiedente la potestà edificatoria (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4776; T.A.R. Salerno, sez. II, 08 ottobre 2018, n. 1388; T.A.R. Genova, sez. I, 25 febbraio 2015, n. 228).
In forza di tale principio, è stato ad esempio annullato un permesso di costruire ottenuto da un parroco in relazione a un immobile del quale non era proprietario, ma soltanto possessore precario in taluni periodi dell'anno (Consiglio di Stato, sez. V, 28 maggio 2001, n. 2882).
In tal caso però, il motivo dell’illegittimità non risiedeva nella qualità di rappresentante di un ente ecclesiastico, bensì nell’assenza della suddetta relazione qualificata con l’immobile.
Pertanto, il Pastore della Chiesa Evangelica di cui al quesito è legittimato a richiedere il permesso di costruire ex art. 11, D.P.R. n. 380/2001, a patto che possa vantare -in proprio o quale rappresentante dell’Ente ecclesiastico- una legittima disponibilità dell’area sulla quale insiste il fabbricato interessato dall'intervento edilizio.

Giorgio G. chiede
mercoledì 13/03/2019 - Piemonte
“Sono un Chirurgo Generale, Toracico e Vascolare, Professore Associato di Chirurgia Generale presso l'Università di ...omissis... in pensione dal 2007, che svolge attività Medico-Legale - soprattutto di Parte - iscritto all'Albo dei CT del Tribunale di ...omissis... dal 1988 e mi trovo sempre in grande "imbarazzo" quando vengono nominati dei CTU operanti e quindi dipendenti in ASL/Ospedali della Regione ...omissis... in "Vertenze" che riguardano Medici o Strutture afferenti alla Regione ...omissis.... Ritengo che non possano essere "imparziali" in quanto dipendenti - quindi "a libro paga" - di chi dovrebbe poi liquidare il danno (da malasanità), e quindi non "terzi" ed in pieno "conflitto di interesse".
Potete darmi un Vs parere con qualche riferimento giurisprudenziale ? (Sentenze di Tribunali o di Cassazione)
Resto in attesa.”
Consulenza legale i 19/03/2019
La questione posta attiene a soggetti (i medici) che rivestono la qualifica di dipendenti pubblici, il che comporta che il primo riferimento normativo da prendere in esame sarà il Testo unico sul pubblico impiego, ossia il D.lgs. 165/2001.

Di tale impianto normativo la norma che qui più ci interessa è l’art. 53, rubricato “Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi”, il quale ai commi 7, 8 e 9 stabilisce un divieto generale per i dipendenti pubblici di assumere incarichi retribuiti senza alcuna preventiva autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza, proibendo nel contempo alle altre amministrazioni, enti pubblici e privati di conferire incarichi a chi è già dipendente di altra amministrazione se non risulti munito di tale preventiva autorizzazione.

La necessità di questa autorizzazione nasce dal fatto che con essa si mira a consentire all’amministrazione di appartenenza di verificare l’insussistenza in capo al dipendente di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi, ossia proprio ciò di cui qui si dubita.

Letta la norma in questi termini, dunque, sembrerebbe potersene dedurre che il medico, dipendente pubblico di azienda ospedaliera, iscritto all’Albo dei CTU presso un Tribunale, possa trovarsi in conflitto di interessi allorché sia chiamato ad espletare l’attività di consulenza in una causa che riguardi la struttura ospedaliera da cui dipende o un collega della medesima struttura, con la conseguenza che l’Amministrazione di appartenenza dovrebbe, in simili circostanze, non autorizzarlo a svolgere l’attività di CTU.
Il diniego di autorizzazione sarebbe così un ottimo strumento preventivo per evitare l’insorgere di quelle situazioni di potenziale conflitto di interesse di cui qui ci si lamenta.

Non la pensa così, tuttavia, la giurisprudenza amministrativa che si rinviene proprio su tale materia.
Infatti, il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi in ordine alla legittimità di un Regolamento emesso da una azienda ospedaliera, in forza del quale era stato consentito al personale da essa dipendente l’iscrizione agli albi dei Tribunali in qualità di CTU e/o di perito senza necessità di una preventiva autorizzazione da parte della stessa amministrazione, con sentenza della Sezione VI n. 3513 emessa in data 17.07.2017, ha sancito che l’attività di CTU sia ricollegabile non ad un rapporto contrattuale di qualche genere, ma all’adempimento di una funzione pubblica nell’interesse dell’amministrazione della giustizia, per cui sarebbe illegittimo e potenzialmente lesivo dell’indipendenza della magistratura, ammettere l’iscrizione nel relativo albo, salvo poi subordinare l’effettivo esercizio dell’attività ad una autorizzazione da rilasciare caso per caso.

Secondo il Consiglio di Stato, dunque, non può profilarsi alcuna situazione di conflitto di interesse tra l’attività di medico dipendente e quella di CTU, dovendosi la seconda attività considerare svolta nell’interesse esclusivo dell’amministrazione della giustizia, ossia per una fine che trascende da un ulteriore e diverso rapporto contrattuale con altra pubblica amministrazione.

Si fa infatti osservare che:
  1. sotto il profilo soggettivo, tali incarichi vengono direttamente conferiti dall’Autorità giudiziaria (giudice o P.M., ex art. 221 del c.p.p., art. 233 del c.p.p.., art. 191 del c.p.c. e art. 19 del codice proc. amministrativo), ossia da un soggetto a cui non si può attribuire quella qualifica di pubblica amministrazione, ente pubblico economico ovvero privato che l’art. 53 citato richiede;
  2. sotto il profilo oggettivo, l’incarico di CTU non costituisce oggetto di un contratto di prestazione d’opera professionale o di altro tipo, ma esercizio di una vera e propria funzione pubblica, che si adempie a fini di giustizia.
A quest’ultimo proposito il Consiglio di Stato richiama le sentenze della Corte di Cassazione, Sezione Seconda, n. 7905 del 06.08.1990 e n. 4424 del 01.02.2017.

A confermare la correttezza del percorso argomentativo seguito dal Consiglio di Stato soccorre poi il disposto dell’art. 63 del c.p.c., il quale pone in capo al consulente che abbia deciso di iscriversi al relativo albo l’obbligo, se richiesto, di prestare il suo ufficio, avendo perfino il legislatore deciso di qualificare come reato la condotta di chi, nominato all’ufficio, ne ottenga con mezzi fraudolenti l’esenzione (così art. 366 del c.p.).

Qualora poi dovessero presentarsi situazioni di incompatibilità o di conflitto di interessi come quelle prospettate nel quesito, lo stesso legislatore prevede allo stesso art. 63 c.p.c. due strumenti processuali in grado di farvi fronte, ossia quello della astensione (la cui sussistenza viene rimessa alla valutazione del Giudice) ovvero quella ricusazione (attribuita al potere delle parti in causa e per gli stessi motivi previsti dall’art. 51 del c.p.c. per decidere della ricusazione di un giudice).

Quindi, come può chiaramente evincersi da quanto detto fin qui, la nomina di un CTU nei casi di cui ci si duole non incontra ostacoli né sotto il profilo pubblicistico del rapporto di lavoro che lega il medico all’azienda ospedaliera né sotto il profilo di un eventuale conflitto di interessi con le parti in causa, del quale il legislatore sembra essersi in ogni caso preoccupato.

Roberto D. chiede
sabato 17/02/2018 - Estero
“Buongiorno,
Sono attualmente docente a tempo indeterminato presso un'università francese. A seguito di un concorso da ricercatore a tempo indeterminato in Italia, mi è stato offerto un posto per tre anni che, per ragioni varie, mi potrebbe interessare. Contestualmente, vorrei mettermi in aspettativa non retribuita in Francia in attesa di vedere che cosa l'ateneo italiano potrà propormi allo scadere dei tre anni. La legislazione francese permette esplicitamente una tale combinazione. Purtroppo, non riesco a trovare informazioni relative alle disposizioni italiane in materia. Una costruzione aspettativa francese + contratto a tempo determinato in Italia sarebbe consentita?
Grazie fin da ora per la vostra consulenza.
Cordiali saluti.”
Consulenza legale i 23/02/2018
La Legge 22 dicembre 2011 n. 240 (Riforma Gelmini) ha innovato il regime delle incompatibilità dei professori e dei ricercatori universitari sia a tempo pieno che a tempo definito, liberalizzando da una parte alcune attività che prima erano soggette ad autorizzazione dell'Amministrazione di appartenenza e, dall'altra sottoponendo ad una autorizzazione da parte del Rettore altre tipologie di attività, in riferimento all’assenza di conflitto di interessi con l’Università di appartenenza nonché a condizione che le attività medesime non rappresentino detrimento alle attività didattiche, scientifiche e gestionali affidate ai richiedenti.
In particolare, l’art. 6 della suddetta legge, al comma 9, statuisce che la posizione di professore e ricercatore è incompatibile con l’esercizio del commercio e dell’industria e, limitatamente ai professori e ricercatori a tempo pieno, con l’esercizio di attività libero-professionale.
Il successivo comma 10 prevede, invece, che i professori a tempo pieno, possono svolgere liberamente, anche con retribuzione, e conseguentemente senza la necessità di acquisire un’autorizzazione preventiva:
a) attività di valutazione e referaggio;
b) lezioni e seminari di carattere occasionale;
c) attività di collaborazione scientifica e di consulenza;
d) attività di comunicazione e divulgazione scientifica e culturale;
e) attività pubblicistiche ed editoriali.

Il comma 12, infine, prevede la possibilità che i professori e i ricercatori a tempo definito svolgano attività libero-professionali e di lavoro autonomo anche continuative, purché non determino situazioni di conflitto di interesse rispetto all’ateneo di appartenenza disponendo anche che gli stessi possono svolgere attività didattica e di ricerca presso università o enti di ricerca esteri, previa autorizzazione del Rettore, che valuta la compatibilità con l’adempimento degli obblighi istituzionali.


Caterina M. chiede
giovedì 29/12/2016 - Lombardia
“Salve, non mi è chiaro dalle varie sentenze se un dipendente pubblico che svolge laboratori artistici/attività artistiche al di fuori dell'orario di lavoro, per mansioni appunto compatibili con quelle del lavoro da dipendente pubblico del Ministero della Giustizia, può emettere la ricevuta per prestazione occasionale senza ritenuta per i privati e con ritenuta d'acconto per gli enti con marca da bollo da 2€ se supera un certo importo, dichiarandola poi nei redditi diversi del proprio 730? Sono già in possesso dell'autorizzazione della Amministrazione per cui lavoro full-time, chiesta però nel 2014. Come devo modificare la richiesta di tale autorizzazione per adeguarmi al JobAct? Essendo attività artistiche per cui percepisco comunque un compenso, come posso fare per non incorrere in problemi fiscali.Ringrazio anticipatamente per la risposta. Saluti”
Consulenza legale i 11/01/2017
Va per prima cosa data risposta ad una delle ultime domande poste nel quesito: l’entrata in vigore del Job Act ha modificato, è vero, il regime delle prestazioni lavorative occasionali, ma non ha inciso minimamente sulla disciplina relativa al doppio lavoro dei pubblici dipendenti. Conseguentemente, non sarà necessario apportare alcuna modifica di forma alla “vecchia” richiesta di autorizzazione periodicamente inoltrata all’ente pubblico datore di lavoro.

Per quanto riguarda, invece, la questione principale, è opportuna una panoramica sulla citata disciplina che regola la possibilità del dipendente pubblico di svolgere un’ulteriore attività lavorativa retribuita al di fuori del proprio orario di lavoro.
Il dipendente pubblico ha, infatti, un dovere di esclusività nell’esercizio della prestazione lavorativa nei confronti dell’amministrazione di appartenenza, che deriva direttamente dalla Costituzione (art. 98). Il dovere di esclusività del pubblico funzionario risponde inoltre ai principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione.
Proprio perché previsto a livello costituzionale, tale dovere non può essere derogato né dalle parti né dai contratti collettivi, ma può essere regolato dal solo legislatore.

La norma di riferimento principale in materia è l’art. 53 del D.Lgs n. 106 del 2001 ("Testo unico sul pubblico impiego"), sulla “incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi”.
Tale disposizione, al primo comma, richiama espressamente il principio generale in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi ed impieghi di cui all’art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, secondo il quale: “l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro”.
Tali incarichi, connotati dai caratteri della abitualità e professionalità, costituiscono incompatibilità di tipo assoluto, ovvero che non subiscono eccezione alcuna: per attività svolta con “professionalità” si intende lo svolgimento di una professione in maniera continua e non occasionale, anche qualora la stessa sia svolta in maniera esclusiva.

Dopo aver sancito le attività incompatibili assolute, l’art. 53 del citato Testo Unico prevede una importante deroga per il personale il cui rapporto di lavoro sia a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, oltre che per i docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali.

Un ulteriore tipo di incompatibilità all’esercizio di un’attività lavorativa secondaria è la presenza di un conflitto di interessi fra lo svolgimento della prestazione lavorativa presso l’amministrazione e l’attività ulteriore: a prescindere dalla consistenza dell’orario lavorativo, infatti, tutti gli incarichi che anche solo in via meramente potenziale potrebbero interferire con l’attività ordinaria del pubblico dipendente, con riguardo alle modalità, al tempo, alla durata o al ruolo professionalmente ricoperto sono da considerarsi vietati e, quindi, non autorizzabili.

Con il D.P.R. n. 62 del 16/04/2013 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), poi, è stato introdotto l’obbligo per il dipendente pubblico di comunicare tempestivamente all’amministrazione di appartenenza la propria adesione ad associazioni o organizzazioni i cui ambiti di interesse possono interferire con lo svolgimento dell’attività lavorativa, a prescindere dal contenuto riservato o meno.

L’articolo 53 del D. Lgs.n. 165/2001, infine, elenca alcune attività retribuite che il pubblico dipendente può esercitare senza previa autorizzazione. Fra queste ultime vi rientrano: la collaborazione con giornali, riviste, enciclopedie e simili; l’utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali; la partecipazione a convegni e seminari; gli incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; gli incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; gli incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; le attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione.

Come si vede, il dovere di esclusività non è stato interpretato in senso inderogabile dal legislatore, essendo presenti nell’ordinamento eccezioni alla sua operatività.
Al pubblico dipendente viene, infatti, concessa dalla legge la possibilità di esercitare un’attività secondaria, solamente che per poterla esercitare egli deve ottenere l’autorizzazione disciplinata dal comma 10 dell’articolo 53 del D. Lgs. 165/2001. In particolare, l’autorizzazione è volta a verificare se l’incarico possa ingenerare, anche solo in via potenziale, una situazione di conflittualità con le funzioni pubbliche svolte, nonché la compatibilità del nuovo impegno con i carichi di lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza, la occasionalità o saltuarietà della prestazione.
A seguito del rilascio dell’autorizzazione il pubblico dipendente può quindi esercitare liberamente l’attività secondaria purché non interferisca con i doveri dell’ufficio a cui è preposto.

Per tornare al quesito, in conclusione, non è propriamente corretto affermare che il pubblico dipendente non possa svolgere prestazioni occasionali: a prescindere, infatti, dall’ipotesi del part time cui si è accennato sopra (che consente di svolgere liberamente attività lavorativa extra), egli potrà farlo se:
- la prestazione in questione sia di natura realmente occasionale e non continuativa;
- si tratti di attività che per l’oggetto o altra ragione non vada a determinare un conflitto di interessi rispetto alle funzioni svolte dal lavoratore per l’amministrazione pubblica o comunque, in ogni caso, che sia compatibile con le medesime;
- ottenga un’autorizzazione preventiva in tal senso da parte dell’amministrazione.

Qualora nulla osti allo svolgimento dell’attività extra, i redditi percepiti per quest’ultima andranno senz’altro dichiarati nel modello fiscale, sotto la sezione “redditi diversi”. Per quest’ultimo aspetto, in ogni caso, si consiglia sempre di rivolgersi ad un commercialista.

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