Si deve alla Legge n. 69/2009 l'introduzione nel nostro
ordinamento giuridico, per la prima volta con portata generale, della disciplina delle misure di coercizione indiretta.
Nella sua formulazione originaria la norma in esame non poneva limiti alla tipologia di obbligazioni cui era riferibile, mentre la precedente rubrica "
Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare", adesso sostituita, riconduceva la sua applicabilità soltanto alle obbligazioni di fare infungibile o di non fare.
Il D.l. n. 83/2015, convertito dalla Legge n. 132/2015, ha integralmente sostituito il testo della norma con quello previgente alla Riforma Cartabia, anche se le modifiche, di fatto, hanno riguardato soltanto la rubrica, che adesso parla più genericamente di "
Misure di coercizione indiretta", nonché l'introduzione espressa del riferimento, nel corpo dell'articolo, alle obbligazioni cui è applicabile, ossia tutti gli obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro.
Resta dunque confermato l'originario ambito di operatività della norma, relativo a tutti quei casi in cui i processi di
esecuzione forzata previsti dal codice di rito non possono trovare applicazione oppure non sarebbero del tutto satisfattivi per il creditore.
Ci si intende, dunque, ancora una volta riferire innanzi tutto alle obbligazioni di
facere infungibili e, comunque, a quelle di non fare, nonchè a tutte le ipotesi di adempimento di obblighi diversi dal pagamento delle somme di denaro (vi si devono ricomprendere, ad esempio, i casi di condanna alla consegna o al rilascio di cose).
Il rimedio di cui si discute ricalca l'istituto, di origine francese e successivamente esteso anche all'ordinamento tedesco (come sanzione, in favore del fisco) dell'
astreinte, per mezzo del quale si prevede una sorta di penale per l'
inadempimento totale o per il ritardato adempimento a seguito di una pronuncia di condanna.
Discussa è la possibilità di utilizzare la misura compulsiva qui prevista in via cumulativa con l'azione ex
art. 2932 del c.c., all’evidente fine di non dover attendere il
passaggio in giudicato della sentenza costitutiva.
Contro tale cumulo di strumenti si è osservato che esistono forti dubbi circa la possibilità di chiedere contemporaneamente una doppia statuizione, costitutiva e di condanna, e ciò perchè l'obbligo di contrarre non è del tutto infungibile, essendo possibile ricorrere alla pronuncia del giudice che tenga luogo del contratto non concluso (il che significa che è ben possibile l'esecuzione in forma specifica).
Nella determinazione dell'ammontare della somma dovuta dall'obbligato, il giudice deve preliminarmente effettuare una serie di valutazioni, che attengono alla natura dei rapporti rispetto ai quali il rimedio viene invocato.
In particolare, l'organo giudicante deve, innanzitutto, accertare che non si tratti di controversie di lavoro subordinato pubblico e privato, nonché di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all'
art. 409 del c.p.c., per i quali la disposizione non trova applicazione per espressa esclusione da parte del legislatore (la
ratio di tale esclusione non può che individuarsi nella specialità della materia giuslavoristica e nella natura personalissima delle obbligazioni che la stessa, necessariamente, involge).
Affinché il giudice fissi con il provvedimento di condanna la somma di denaro dovuta dall'obbligato occorre un'istanza di parte.
Il D.Lgs. 10.10.2022, n. 149 ha previsto che se la misura coercitiva indiretta non sia stata domandata in seno al processo di cognizione, oppure se il
titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna, la stessa debba essere determinata dal giudice dell'esecuzione, su ricorso dell'
avente diritto, dopo la
notificazione del precetto.
Con tale innovazione si intende evitare che il creditore, già titolato, sia costretto a ricorrere ad un processo dichiarativo al solo scopo di ottenere un provvedimento che deve essere ascritto alla
giurisdizione esecutiva.
Va detto che il comma aggiunto con la Riforma Cartabia non precisa i criteri a cui il giudice dell'esecuzione deve attenersi nel determinare a quanto la misura coercitiva indiretta dovrà ammontare, limitandosi la disposizione a riprodurre i parametri originariamente previsti dal testo previgente, con la sola precisazione che si deve tenere conto della
natura della prestazione dovuta e del vantaggio per l'obbligato derivante dall'inadempimento.
A tale riguardo si ritiene possa essere utile richiamare quanto è dato leggere nella Relazione illustrativa alla stessa riforma, la quale ricorda come sia pacifica la funzione della misura coercitiva indiretta, volta a condurre l'obbligato all'adempimento spontaneo.
E’ proprio per questa ragione che la misura coercitiva, onde poter essere effettiva, deve essere innanzitutto commisurata al parametro del vantaggio che colui che la subisce trarrebbe dall'inadempimento, mentre il danno che l'inadempimento medesimo provoca appare più secondario, in quanto l'esecuzione indiretta non è ovviamente in grado di sostituirsi integralmente al risarcimento del danno causato dall'inadempimento.
Per quanto concerne l'individuazione del
giudice competente, il riferimento all'
art. 612 del c.p.c., richiamato dalla presente disposizione, vale in generale a disciplinare anche la
competenza per territorio per la richiesta misura coercitiva.
Va tuttavia evidenziato che per gli obblighi di fare e di non fare il terzo comma dell’
art. 26 del c.p.c. prevede la competenza del giudice del luogo dove l'obbligo deve essere adempiuto.
Dinanzi ad un possibile conflitto tra le due norme, si è dell’idea che la disposizione speciale (ovvero l’art. 26 c.p.c.) debba farsi prevalere su quella generale.