Come per qualsiasi altro negozio giuridico, così per il testamento, la capacità è la regola, la incapacità l’eccezione.
L’incapacità può derivare:
a) da età;
b) da interdizione giudiziale;
c) da incapacità di intendere e di volere, anche transitoria, esistente al momento della redazione del testamento;
Ci occuperemo di ciascuna di esse:
a) Incapacità per età. Diversi sono stati, e sono, i criteri seguiti dalle varie legislazioni in ordine all’età minima per fare testamento.
Per il diritto romano, bastava che si fosse raggiunta la pubertà, cioè 14 anni per i maschi, 12 per la donna nel diritto giustinianeo, che accolse la teoria dei Proculiani.
Nelle legislazioni moderne, generalmente, si richiede l’età di 14 a 18 o a 21 anni. Il codice napoleonico fissò la capacità di testare a 16 anni compiuti, ma non per oltre la metà delle sostanze. Lo stesso criterio fu seguito dal codice delle due Sicilie, mentre il codice parmense e il codice albertino stabilirono l’età di 16 anni, senza alcuna limitazione; il codice estense fissò l’età di 14 anni, richiedendo, però, nell’intervallo fra i 14 e i 18 anni, l’intervento di un giudice.
Delle legislazioni di tipo germanico, il codice prussiano stabiliva che chi avesse raggiunto i 14 anni poteva far testamento, ma a voce in un protocollo giudiziario; all’età di 18 anni si raggiungeva la completa capacità, potendosi far testamento in tutte le forme prescritte dalla legge
Disposizioni analoghe conteneva il codice austriaco, mentre il codice sassone fissò l’età di 14 anni senza alcuna limitazione; il codice per l’impero germanico stabilì l’età di 16 anni con la limitazione che il testamento fatto da chi è minorenne (cioè da chi non ha compiuto i 21 anni) dev’essere fatto innanzi ad un notaio o al giudice e oralmente ed è vietato il testamento olografo.
Per il diritto inglese la capacità di testare si acquista solo a 21 anni compiuti. II codice spagnolo fissava l’età di 15 anni. Le leggi sovietiche, a differenza di quanto stabiliva la legge zarista, per cui i minori di 21 anni non avevano la capacità di fare testamento, stabilivano l’età di 14 anni, con la limitazione, nell’intervallo fra i 14 e i 18 anni, che il testamento dovesse esser fatto con l’autorizzazione del rappresentante legale.
Il nostro codice del 1865 stabilì l’età di 18 anni compiuti (art. #763#). Nei lavori preparatori si proposero alcune limitazioni, ma il Pisanelli osservò che, riconosciuta nel minore la facoltà di disporre dei suoi beni per testamento, la si doveva accettare in tutte le sue conseguenze.
Nell’attuale codice si è mantenuta l’età di
18 anni compiuti, perché si suppone che a tale età si è raggiunta una maturità di pensiero che possa liberamente far disporre dei propri beni, tanto più che, trattandosi di un atto che dovrà avere efficacia dopo la morte del testatore, questi non potrà esserne danneggiato; egli potrà sempre revocarlo, in seguito a un più maturo consiglio, non essendo, perciò, necessario quel maggiore sviluppo di intelligenza, esperienza e pratica della vita che la legge reputa conveniente possegga la persona la quale compie atti giuridici tra vivi, dei quali, in seguito, avrebbe inutilmente a pentirsi. D’altra parte, la legge stessa provvede alla tutela dei suoi più stretti congiunti (discendenti, ascendenti e coniuge) ai quali essa stessa riserva una porzione, che si chiama, perciò, legittima.
I 18 anni devono essere
compiuti, il che significa che non trova qui applicazione il principio
“annus incoeptus pro completo habetur”: occorre che sia scaduto l’ultimo momento del diciottesimo anno. Qui sorge la questione: il compimento del diciottesimo anno si deve calcolare seguendo la
computazione naturale o la
computazione civile?
È noto che, con la prima, si muove dall’ora, dal momento matematico corrispondente all’ultimo giorno (
a momento ad momentum). Così: A, nato alle ore 10 del 2 gennaio 1970, avrebbe compiuto l’età di 18 anni soltanto allo scoccare delle ore 10 del 2 gennaio 1988.
Con l’altra, invece, il tempo si calcola a giorni interi (
ad dies) non tenendosi conto della frazione dell’ora, del momento matematico così del primo giorno come dell’ultimo. Sicché: A, nato alle ore 10 del 2 gennaio 1970, avrebbe compiuto l’età di 18 anni soltanto allo scoccare della mezzanotte tra il 2 e il 3 gennaio 1988, o tra l’1 e il 2 gennaio 1988, se si volesse applicare il principio
“dies coeptus pro completo habetur”.
In passato, l’opinione prevalente era che vi fossero dei casi eccezionali nei quali doveva prevalere la
computazione naturale, e cioè quelli nei quali, trattandosi di avvenimenti, come le nascite e le morti, constatate in modo solenne e formale nei registri dello stato civile, non solo riguardo al giorno ma anche riguardo all’ora in cui si sono prodotti, il tempo prende inizio dalla nascita o dalla morte di una persona. Tuttavia, attualmente, l’opinione prevalente è quella che vede operare la
computazione civile.
È, poi, indifferente che il minore, il quale abbia compiuti i 18 anni, sia tuttora sottoposto alla patria potestà del genitore o sia in stato di tutela; com’è indifferente che il minore, che non ha compiuto 18 anni, si trovi già emancipato per effetto del matrimonio, nemmeno in questo caso potendo egli far testamento per il difetto di età che è l’unico elemento a tale oggetto considerato dalla legge.
b) Incapacità per interdizione giudiziale. Qui si deve notare, innanzitutto, che, a differenza di quanto è stabilito per gli atti tra vivi, l’incapacità di testare è stabilita solo per gli interdetti giudiziali, non pure per gli interdetti legali, cioè quelli che sono tali in seguito a condanne penali.
La ragione per cui la legge toglie agli interdetti giudiziali la capacità di testare sta nel presupposto che l’infermità di mente, di cui quella è stato l’effetto, impedisce la piena libertà e coscienza della disposizione. S’intende, però, che, esistendo l’interdizione, questa è la causa immediata dell’incapacità a far testamento, la quale dura sinché l’interdizione non è stata revocata. Non sarebbe, perciò, ammessa la prova che una persona, sebbene interdetta, avesse completa e piena coscienza dei propri atti al momento in cui fece testamento (c.d. lucido intervallo); una tale prova sarebbe irrilevante giacché
“frustra probatur quod probatum non relevat”. D’altra parte, però, l’interdizione giudiziale produce il suo effetto solo dal giorno in cui la sentenza fu pronunciata, non potendo avere effetto retroattivo.
Sotto l’impero del codice del 1865 alcuni scrittori, e, fra essi, il Gianturco, ritenevano che dovesse ritenersi incapace a far testamento anche colui al quale, durante il procedimento d’interdizione, fosse stato nominato l’amministratore provvisionale, deducendolo dall'art. #335# di quel codice che, regolando gli effetti dell’interdizione, diceva che sono nulli di diritto gli atti fatti dopo la sentenza d’interdizione ed anche dopo la nomina dell’amministratore provvisionale, e, poiché la legge parla di atti in generale, sarebbe illogica e contraria alla legge la distinzione tra atti tra vivi e atti
mortis causa. Tale opinione non era accettabile nel sistema di quel codice perché per gli atti a titolo gratuito si ammetteva la possibilità di impugnarli provando che fossero stati compiuti in uno stato d’infermità mentale, anche transitoria, ma è certamente da respingere nel sistema del codice attuale il quale, all’art.
427, ha disposto che gli atti compiuti dall’interdetto dopo la nomina dell'amministratore provvisorio possono essere annullati solo quando alla nomina segue la sentenza d’interdizione.
c) Incapacità d'intendere e di volere. Già nel codice del 1865 la c.d. incapacità naturale era stata ammessa come causa d’incapacità a far testamento (art. #763#) e donazione (art. #1052#) quando si fosse provato che era anteriore al tempo in cui fu fatto il testamento.
Nell’attuale codice civile l’incapacità naturale è stata ammessa anche per tutti i negozi giuridici tra vivi, a titolo gratuito o oneroso (art.
428), e si è mantenuta per il testamento, precisandosi, però, che l’incapacità deve esistere nel momento in cui questo si è fatto. Ciò vuol dire che, fatto il testamento da persona capace d'intendere e di volere, esso resta valido anche se sopraggiunga l’interdizione e questa perduri sino alla morte, anche se la causa d’interdizione preesisteva, ma non si possa provare che al momento in cui fece il testamento il testatore non era capace.
L’incapacità di cui si occupa il n. 3 dell’art. 591 può essere di natura permanente o anche temporanea, transitoria, quale quella derivante da ubriachezza, da delirio febbrile, da sonnambulismo, da suggestione, da ira, da paura, da epilessia, ma dev’essere sempre tale da togliere (non diminuire soltanto) la coscienza e la libertà dei propri atti: tale, cioè, che, se permanente, avrebbe potuto dar luogo all’interdizione.
La prova dell’incapacità dev'essere data da chi impugna il testamento, e può essere data con tutti i mezzi, sia, cioè, con perizie e testimoni, sia con le stesse inconcludenze e stranezze della disposizione testamentaria. Di nessun ostacolo alla prova dell'incapacità del testatore possono essere le contrarie attestazioni del notaio che ha ricevuto il testamento e che, con clausola d’uso, di stile, avesse dichiarato il testatore capace d’intendere e di volere, non avendo egli competenza ed autorità per imprimere fede a tutte quelle affermazioni che non riguardano la sostanza dell’atto e le solennità che l’accompagnano.
Tutte queste cause d’incapacità producono soltanto l’annullabilità.
Il testamento può essere impugnato da chi vi ha interesse, e soltanto nel
termine di cinque anni dal giorno in cui si è data esecuzione alla disposizione testamentaria, e si noti che qui, a differenza di quanto è stabilito nell’art.
590, non occorre nemmeno che l’esecuzione sia stata volontaria, cioè con la coscienza di sanare un vizio di sostanza o di forma; basta che vi sia stata data esecuzione, e che da questa sia trascorso il termine di cinque anni, il quale è un termine di
prescrizione e, come tale, soggetto alle cause di sospensione.