Questo articolo ha sostituito, per quanto riflette i testamenti, l’art. #1311# del precedente codice del 1865, che si riferiva anche alle donazioni, rispetto alle quali l'attuale codice ha provveduto separatamente con l’articolo
799, adottando la stessa norma dell’articolo in esame.
È noto che un principio generale di diritto, finora ammesso senza contestazioni anche nel nostro sistema giuridico positivo, è che la
mancanza di qualcuno degli elementi essenziali per l’esistenza di ogni negozio giuridico rende
inesistente, dal punto di vista giuridico, il negozio medesimo, il quale, perciò, non produce alcun effetto e non può esser confermato. Anzi, questo principio generale, per quanto riflette la mancanza della forma richiesta
ad solemnitatem, fu esplicitamente richiamato dall’art. #1310# del codice del 1865 il quale disponeva:
"non si possono sanare con verun atto confermativo i vizi di un atto nullo in modo assoluto per difetto di formalità". Si deve subito notare che a questo principio il nuovo codice civile ha portato sostanziali deroghe ammettendo come causa di annullabilità e non di inesistenza la mancanza di dichiarazione di volontà. Infatti, l’incapacità naturale è stata considerata come causa di annullabilità dei negozi giuridici anche quando essa sia talmente grave da togliere interamente la coscienza e la libertà dei propri atti, d’impedire, quindi, una qualsiasi dichiarazione di volontà.
In materia di testamento e donazione, invece, si è sempre ammesso che la mancanza di un elemento essenziale potesse essere sanata con la
volontaria esecuzione data a tali negozi dopo la morte del testatore o del donante.
Le fonti romane offrono esempi di conferma per esecuzioni volontarie di legati, codicilli e fedecommessi, nulli per vizi di forma.
Nel diritto intermedio, specialmente per l’influenza del diritto canonico, tale principio trovò largo sviluppo, informato all’obbligo di coscienza del rispetto alla volontà del defunto, per cui Graziano, ripetendo un concetto di S. Gregorio Magno, affermò che
"ultima voluntas defuncti modis omnibus conservari debet" e questo principio fu largamente applicato nel diritto comune.
Nel diritto consuetudinario francese lo stesso principio fu largamente ammesso e da esso passò nel codice napoleonico il quale lo ammise per le donazioni, ma una larga corrente di dottrina e di giurisprudenza lo ritenne applicabile anche ai testamenti.
La stessa norma fu riprodotta nel codice delle due Sicilie, nel codice parmense, nel codice estense, nel codice albertino, che contemplò espressamente anche le disposizioni testamentarie, e nel codice civile italiano del 1865, all’art. #1311#.
Sull’applicazione di quest’articolo furono manifestate varie opinioni. Vi fu chi ritenne che esso si riferiva solo ai casi di annullabilità; opinione certamente non accettabile perché, se così fosse, l’art. #1311# sarebbe stata un’inutile ripetizione di quanto è stabilito dall’art. #1309#; né si saprebbe spiegare perché l’art. #1311# si sarebbe riferito solo alla donazione ed alle disposizioni testamentarie, mentre la conferma o esecuzione volontaria di un atto annullabile ha carattere generale, applicabile a tutti i negozi giuridici, senza dire che la tradizione storica di questo articolo si riferisce ai negozi giuridici inesistenti.
Altri limitarono l’applicazione dell’art. #1311# ai soli casi di nullità per semplici vizi di forma (esempio: incompetenza del notaio, incapacità di testimoni) e non pure ai difetti di forma (esempio: inesistenza dell’atto notarile, mancanza della firma del notaio, assenza dei testimoni).
Altri, ed era questa l’opinione prevalente, escludevano l’applicazione di quella norma nel caso di testamento orale (c.d. nuncupativo), cioè quando mancasse addirittura la forma scritta.
Altri sostenevano che 1’art. #1311# doveva trovare applicazione sempre che l’atto da confermare od eseguire fosse affetto da un vizio che inerisca alla sua struttura, che determini la nullità (inesistenza) della donazione o del testamento e purché sussista una volontà di fatto, con la conseguenza di ritenerlo applicabile anche ad un testamento o ad una donazione orali (o nuncupativi), inapplicabili ad una donazione o ad un testamento che siano stati la conseguenza di una violenza fisica ovvero che siano stati compiuti in uno stato d’incapacità naturale.
Alla fine, in giurisprudenza, la Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che l’art. #1311# dovesse trovare applicazione anche nell’ipotesi di un testamento che abbia leso la porzione legittima.
Tutti questi dissensi che si ebbero sull’applicazione dell’art. #1311# del codice del 1865 non hanno più ragione d’essere di fronte all’articolo in esame, non solo per la forma in cui è redatto, molto più larga di quella dell’art. #1311#, "la nullità delle disposizioni testamentarie da qualunque causa dipenda, non può esser fatta valere ecc.", ma anche per l'elaborazione che esso ha avuto.
È da notare che, nel progetto definitivo, la sanatoria di disposizioni testamentarie annullabili o nulle era contemplata in tre casi: di incapacità testamentaria, compreso quello d’incapacità naturale, per le nullità formali e per i vizi della volontà.
Nel testo del codice, invece, si è preferito porre la norma generale dell’art. 590. La ragione di questa sistemazione fu indicata così dal Ministro: "per eliminare il dubbio che la possibilità di sanatoria fosse esclusa in ogni altro caso, giacché gli articoli 133, 148 e 166 del progetto non esaurivano tutta la materia dei vizii intrinseci ed estrinseci, dai quali può essere affetta una donazione testamentaria e non coprivano, quindi, interamente il vasto campo di applicazione che, secondo la prevalente interpretazione, ha oggi l’art. #1311# del codice del 1865. Tale disposizione ha il preciso significato di ammettere la possibilità di una conferma espressa o tacita non solo rispetto ai vizii che imporrebbero l'annullabilità delle disposizioni testamentarie, ma anche rispetto alle cause di vere e proprie nullità e in particolare modo alla mancanza dei requisiti di forma richiesti ad substantiam".
Sicché non pare che vi possa essere dubbio che sia possibile la conferma o l'esecuzione volontaria anche di una disposizione testamentaria fatta da chi, essendo in uno stato d’incapacità naturale, non aveva la coscienza e la libertà dei propri atti, o la dichiarazione di volontà sia stata l’effetto di una violenza fisica. È vero che, in questi casi, manca addirittura la dichiarazione di volontà e, quindi,
stricto iure, manca anche la disposizione testamentaria e vien meno anche la ragione tradizionale dei precedenti storici dell’art. 590, che fu quella del rispetto alla volontà del defunto, anche se manifestata senza la forma stabilita dalla legge; ma se si tiene conto che, nel nuovo codice, l’incapacità naturale è stata sempre considerata come causa di annullabilità e non di inesistenza dei negozi giuridici, la conseguenza a cui si deve giungere è che, anche in tali casi, sia possibile la conferma o l'esecuzione volontaria della disposizione esistente soltanto in apparenza. E deve ritenersi che la conferma o l'esecuzione volontaria della disposizione testamentaria da parte del legittimario che sia stato leso nella porzione legittima gli impedisca di far valere l’azione di riduzione, giacché anche questa, in sostanza, consiste in una nullità della disposizione testamentaria, la quale, da qualunque causa dipenda, è sanata dalla conferma o esecuzione volontaria.
Il riferimento che, nella relazione del Ministro, si fa al vasto campo di applicazione che la prevalente interpretazione aveva dato all’art. #1311# non lascia luogo a dubbio, tanto più che l’art. 590, a differenza di quanto poteva ritenersi nell’interpretazione dell’art. #1311#, trova applicazione anche se manchi persino una disposizione testamentaria. La larga dizione dell’art. 590, che parla di nullità di tale disposizione dipendente da qualunque causa, e, perciò, anche della mancanza di una qualsiasi delle forme prescritte, e la norma del primo comma dell’art.
627 che, risolvendo una delle questioni che si agitavano sull’interpretazione dell’art. #829# del cod. civ. del 1865 a proposito di esecuzione volontaria della disposizione fiduciaria, ha disposto che tale esecuzione spiega tutti i suoi effetti, impongono di ritenere che anche una disposizione testamentaria verbale confermata o volontariamente eseguita non può essere impugnata. Infatti, l'istituzione fiduciaria è, in fondo, una disposizione testamentaria verbale alla quale il legislatore non riconosce, di regola, alcuna efficacia, ma gliela attribuisce piena quando essa sia stata volontariamente eseguita. Ciò significa che l’esecuzione volontaria può sanare persino una disposizione testamentaria sfornita di qualsiasi forma, e se ciò avviene per le istituzioni fiduciarie non v’è ragione di escluderlo per le istituzioni dirette.
Non si può sorgere alcun dubbio, poi, sull'applicazione dell’art. 590 alle
disposizioni testamentarie contenute in un testamento che è stato revocato. È chiaro anche che la conferma o 1’esecuzione volontaria può riguardare tutte le disposizioni testamentarie di un testamento nullo per vizio di forma ovvero soltanto alcune fra esse: in questo caso, si tratterà di ratifica parziale, la quale è perfettamente possibile e, anzi, è necessaria quando è attuata da uno solo tra più coeredi, per le disposizioni che lo riguardano.
In definitiva, può dirsi che qui la legge attribuisce
efficacia giuridica con effetto retroattivo (salvi i diritti dei terzi) alla disposizione testamentaria, anche quando possa ritenersi inesistente di fronte al diritto, in base ad un riconoscimento spontaneo dell’efficacia di essa da parte di chi avrebbe diritto ad impugnarla. Evidentemente, si è di fronte ad un istituto di carattere eccezionale, fondato su ragioni di moralità che hanno consigliato il legislatore a derogare alle norme generali di diritto, al fine di rispettare la volontà del defunto. Ciò è sopratutto manifesto quando si tratta di nullità formali; ma il legislatore ha voluto estendere la norma anche al caso in cui la volontà stessa possa apparire inesistente o per incapacità naturale o per una dichiarazione non fatta spontaneamente.
Le ragioni sostanziali dell’ordinamento giuridico, del resto, restano salve quando si pensi che la persona che avrebbe diritto di
impugnare il testamento può farlo nei termini stabiliti dalla legge: se essa non si avvale di questo diritto e, per di più, conferma o esegue volontariamente le disposizioni vuol dire che le ha ritenute, in sostanza, conformi alla volontà del disponente e ne vuole rispettare l'esteriore manifestazione. Attuato una volta questo proposito, non è possibile tornare su di esso. S’intende, peraltro, che la conferma o l'esecuzione debbano essere volontarie ed avere tutti gli elementi previsti della disposizione generale dell’art. #309# del cod. civ. del 1865 al quale si riferisce l’art. #1311# dello stesso codice, e che è stato assorbito e sostituito dall’art. 590 dell'attuale. La volontarietà dell'esecuzione, sopratutto, deve essere rigorosamente provata da chi basa la sua pretesa di sanatoria della disposizione nulla o annullabile sulla ratifica. Non basterebbe dire che, al momento in cui vi si dette esecuzione, si potevano conoscere i vizi del testamento. E non si può dubitare che la conferma o esecuzione volontaria sarebbe inefficace per le disposizioni testamentarie contrarie all’ordine pubblico o al buon costume.