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Articolo 27 Legge equo canone

(L. 27 luglio 1978, n. 392)

[Aggiornato al 12/11/2014]

Durata della locazione

Dispositivo dell'art. 27 Legge equo canone

La durata delle locazioni e sublocazioni di immobili urbani non può essere inferiore a sei anni se gli immobili sono adibiti ad una delle attività appresso indicate industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico, quali agenzie di viaggio e turismo, impianti sportivi e ricreativi, aziende di soggiorno ed altri organismi di promozione turistica e simili.

La disposizione di cui al comma precedente si applica anche ai contratti relativi ad immobili adibiti all'esercizio abituale e professionale di qualsiasi attività di lavoro autonomo.

La durata della locazione non può essere inferiore a nove anni se l'immobile urbano, anche se ammobiliato, è adibito ad attività alberghiere, all'esercizio di imprese assimilate ai sensi dell'articolo 1786 del codice civile o all'esercizio di attività teatrali.

Se è convenuta una durata inferiore o non è convenuta alcuna durata, la locazione si intende pattuita per la durata rispettivamente prevista nei commi precedenti.

Il contratto di locazione può essere stipulato per un periodo più breve qualora l'attività esercitata o da esercitare nell'immobile abbia, per sua natura, carattere transitorio.

Se la locazione ha carattere stagionale, il locatore è obbligato a locare l'immobile, per la medesima stagione dell'anno successivo, allo stesso conduttore che gliene abbia fatta richiesta con lettera raccomandata prima della scadenza del contratto. L'obbligo del locatore ha la durata massima di sei anni consecutivi o di nove se si tratta di utilizzazione alberghiera.

È in facoltà delle parti consentire contrattualmente che il conduttore possa recedere in qualsiasi momento dal contratto dandone avviso al locatore, mediante lettera raccomandata, almeno sei mesi prima della data in cui il recesso deve avere esecuzione.

Indipendentemente dalle previsioni contrattuali il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata.

Spiegazione dell'art. 27 Legge equo canone

È innanzitutto opportuno delineare l’ambito di applicazione della presente norma.
La disposizione si occupa dei contratti di locazione, e sublocazione, di immobili urbani utilizzati per scopi diversi da quello abitativo, prevedendo in maniera imperativa una durata minima più elevata rispetto a questi ultimi.
La ratio di tale termine minimo di durata particolarmente elevato risiede nell’esigenza, avuta di mira dal legislatore del 1978, di tutelare e favorire l’attività economica e l’iniziativa imprenditoriale del conduttore.
Per quanto riguarda la nozione di immobile “urbano”, si ritiene in giurisprudenza che rilevi non tanto la collocazione dello stesso, quanto la sua destinazione funzionale, dovendo il giudice valutare se l’immobile locato presenti un “collegamento funzionale” con l’attività economica svolta dal conduttore.
La giurisprudenza, inoltre, ammette la riconducibilità all’interno della nozione di “immobile urbano” anche delle cosiddette “aree nude”, destinate all’esercizio delle attività elencate nell’art. 27, quale potrebbe essere per esempio un’area adibita alla distribuzione di carburante attuata in forma commerciale.
Tra le attività commerciali contemplate dal comma 1 della disposizione, la giurisprudenza fa rientrare anche, a titolo di esempio, la vendita di prodotti farmaceutici, l’attività delle imprese assicuratrici e degli istituti di credito, nonché quella svolta dal mediatore professionale.
La giurisprudenza prevalente fa rientrare tra le attività commerciali anche le “attività agricole connesse” (v. art. 2135 c.c.), con esclusione, quindi, dell’attività agricola primaria, svolta altrove dal medesimo imprenditore.
Nel novero delle attività turistiche contemplate dalla norma, poi, vengono fatte rientrare quelle attività che svolgono, in assenza di finalità di lucro, una funzione complementare di sostegno e potenziamento del turismo, come per esempio i villaggi turistici e gli uffici di assistenza.
Per quanto attiene poi alla locazione di immobili adibiti ad albergo, anche se ammobiliati, di cui al comma 3 della disposizione in oggetto, si prevede che la locazione degli stessi non possa avere una durata inferiore ai nove anni. Argomentando dall’art. 1108 comma 3 c.c., si ricava che per la stipulazione di tale contratto, essendo la durata ultranovennale puramente eventuale, non è richiesto il consenso di tutti coloro che partecipano alla comunione.
La giurisprudenza ha operato una netta distinzione tra la figura, contemplata dalla norma, della locazione di immobile adibito ad albergo e l'affitto di azienda alberghiera.
Nel primo caso, infatti, il bene locato assume una posizione di preminenza nell’economia dell'affare, costituendo la parte essenziale dell’oggetto contrattuale, pur corredata dalla presenza di alcuni elementi accessori. Nel secondo caso, viceversa, l’immobile non viene contemplato individualmente, ma all’interno di un complesso di altri beni, essendo oggetto del contratto non tanto l’immobile in sè, quanto l’insieme organico dei beni produttivi.
Ci si è chiesti se la disciplina di cui all’art. 27 sia applicabile anche nel caso di locazione di immobile adibito al cosiddetto “albergo diurno”, destinato in genere ad erogare servizi quali bagni, parrucchiere, deposito bagagli, palestre, spogliatoi, ecc.
In tal caso non si ritiene possa essere applicata la normativa di cui alla legge sull’equo canone, poichè per albergo si intende un edificio attrezzato per dare alloggio, e non semplicemente per offrire servizi eterogenei non collegati ad esigenze di dimora.
Alla locazione di immobile alberghiero è assimilabile anche l’attività di “affittacamere”, con la quale, oltre ad offrire un alloggio, si prestano dei servizi personali aggiuntivi, che ne connotano la natura “alberghiera”.
Nel caso in cui l’immobile svolga solo in parte l’attività di affittacamere, servendo per il resto a costituire la residenza del conduttore, la giurisprudenza ha dettato il criterio della “prevalenza” al fine di stabilire il regime giuridico applicabile.
Per quanto riguarda infine le attività teatrali, contemplate dal comma 3, vengono fatte rientrare tra le stesse tutte le attività che risultano funzionali allo spettacolo in sè considerato, come per esempio nel caso di immobile destinato a servire da magazzino dove custodire gli attrezzi per la rappresentazione.
Per quanto riguarda, poi, le locazioni stagionali, si ritiene che esse siano costituite da una serie di rapporti, collegati tra loro, rinnovabili di volta in volta da parte del conduttore, per un periodo massimo di sei o nove anni, con l’unico obbligo da parte del conduttore di rilasciare il bene locato alla fine della stagione.
L’inquilino che intenda rinnovare la locazione stagionale ha l’onere di comunicarlo al proprietario con lettera raccomandata prima della scadenza del contratto in corso.
Se l’inquilino non riconsegna l’immobile, né esprime la volontà di rinnovare il contratto per la stagione successiva, il locatore dovrà domandare la restituzione dell’immobile adendo le vie legali, chiedendo la dichiarazione di finita locazione, oltre all’eventuale risarcimento del danno. La Corte di Cassazione ritiene che, nel caso in cui il locatore non si attivi in tal senso, manifestando di fatto acquiescenza verso il comportamento del conduttore, si produrrà un tacito rinnovo del contratto di locazione, di anno in anno, fino al momento in cui il proprietario non decida di manifestare la propria opposizione.
L'art. 27 stabilisce con norma imperativa la durata della locazione, prevedendo, nel caso in cui venga stipulato un contratto per una durata inferiore, una automatica eterointegrazione del contratto, ai sensi dell’art. 1419 c.c. dettato in tema di nullità parziale, sostituendo la durata inferiore con quella minima stabilita dalla legge.
Il comma 5 prevede comunque la possibilità di stipulare la locazione per lo svolgimento di attività “transitorie”, prevedendo in tal caso una durata contrattuale più breve.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ritiene pacificamente che la transitorietà dell’attività vada ricavata non tanto dalla oggettiva tipologia di attività esercitata, quanto dal dato soggettivo costituito dall’atteggiamento del locatore e del conduttore e dai loro propositi concreti.
Il conduttore può recedere dal contratto di locazione sia “ad nutum”, dandone semplicemente avviso al locatore almeno sei mesi prima della della data in cui il recesso deve avere esecuzione, oppure, indipendentemente dalle previsioni contrattuali delle parti, per gravi motivi. Questo secondo tipo di recesso viene definito dalla dottrina recesso “titolato”, poiché non può in alcun modo prescindere dall’indicazione precisa e puntuale dei motivi di recesso da parte del conduttore.
Tale recesso riveste natura di atto recettizio, il quale, ex art. 1334 c.c. , esplica i suoi effetti non appena giunge a conoscenza del destinatario-locatore.
La dottrina ritiene che i gravi motivi che giustificano il recesso debbano consistere in fatti improvvisi e inattesi, che non dipendono in alcun modo dalla volontà o dal comportamento del conduttore, intervenendo in una fase successiva alla nascita del rapporto contrattuale.
Tali gravi motivi possono rivestire anche carattere schiettamente economico, rendendo in quanto tali gravosa la prosecuzione del rapporto locatizio in capo al conduttore.
Potrebbe per esempio capitare che, in seguito alla conclusione del contratto di locazione, lo sviluppo commerciale della zona nella quale era stato locato l’immobile non si realizzi per cause imprevedibili, facendo sfumare l’interesse imprenditoriale del conduttore.
Viceversa, non può essere fatto rientrare tra i gravi motivi che giustificano il recesso del conduttore il mancato pagamento da parte della clientela, che rende più oneroso, se non impossibile, l’adempimento della prestazione del pagamento del canone. Tale costo di produzione, infatti, era prevedibile e calcolabile in anticipo da parte del conduttore sin dalla stipulazione del contratto. Discorso analogo vale per il mancato rilascio di una autorizzazione amministrativa per l’esercizio dell’attività commerciale, se sussistevano fin dal principio i presupposti per conseguirla.

Rel. ministeriale L. 392/1978

(Relazione ministeriale L. 392/1978)

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Circa l'individuazione dei rapporti regolati dagli artt. 27 ss. della legge, è stato richiamato in dottrina il criterio negativo, già elaborato dalla precedente dottrina e giurisprudenza, di escludere dalla previsione tutti i contratti che abbiano ad oggetto immobili che non sono il risultato di una attività edificatoria dell’uomo e che, comunque, non ammettono un insediamento da parte dell’uomo, riguardo al loro godimento. È stato rilevato che la legge fa richiamo, per l’assoggettabilità del rapporto alla disciplina del capo II, alla obiettiva circostanza che l’immobile è adibito ad una delle attività indicate nell’articolo in esame, e che una eventuale discrepanza tra l’uso dedotto nel contratto e l’effettiva destinazione data all’immobile è regolata dal disposto dell’art. 80.
Non risulta che particolari difficoltà si siano incontrate, allo stato, per la individuazione delle attività considerate dall’articolo, essendosi fatto richiamo, per quelle del n. 1 della norma, al disposto dell’art. 2195 del codice civile e dell’art. 1 della L. 25 luglio 1956, n. 860, ed essendo sufficientemente precisa e completa, per quelle del n. 2 della norma, la elencazione contenuta nell’art. 2 della L. 12 marzo 1968, n. 326.
Fra le attività alberghiere, conformemente a quanto stabilito in passato, sono stati compresi anche gli esercizi di pensione e locanda; è sorto dubbio se vi debbano essere inclusi gli esercizi di affittacamere e di casa - albergo, nei quali l’attività alberghiera è commista a servizi diversi, da essa non sempre e non necessariamente dipendenti. Anche per queste ipotesi si è fatto ricorso al criterio della prevalenza, riconoscendosi alberghiera l’attività nella quale prevalgono i caratteri essenziali del dare alloggio per mercede e dell’organizzazione ad impresa dell’esercizio.
Riguardo alle locazioni miste, relative, cioè, ad immobili adibiti ad abitazione e, insieme, ad uso diverso dall’abitazione, i primi commentatori si sono chiesti quale debba essere il criterio per accertare l’uso prevalente e stabilire, di conseguenza, a quale disciplina far capo per la regolamentazione del rapporto. Si è detto che per i nuovi contratti saranno le stesse parti a dare un conveniente assetto alla materia che le riguarda, con riferimenti anche impliciti alle une o alle altre norme. Per i contratti in vigore alla data del 30 luglio 1978, relativamente ai quali vale il regime transitorio, si tratta di accertare, caso per caso, se sussistano obiettive ragioni di prevalenza di un uso sull’altro, anche tenuto conto della superficie dell’immobile utilizzata per ciascuno di essi, del comportamento delle parti, della volontà e degli intenti da queste manifestati, degli arredi e delle strutture interne dell’immobile.
Il ricorso al criterio dell’uso prevalente è giustificato anche dall’art. 80 della legge, e di questa norma non si è mancato da più parti di sottolineare l’opportunità, in relazione alla decadenza del locatore dall’azione di risoluzione del rapporto quando il conduttore abbia destinato l’immobile ad uso diverso da quello pattuito e sia decorso il termine di tre mesi dal giorno in cui il locatore è venuto a conoscenza di tale fatto; l’azione si prescrive, comunque, al maturare dell’anno dal mutamento di destinazione. In entrambe le ipotesi si deve applicare alla specie il regime giuridico corrispondente all’uso effettivamente dato all’immobile e, in caso promiscuo, quello corrispondente all’uso prevalente.
In dottrina è sorta questione se fra le attività considerate dall’articolo in esame debbano essere comprese quelle indicate nell’art. 2135, secondo comma, del codice civile, e cioè le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli, pur se rientrino nell’esercizio normale dell’agricoltura. Si è esclusa, in quest’ultima ipotesi, l’applicabilità dell’art. 27, sul rilievo, già posto in luce da precedenti elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza, che soltanto in quanto le attività indicate nel secondo comma dell’art. 2135 siano svolte nell’ambito di un organismo economico indipendente, esse possono essere considerate non connesse con l’esercizio dell’impresa agricola e, quindi, essere poste dalle parti alla base di un autonomo contratto di locazione.
Pure è stata esclusa ogni possibilità di confusione tra affitto e locazione, quando ci si riferisca a criteri, ormai consolidati, del resto, nella pratica giudiziaria, che tengono conto, nell’affitto di azienda, della circostanza che oggetto del contratto è il complesso unitario dei beni preordinati alla gestione dell’impresa e che l’immobile non è che uno, anche se il più importante, di tali beni, e, nella locazione, della circostanza, essenziale, che l’immobile, sia pure con pertinenze, è stato considerato dalle parti in sè e per sè come bene separato, avente una propria individualità e rilevanza giuridica.

Massime relative all'art. 27 Legge equo canone

Cass. civ. n. 14268/2017

Il conduttore che deduca il proprio diritto alla risoluzione anticipata del rapporto e riconsegni l’immobile al locatore, il quale accetti la consegna con riserva (facendo espressa riserva di azione per i diritti ancora nascenti dal contratto), non è liberato ai sensi dell’art. 1216 c.c. dall’obbligo del pagamento dei canoni ancora non maturati, ed il successivo accertamento della insussistenza del diritto di recesso comporta che il conduttore medesimo è tenuto al pagamento dei canoni fino alla scadenza del contratto.

Cass. civ. n. 15377/2016

Nella locazione di immobili per uso diverso da quello abitativo, convenzionalmente destinati ad una attività il cui esercizio richieda specifici titoli autorizzativi dipendenti anche dalla situazione edilizia del bene (abitabilità dello stesso e sua idoneità all'esercizio di un'attività commerciale), l'inadempimento del locatore può configurarsi quando la mancanza di tali titoli dipenda da carenze intrinseche o da caratteristiche proprie del bene locato, sì da impedire in radice il rilascio degli atti amministrativi necessari e, quindi, l'esercizio lecito dell'attività del conduttore conformemente all'uso pattuito, ovvero quando il locatore abbia assunto l'obbligo specifico di ottenere i necessari titoli abilitativi, restando invece escluso allorché il conduttore abbia conosciuta e consapevolmente accettata l'assoluta impossibilità di ottenerli.

Cass. civ. n. 25740/2015

Nell’ipotesi in cui, nel corso del procedimento instaurato dal locatore per ottenere la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, intervenga la restituzione dell’immobile per finita locazione, non vengono meno l’interesse ed il diritto del locatore ad ottenere l’accertamento dell’operatività di una pregressa causa di risoluzione del contratto per grave inadempimento del conduttore, potendo da tale accertamento derivare effetti a lui favorevoli. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha annullato la decisione di merito che aveva dichiarato cessata la materia del contendere, sul presupposto dell’avvenuta cessazione del contratto di locazione ad uso non abitativo nelle more tra il giudizio di primo e secondo grado, rilevando, per contro, la persistenza dell’interesse all’accertamento dell’avvenuta risoluzione del contratto, in forza dell’operatività di una clausola risolutiva espressa, giacché essa avrebbe comportato, ai sensi dell’art. 1458 c.c., la condanna alla restituzione delle prestazioni adempiute).

Cass. civ. n. 24843/2014

In tema di locazione, la nullità della clausola che limita la durata di un contratto soggetto alle disposizioni dell’art. 27, L. 392 del 1978, ad un tempo inferiore al termine minimo stabilito dalla legge determina l’automatica eterointegrazione del contratto, ai sensi del secondo comma dell’art. 1419 c.c., con conseguente applicazione della durata legale prevista dal quarto comma del citato art. 27, risultando irrilevante l’avere le parti convenuto che l’invalidità anche di una sola clausola contrattuale comporti il venir meno dell’intero negozio.

Corte app. Bologna n. 1222/2005

La natura stagionale di un contratto di locazione relativo ad un’area nuda deriva dalle caratteristiche prettamente stagionali dell’attività ivi intrapresa dal conduttore (nella specie, quella di giostralo in zona adibita soltanto a villeggiatura estiva), non essendo indicativi del con¬senso del locatore al mutamento di destinazione d’uso né la circostanza che il conduttore abbia realizzato un manufatto in legno (destinandolo, all’insaputa del locatore, a stabile residenza per la propria famiglia) né il fatto che, alla scadenza del periodo stagionale, il terreno non venga rilasciato, denotando tale situazione solo l’intenzione del conduttore di esercitare il diritto di rinnovo per l’uguale successivo periodo stagionale.

Cass. civ. n. 1596/2005

In tema di locazione di immobili per lo svolgimento di una delle attività indicate nell’art. 27 della legge n. 392 del 1978, la iniziale pattuizione di un termine di durata del contratto superiore a quella minima di legge non esclude l’applicabilità della disciplina del rinnovo alla prima scadenza di cui al successivo art. 28, con la conseguenza che è affetta da nullità, ai sensi dell’art. 79 della legge n. 392 del 1978, la clausola diretta a limitare la durata della rinnovazione sino al compimento di una complessiva durata di anni dodici.

Cass. civ. n. 22129/2004

In tema di locazione di immobili per lo svolgimento di una delle attività indicate nell’art. 27 della legge n. 392 del 1978, la previsione di un termine di durata del contratto superiore a quella minima di legge non esclude l’applicabilità della disciplina del rinnovo alla prima scadenza di cui al successivo art. 28, ancorché la durata del contratto inizialmente pattuita sia uguale o superiore a quella di dodici o diciannove anni risultante dalla somma della durata minima legale iniziale e da quella minima di rinnovo, rispettivamente disposta per le attività indicate nei primi due commi dell’art. 27 e nel terzo comma del medesimo articolo.

Cass. civ. n. 2069/2004

In tema di locazione di immobili urbani adibiti ad uso non abitativo, la disciplina dettata dagli artt. 38 e 39 della legge n. 392 del 1978 con riguardo al diritto di prelazione e riscatto da parte del conduttore si applica anche alle aree nude, allorché, su di esse, si svolga un’attività ricompresa tra quelle di cui all’art. 27 della legge citata.

Cass. civ. n. 587/1999

L’art. 7 del D.L. 30 dicembre 1988, n. 551, convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 1989, n. 61, che dispone, nel primo comma, la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio per finita locazione alla scadenza del periodo transitorio in relazione alle locazioni ad uso diverso dall’abitazione di cui all’art. 27 della legge n. 392 del 1978 sino al 31 dicembre 1989, e prevede - inoltre - nel secondo comma, che, per il periodo di sospensione la somma dovuta ai sensi dell’art. 1591 c.c. è pari all’ultimo canone corrisposto, aumentato del 100%, non si applica nei confronti dei conduttori titolari di locazioni di immobili adibiti ad attività che comportano contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori, nei riguardi dei quali l’esecuzione del provvedimento di rilascio è condizionata dalla previa corresponsione dell'indennità per la perdita dell’avviamento ai sensi degli artt. 34 e 69 della legge n. 392 del 1978.

Cass. civ. n. 6522/1996

La disciplina della L. 27 luglio 1978, n. 392 è applicabile anche alla locazione di immobili adibiti ad uso di deposito, purché collegati in senso spaziale o temporale con una delle attività indicate negli artt. 27 e 42 della legge predetta.

Cass. civ. n. 3733/1996

La stipulazione di un contratto di locazione di un immobile urbano destinato ad uso non abitativo, soggetto alle disposizioni dell’art. 27 della legge 27 luglio 1978 n. 392, per una durata inferiore al termine minimo di legge non determina la nullità del contratto, ma l’invalidità della clausola derogativa e di conseguenza l’automatica eterointegrazione del contratto, ai sensi del secondo comma dell’art. 1419 c.c., con l’applicazione della durata minima prevista dalla norma.

Cass. civ. n. 3663/1996

Qualora sia stipulata per una durata inferiore a quella legale una locazione di immobile destinato all’esercizio di una delle attività previste dall’art. 27 della L. n. 392 del 1978, il contratto, ove sorga controversia, potrà essere ritenuto conforme al modello legale «locazione non abitativa transitoria» e, quindi, sottratto alla sanzione di nullità di cui all’art. 79 della legge stessa ed alla eterointegrazione ex art. 1339 c.c., a condizione che la transitorietà sia espressamente enunciata, con specifico riferimento alle ragioni che la determinano, in modo da consentirne la verifica in sede giudiziale e sempreché risulti, in esito ad essa, che le ragioni dedotte (delle quali si postula l’effettività, ricorrendo, diversamente, una fattispecie simulatoria) siano di natura tale da giustificare la sottrazione del rapporto al regime ordinario e, cioè, siano ragioni obiettive che escludano esigenze di stabilità.

Cass. civ. n. 6591/1995

All’affitto di azienda sono inapplicabili sia le norme della legge sull’equo canone n. 392/78, sia le disposizioni della legge 12 marzo 1968, n. 326 art. 2 lett. e) e ss. concernenti le agevolazioni in favore dei soggetti realizzatori di impianti sportivi e ricreativi e non dei soggetti che tali impianti hanno successivamente gestito.

Cass. civ. n. 6200/1995

In tema di locazione di immobili urbani, adibiti ad uso non abitativo, per verificare se un determinato rapporto sia assoggettabile alla disciplina dell’art. 27 n. 392 del 1978, il giudice deve unicamente accertare se l’immobile oggetto della locazione - che può essere rappresentato anche da un’area nuda di modeste dimensioni - sia destinato ad una delle attività indicate in detta disposizione, indagando sulla sussistenza, o meno di un collegamento funzionale tra la disponibilità dell’immobile locato e l’attività del conduttore (nella specie, la S.C. ha ritenuto assoggettabile all’art. 27 cit. la locazione di un’area nuda destinata dal conduttore, secondo le previsioni contrattuali, all’installazione di una cabina per servizio automatico di fotografie e fotocopie).

Cass. civ. n. 1440/1995

Qualora, sulla domanda del conduttore di recesso da un contratto locativo ai sensi dell’art. 27, ultimo comma legge 27 luglio 1978 n. 392, il pretore abbia declinato la propria competenza per ragioni di valore con provvedimento emesso anteriormente alla data del 30 aprile 1995 ed impugnato con regolamento di competenza, la sopravvenienza, durante la sospensione del processo ex art. 48 c.p.c., dell’art. 9 D.L. 18 ottobre 1995, modificativo dell’art. 90, comma terzo legge 26 novembre 1990 n. 353, comporta che la causa debba essere decisa dallo stesso pretore competente per materia per tutte le cause relative ai rapporti di locazione di immobili urbani ex art. 8 comma secondo, n. 3 c.p.c., nella nuova formulazione, ancorché egli fosse incompetente secondo la legge anteriore.

Cass. civ. n. 8386/1992

La disciplina del capo II titolo primo della L. 27 luglio 1978, n. 392 è applicabile alle locazioni non solo di edifici ma di tutti gli immobili, di qualunque specie, nei quali effettivamente si eserciti una delle attività contemplate dall’art. 27 della citata legge, secondo le previsioni contrattuali e, comunque, con il consenso o senza tempestiva opposizione del locatore (nella specie, trattavasi di area nuda utilizzata per la custodia di autoveicoli).

Cass. civ. n. 6537/1990

L’art. 27 della L. n. 392/1978, che disciplina la durata delle locazioni di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, concerne tutti gli immobili urbani, di qualunque specie, in cui si eserciti una delle attività contemplate nei primi due commi del medesimo art. 27, ivi comprese, pertanto, anche le locazioni di aree urbane non edificate (cosiddette aree nude) destinate, per contratto, all’esercizio di una delle dette attività (nella specie stazione di servizio per la vendita di carburante), con la conseguenza che la controversia relativa all’aggiornamento del relativo canone rientra nella competenza del pretore a norma dell’art. 45 della detta legge.

Cass. civ. n. 2615/1990

L’ambito di applicazione della L. 27 luglio 1978, n. 392 è delimitato dalla materia delle locazioni degli immobili urbani, sicché deve ritenersi che il recesso dal contratto di locazione, quale previsto dalla disciplina transitoria contenuta nella stessa legge, sia ammesso solo per la necessità di esercitare nell’immobile un’attività la cui concreta attuazione sia consentita dalla natura e destinazione urbana dell’immobile oggetto del contratto. Conseguentemente, mentre tra le attività che consentono il recesso rientrano quelle agricole connesse contemplate dall’art. 2135, comma secondo, c.c., in quanto ricomprese tra le attività industriali, commerciali ed artigianali, considerate dalla legge n. 392/1978, non vi rientra la mera coltivazione del fondo.

Cass. civ. n. 2727/1985

Ai fini del recesso del locatore previsto dall’art. 29 della legge n. 392 del 1978 in relazione alle attività indicate dall’art. 27, esula dalla nozione di attività industriale quella svolta dall’«associazione degli industriali», che non si pone, rispetto all’attività anzidetta, con carattere di ausiliarietà, in quanto l’associazione costituisce un’organizzazione che tutela gli interessi di categoria svolgendo un’attività burocratica distinta e diversa da quella degli appartenenti alla categoria stessa.

Cass. civ. n. 697/1984

La locazione di un immobile destinato ad attività commerciale, come quella di allevamento di cavalli, deve considerarsi locazione di immobile «urbano», al fine dell’applicabilità della disciplina della legge sull’equo canone 27 luglio 1978 n. 392, così come della precedente normativa vincolistica (nella specie, art. 1 quarto comma del D.L. 24 luglio 1973 n. 426, convertito in L. 4 agosto 1973 n. 495, sul divieto di clausole di adeguamento del canone), a prescindere dalla sua eventuale ubicazione al di fuori della cinta cittadina, perché, ai fini indicati, devono qualificarsi come urbani tutti gli immobili diversi da quelli rustici (cioè adibiti all’attività agricola ed a quelle ad essa strettamente connesse).

Cass. civ. n. 5464/1983

La norma di cui all’art. 27, n. 2 della L. 27 luglio 1978 n. 392, nel richiamare le attività di interesse turistico comprese fra quelle di cui all’art. 2 della L. 12 maggio 1968 n. 326 (che annovera fra le stesse anche i «rifugi alpini»), si limita a regolare la durata dei contratti di locazione ove abbiano ad oggetto gli immobili in cui si svolgono dette attività ma non comporta che i rapporti concernenti il godimento di siffatti immobili integrino una locazione o sublocazione d’immobile.

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relative all'articolo 27 Legge equo canone

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F.L. chiede
martedì 09/11/2021 - Liguria
“Buongiorno, ho intenzione di locare un magazzino per il deposito di mobili ad una società che opera nella vendita al dettaglio degli stessi e che ha già diversi negozi sul territorio. La durata minima del contratto di locazione, è liberamente determinabile tra le parti? O vi è un minimo.

Grazie per la risposta.”
Consulenza legale i 12/11/2021
Occorre premettere che in materia di locazioni uso non abitativo, l’art. 27 della L.392/78 prevede espressamente che la durata delle locazioni e sublocazioni di immobili urbani non possa essere inferiore a sei anni se gli immobili siano adibiti ad attività industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico.
La medesima norma stabilisce altresì che la durata minima debba essere invece di nove anni se l'immobile urbano sia adibito ad attività alberghiere e all'esercizio di imprese assimilate e che “se è convenuta una durata inferiore o non è convenuta alcuna durata, la locazione si intende pattuita per la durata rispettivamente prevista nei commi precedenti”

Ciò posto, secondo l’interpretazione della Suprema Corte (ad esempio, la sentenza n.6522/1997) detta disciplina “è applicabile anche alla locazione di immobili adibiti ad uso di deposito, purché collegati in senso spaziale o temporale con una delle attività indicate negli artt. 27 e 42 della legge predetta.

Orbene, nella presente vicenda leggiamo che la locazione uso magazzino riguarderebbe mobili di una società che opera nella vendita al dettaglio degli stessi.
Dunque vi è un evidente legame tra l’utilizzo del magazzino e l’attività commerciale del conduttore.

In risposta quindi alla domanda contenuta nel quesito possiamo affermare che la durata minima da indicare nel contratto debba essere di sei anni.

A.V. chiede
lunedì 23/08/2021 - Piemonte
“Buongiorno. Come presidente di un Asd senza scopo di lucro per la pesca sportiva devo stipulare un contratto di affitto di tipo commerciale, la cui durata minima 6+6 e massima di 30 anni.
la domanda è la seguente: posso stipulare un contratto 12+12 ( il nostro tipo di attività richiede tempi molto lunghi), oppure 18+6 per esempio?
nel caso fosse possibile indicandolo nel contratto, il locatore potrebbe operare il diniego (art.29) alla scadenza dei primi 12 anni o 18 nel secondo caso oppure può operarlo prima, per esempio allo scadere dei primi 6 anni, come da contratto standard 6+6?”
Consulenza legale i 01/09/2021
L’art. 27 della legge n. 392/1978 (c.d. legge sull’equo canone), in tema di durata delle locazioni di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, stabilisce che essa “non può essere inferiore a sei anni” (termine elevato a nove anni in caso di immobile adibito ad attività alberghiere e imprese a queste assimilate, nonché all’esercizio di attività teatrali).

Si tratta, appunto, di un termine minimo: nel prosieguo della norma viene infatti precisato che “se è convenuta una durata inferiore o non è convenuta alcuna durata, la locazione si intende pattuita per la durata rispettivamente prevista nei commi precedenti”.

L’unico termine massimo di durata rimane quello fissato dall’art. 1573 c.c., ai sensi del quale, salve diverse previsioni di legge, la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trenta anni. Se stipulata per un periodo più lungo o in perpetuo, è ridotta al termine suddetto.
Deve, dunque, ritenersi consentita la stipula di contratti di locazione commerciale con durata superiore al minimo di legge, sempre nel rispetto del limite trentennale stabilito dal codice civile, come peraltro espressamente chiarito da Cass. Civ., Sez. III, 26/04/2004, n. 7927, la quale ha sottolineato che “l'art. 27 L. n. 392 del 1978 considera inderogabile la durata minima senza porre limiti a quella massima, sicché questa rimane ancorata al disposto dell'art. 1573 c.c. (trenta anni)”.
Quanto abbiamo detto sin qui si riferisce, però, esclusivamente alla durata iniziale della locazione; un discorso diverso, infatti, va fatto con riferimento all’ipotesi di rinnovazione tacita del contratto, prevista dall’art. 28 della medesima L. n. 392/1978.
A tal fine dobbiamo, innanzitutto, tenere in considerazione il dato letterale dell’art. 28 in questione, il quale prevede testualmente il rinnovo tacito "di sei anni in sei anni" (di nove in nove per immobili alberghieri e assimilati): significativamente, dunque, la legge non dice che il contratto si rinnovi per un periodo di tempo corrispondente alla durata iniziale, ma indica direttamente la durata del rinnovo (rispettivamente 6 e 9 anni).
Al riguardo, poi, una recente sentenza del Tribunale di Roma, Sez. VI, 06/02/2020 afferma espressamente che “in tema di locazioni di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, ai sensi degli articoli 27 e 28 della l. n. 392 del 1978 va escluso che, ove le parti abbiano "ab initio" previsto una durata contrattuale superiore al minimo fissato dalla legge (sei anni), la rinnovazione tacita del rapporto locatizio, in conseguenza del difetto di diniego della rinnovazione stessa, possa comportare una durata superiore al minimo suddetto, e cioè pari a quella stabilita convenzionalmente all'inizio del rapporto, in quanto il suddetto articolo 28 stabilisce che per le locazioni non abitative il contratto si rinnova tacitamente di sei anni in sei anni e per gli immobili ad uso alberghiero di nove anni in nove anni”.

LUIGI O. chiede
mercoledì 13/05/2020 - Lazio
“ALLEGATO.
Come può reagire il proprietario del locale commerciale. E' possibile la risoluzione del contratto?”
Consulenza legale i 16/05/2020
Alcune brevi considerazioni.
L’epidemia di coronavirus costituisce indubbiamente un esempio di un evento straordinario ed imprevedibile.
Il contratto di locazione, inoltre, rientra nei contratti a prestazioni corrispettive in quanto vi sono delle obbligazioni sia da parte del locatore che del onduttore espressamente previste nel codice civile.
Tra le obbligazioni principali del conduttore vi è quella del pagamento del canone.
Una chiusura forzata di una attività commerciale con conseguente mancanza di entrate economiche per il periodo di chiusura potrebbe effettivamente andare ad integrare una situazione di eccessiva onerosità che potrebbe legittimare la richiesta della risoluzione contrattuale di cui all’art. 1467 c.c.
Del resto, la stessa L.392/78 (cosiddetta legge sull’equo canone) all’art. 27 prevede che il conduttore possa recedere dal contratto per gravi motivi: “indipendentemente dalle previsioni contrattuali, il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, può recedere in qualsiasi momento dal contratto, con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata”.

Ciò posto, chiedere la risoluzione ai sensi dell’art. 1467 c.c., come ha fatto il conduttore nella presente vicenda, rappresenta in effetti una delle possibili soluzioni di fronte alla attuale situazione di emergenza sanitaria.
Teniamo conto che non essendoci una espressa previsione normativa, il tutto è rimesso alla interpretazione ed applicazione dei principi generali del diritto.
Non solo. Occorre anche valutare caso per caso se effettivamente l’evento straordinario e imprevedibile abbia causato una eccessiva onerosità della controprestazione.
A ciò si aggiunga che il decreto n.18 del 17 marzo 2020 (c.d. “cura Italia) all’art. 65, prevede soltanto un credito di imposta del 60% che è stato riconosciuto ai conduttori che abbiano dovuto sospendere le proprie attività a causa delle restrizioni imposte per contrastare la diffusione del Coronavirus.

Nel quesito si chiede come possa reagire il proprietario a fronte di una richiesta di risoluzione.
La reazione dipende anche da cosa vorrebbe il locatore proprietario.
Se Lei è interessato a mantenere comunque il contratto, potrebbe invitare il conduttore ad una rinegoziazione del canone, come del resto espressamente previsto dall’ultimo comma dell’ art. 1467 c.c secondo cui: “La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto” .
Tale rinegoziazione dovrebbe ovviamente tenere conto della pregressa morosità del conduttore la quale è del tutto indipendente rispetto alla sopraggiunta situazione di epidemia.

Se invece, Lei non ha interesse a mantenere in piedi il contratto proprio perché il conduttore è “un cattivo pagatore” come ci ha specificato nel quesito, allora può accettare la proposta di risoluzione contrattuale specificando che sono comunque dovuti i canoni non pagati fino alla chiusura dell’attività commerciale e che i successivi sino al rilascio possono essere semmai ridotti alla luce della attuale situazione.

Insomma, in sostanza, nell’uno o nell’altro caso è vivamente consigliabile trovare un accordo stragiudiziale.
Se si dovesse infatti intraprendere una azione giudiziale circa le sorti del contratto in essere gli esiti sarebbero incerti per entrambe le parti.

PAOLO Z. chiede
sabato 18/01/2020 - Veneto
“Sono proprietario di un ufficio a ......, ceduto in locazione tre anni fa con la formula 6 + 6 anni.
Due mesi fa il locatario ha inviato disdetta per "gravi motivi" in parte falsi in parte tendenziosi,per la scadenza primo Giugno 2020. Ho respinto la disdetta per insussistenza dei motivi. Tuttavia il locatario si appresta a trasferirsi e lo farà nei prossimi giorni. Quale la strada da seguire per la giusta tutela dei miei interessi?”
Consulenza legale i 28/01/2020
Le problematiche che la vicenda descritta richiede di affrontare sono essenzialmente due:
  1. la valutazione della reale sussistenza di “gravi motivi” che possano legittimare il conduttore a recedere anzi tempo dal contratto di locazione;
  2. le conseguenze che possono prodursi sul contratto di sublocazione a seguito di un eventuale rilascio volontario dell’immobile prima della data (1 giugno 2020) da cui quel recesso, se legittimo, dovrebbe cominciare ad operare.

Il primo aspetto da considerare è quello relativo alla reale sussistenza o meno di quei gravi motivi che possono condurre allo scioglimento anticipato del contratto.
Secondo quanto convenuto all’art. 3 del contratto di locazione, al conduttore è stata concessa facoltà di recedere anticipatamente dal contratto di locazione, dandone preavviso almeno sei mesi prima al locatore, qualora sussistano gravi motivi riconducibili alla gestione di quell’attività che nell’immobile locato sarebbe stata svolta.

Trattasi di clausola perfettamente in linea con quanto previsto dall’art. 27 della l. equo canone , il che comporta che, al fine di giungere ad una conclusione quanto più attendibile possibile, occorrerà esaminare quale interpretazione ha inteso dare la giurisprudenza più recente a tale norma, ed in particolare quando secondo la giurisprudenza può parlarsi di gravi motivi.

Ebbene, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ribadito di recente dalla Corte di Cassazione, Sez. III Civ. con sentenza n.5803 del 28.02.2019, i comportamenti determinati da fatti estranei alla volontà dell’impresa, imprevedibili alla costituzione del rapporto e sopravvenuti ad esso, costituiscono gravi motivi e sono capaci di porsi alla base di un recesso anticipato (si richiama volutamente il caso di una impresa conduttrice in quanto anche in questo caso trattasi di attività svolta in forma societaria, e precisamente facente capo ad una società in accomandita semplice).
Tali gravi motivi devono essere determinati da fatti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto e tali da rendergli gravosa la sua prosecuzione.

In particolare, nella sentenza sopracitata (la n. 5803/2019), la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte territoriale (oggetto di ricorso per cassazione), nella parte in cui era stata negata la sussistenza dei gravi motivi di recesso ex art. 27 Legge n. 392/1978, pur avendo il giudice di merito ammesso che la decisione dell’impresa conduttrice di trasferire il proprio centro direzionale in altro immobile dai costi inferiori potesse essere dettata da soggettive scelte imprenditoriali, in cui possono assumere rilievo le più svariate valutazioni, non imposte di per sé dalla necessità di salvaguardare la realtà aziendale.

Sulla scorta di tali considerazioni, dunque, dovrebbe ritenersi che, nel caso di specie, la motivazione addotta dal socio accomandatario della società conduttrice potrebbe configurarsi come ricorrenza di quei gravi motivi che la legge (e anche il contratto specifico) richiede per recedere anticipatamente dal contratto.

Senonchè, sempre la Corte di Cassazione, con altra sentenza di poco più recente, ossia la sentenza della Sezione III civ. n. 23639 del 24 settembre 2019, ha intanto confermato che le ragioni che consentono al conduttore di liberarsi in anticipo dal vincolo contrattuale devono essere determinati da avvenimenti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da renderne oltremodo gravosa la prosecuzione.
Ha anche precisato, però, che la gravosità di tale prosecuzione deve avere connotazione oggettiva e che non può risolversi in una unilaterale valutazione effettuata dallo stesso conduttore in ordine alla convenienza o meno di continuare il rapporto locativo, dovendo piuttosto consistere, allorchè venga in rilievo l’attività di una azienda (e qui si tratta proprio di questo), in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie, idoneo ad incidere significativamente sull’andamento dell’azienda stessa globalmente considerata.

In tal senso, peraltro, si era già espressa la Corte di cassazione, Sez. III civ., con precedente sentenza n. 26711 del 13.12.2011.

Ebbene, si ritiene che le motivazioni addotte nelle sentenze da ultimo citate possano essere più che sufficienti per contestare quei motivi che la società conduttrice definisce come gravi e sulla base dei quali intende sciogliersi anticipatamente dal contratto di locazione in essere.
Non è di poco conto, infatti, la circostanza che nel caso di specie parte contrattuale, nella posizione di locatario, sia una società, ente dotato di autonoma soggettività giuridica, in quanto tale del tutto distinto dalle persone dei soci che compongono la compagine sociale.
Da ciò non può non farsi conseguire che le vicende strettamente personali che riguardano lo stato di salute di un singolo socio, pur se afferenti a colui che ne ha responsabilità illimitata (il socio accomandatario), non possono, almeno di regola, essere invocate per ricollegarvi una crisi d’impresa, costituente giusta causa per recedere dal contratto di locazione.
Occorrerebbe, almeno secondo l’orientamento da ultimo citato della Corte di Cassazione, dar prova della sussistenza di una effettiva crisi dell’attività aziendale, tale da aver inciso significativamente sull’andamento dell’azienda e da aver determinato un effettivo squilibrio tra le prestazioni originarie.

Nel caso di una società svolgente attività assicurativa risulta abbastanza semplice dimostrare se effettivamente l’evento che ha colpito il socio accomandatario abbia avuto dei risvolti negativi sull’attività sociale, in quanto occorrerebbe cercare di operare un raffronto tra il portafoglio clienti al momento della conclusione del contratto e quello sussistente al momento di esercizio del diritto di recesso.
Una tale verifica sarebbe più che sufficiente per accertare se effettivamente quanto addotto dal legale rappresentante della società conduttrice sia reale o sia soltanto frutto di un pretesto per sciogliersi da quel contratto.
Indubbiamente, in questo modo non si metterebbe in dubbio la reale sussistenza della malattia dello stesso, ciò che sembra impensabile, ma la sua effettiva incidenza negativa sull’andamento dell’azienda.

Qualora, secondo le modalità sopra suggerite, si riesca a conseguire prova che l’attività aziendale non ha subito alcuna inflessione o se ne accerti soltanto un minimo andamento negativo, allora si ritiene che sia più che fondata la scelta di contestare quel recesso per assenza dei giusti motivi previsti dal contratto e dalla legge.
A seguito di tale formale contestazione, si avrà tutto il diritto per avanzare ricorso per ingiunzione di pagamento relativo ai canoni di locazione non corrisposti, avverso il quale la società conduttrice dovrà eventualmente proporre opposizione, chiedendo in via riconvenzionale l’accertamento della legittimità del recesso anticipato dal contratto di locazione, stante la ricorrenza dei gravi motivi previsti sia dall’art. 3 del contratto che dall’art. 27 Legge n. 392/1978.
In questa sede, ovviamente, entrerà in gioco l’orientamento del giudice, essendo rimessa alla sua esclusiva valutazione se la motivazione posta alla base del recesso possa effettivamente legittimare lo scioglimento anticipato del contratto.

Per quanto concerne il secondo dei problemi posti, ossia quello relativo a come ci si debba comportare se prima dello scadere dei sei mesi (ossia prima della data dl 1° giugno 2020) la società conduttrice dovesse rilasciare l’immobile (disattivando tutte le utenze), ciò che si suggerisce, preliminarmente, è di rifiutare la consegna delle chiavi, anche qualora alla stessa l’altra parte vi provveda avvalendosi dell’offerta reale di chiavi a mezzo ufficiale giudiziario (il rifiuto di prendere in consegna quelle chiavi andrà motivato sulla scorta della contestata ricorrenza dei giusti motivi per recedere).

Se, invece, la parte conduttrice abbandona l’immobile locato, pur continuando a corrispondere il canone di locazione convenuto fino alla data del primo giugno 2020, ma disattiva nel contempo tutte le utenze (come si teme), tale comportamento configurerà, indubbiamente, un inadempimento a quella prestazione a cui la medesima si è obbligata ex art. 5 del contratto (ove è detto che dal canone di locazione doveva intendersi escluso ogni onere accessorio, che sarebbe rimasto integralmente a carico della conduttrice, quali, a titolo esemplificativo, riscaldamento, condizionamento aria, pulizie, fornitura acqua ed energia elettrica, espurgo pozzi nei, erogazione degli altri eventuali servizi comuni, etc.).
Considerato, poi, che il contratto di sublocazione è strettamente collegato come contratto derivato a quello principale di locazione, si avrà che l’inadempimento alla clausola degli oneri accessori posti in capo al conduttore non potrà che riflettersi negativamente sul sinallagma contrattuale del contratto di sublocazione, in quanto risulta più che evidente che nella determinazione del canone di sublocazione le parti abbiano tenuto conto degli obblighi assunti dal conduttore nel contratto principale.

Ma il distacco di tali utenze, oltre a costituire sotto il profilo civilistico un inadempimento contrattuale (legittimante in quanto tale l’esperimento di un’azione per il risarcimento dei danni patiti), assume valenza anche sotto il profilo penale, in quanto costituisce reato interrompere la somministrazione delle forniture di elettricità ed acqua nell’immobile concesso in locazione, traducendosi nel modificarne o impedirne l’originaria utilizzazione, funzionale ad un normale uso di quell’immobile (in tal senso possono citarsi Cass.Pen. Sez. VI n. 6187/2009; Cass. Pen. Sez. VI n. 41675/2012).

In forza di quanto sopra osservato, dunque, si avrebbe tutto il diritto di procedere sia con azione civile (per chiedere l’adempimento contrattuale o, in alternativa, il risarcimento del danno) sia sporgendo formale querela per interruzione di quei servizi essenziali onde poter fruire dell’immobile concesso in sublocazione.


Barbara M. chiede
sabato 09/11/2019 - Lombardia
“Si richiede un parere pro veritate in merito all'obbligo di forma scritta per il recesso di un contratto di locazione di anni 6 + 6 per un immobile ad uso diverso da abitazione come prevede la legge ai sensi dell’art. 1 comma 4 della Legge 431/1998, redatto in forma scritta e regolarmente registrato.
Il locatore (curatore fallimentare) ha infatti notificato tale recesso via PEC in 'forma semplice' senza firma digitale, tale pec non rispetta la “forma scritta”, in quanto non possedeva al suo interno nessuna firma digitale e nessun documento allegato firmato come prevedono i già richiamati principi legislativi. Inoltre la stessa PEC non forniva chiare e precise indicazioni di recesso.
La giurisprudenza infatti, ha espressamente dichiarato che il documento informatico per soddisfare il requisito di "forma scritta "deve possedere la firma digitale avanzata.art. 21, comma 2 bis d. lgs. 82/2005). Le scritture private di cui all'articolo 1350 CC. (primo comma, dal numero 1 al numero 12, e la locazione rientra nel numero 8) se redatte su documento informatico (PEC) vengono considerate sottoscritte a pena di nullità solo se vengono redatte e inviate con firma digitale. Quindi solo se il documento informatico è sottoscritto con firma digitale, il suo valore giuridico e probatorio è equiparabile alla forma scritta ai sensi dell’articolo 2702 del CC. La sola firma digitale garantisce infatti (i) la provenienza della dichiarazione e (ii) la paternità delle dichiarazioni contenute nel documento in quanto essa assolve la medesima funzione della firma autografa ai sensi del DPR 445/2000.
Si evidenzia che la PEC inviata dal curatore in data 16.10.2014 non possedeva nessuna firma digitale e nessun documento allegato firmato come prevedono i già richiamati principi legislativi, pertanto per noi tale recesso effettuato dal curatore è invalido a tutti gli effetti , in quanto la PEC semplice senza firma digitale non risponde ai requisiti di forma scritta e il recesso deve essere pertanto ritenuto invalido.
Rimaniamo a disposizione per inviarvi una memoria breve (3 pagine) che fornisce ulteriori dettagli in merito.”
Consulenza legale i 15/11/2019
Occorre subito premettere che la L. n. 431/1998 disciplina unicamente le locazioni di immobili urbani adibiti ad uso abitativo, e non è, pertanto, applicabile alle locazioni ad uso diverso da abitazione, le quali restano disciplinate - come appunto nel caso in esame - dagli artt. 27 ss. l. 392/1978 (legge sull’equo canone).
L’espressa previsione della forma scritta a pena di nullità, di cui all’art. 1, comma 4 della L. n. 431/1998 riguarda, dunque, solo le locazioni ad uso abitativo. Inoltre l'art. 1350 del c.c., n. 8), prescive la forma scritta ad substantiam solo per le locazioni ultranovennali.
Rispetto, inoltre, alla disdetta, la giurisprudenza (v. Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 13449/2013) ha costantemente ribadito "il principio della libertà delle forme [...] sul rilievo che essa costituisce atto negoziale unilaterale e recettizio, espressione di un diritto potestativo attribuito ex lege al locatore e concretantesi in una manifestazione di volontà diretta ad impedire la prosecuzione o la rinnovazione tacita del rapporto locativo: atto che può essere comunicato in qualsiasi modo, purché idoneo a portare a conoscenza del conduttore l'inequivoca volontà del locatore di non rinnovare il rapporto alla scadenza”.
Ne consegue che, a prescindere da ogni ulteriore considerazione in merito al valore della PEC e della firma digitale, non può considerarsi invalido, sotto il profilo evidenziato, il recesso comunicato a mezzo posta elettronica certificata, essendo quest'ultima dotata dei requisiti sopra evidenziati.

Sara S. chiede
martedì 03/04/2018 - Puglia
“Con contratto del 01.05.2017 ho dato in locazione ad uno Studio Medico con 3 medici convenzionati in medicina generale con il Sistema Sanitario Nazionale(cc.dd. medici di famiglia un immobile diverso dall'uso abitativo, e denominato "CONTRATTO DI LOCAZIONE USO STUDI MEDICI" per la cosiddetta "Medicina di Gruppo". Il canone d'affitto era di €. 1.330,00 per mese.
Al punto 1) delle pattuizioni detto : "La locazione avrà durata di 6 anni a partire dal 01.05.2017 e terminerà il 30.4.2023".
Al punto 4) delle pattuizioni è detto: "I conduttori potranno recedere dal presente contratto di locazione con preavviso di 3(tre mesi) con lettera raccomandata con r.r. al locatore".
Dopo 8 mesi, con lettera raccomandata del 19.12.2017 i conduttori comunicano di recedere dal contratto di locazione ai sensi del citato punto 4) del contratto, dando il preavviso di 3 mesi a scadenza 31.03.2018.
Il motivo del recesso è dovuto al fatto che gli stessi medici si trasferiscono in un altro immobile ad un canone inferiore rispetto a quello del contratto vigente, ossia ad €. 1.000,00 mensili rispetto a €. 1300,00 della locazione del mio immobile.
Io scrivo ai medici che il contratto di locazione è fatto per 6 anni, essendo nulle clausole contrattuali per una durata diversa o comunque inferiore e comunque non per giusti motivi. Di certo non avrei affittato l'immobile per 11 mesi, peraltro pittato e rimesso a nuovo allo scopo.
Dal 01.04.2018 effettivamente i medici lasciano il mio immobile e comunicano con sms di aver lasciato l'immobile libero da persone e cose e di voler consegnare le chiavi.
Domando:
1-. posso rifiutarmi di ricevere le chiavi dell'immobile e pretendere la continuazione della locazione?
2-. come agire giudizialmente, direttamente al giudice, oppure con la negoziazione, ecc., o fare un Decreto Ingiuntivo per il mancato pagamento della pigione del corrente mese e attendere l'opposizione allo stesso con l'instaurazione del giudizio?
Saluti.

Consulenza legale i 10/04/2018
Il rapporto di locazione in oggetto rientra a tutti gli effetti nella disciplina delle locazioni ad uso diverso dall’abitazione, contenuta negli articoli 27 e seguenti della cosiddetta “Legge sull’equo canone” (L. n. 392/1978), essendo l’immobile locato utilizzato per lo svolgimento abituale di attività professionale.

L’articolo 27 della citata legge, relativo alla durata della locazione, stabilisce in particolare che “E' in facoltà delle parti consentire contrattualmente che il conduttore possa recedere in qualsiasi momento dal contratto dandone avviso al locatore, mediante lettera raccomandata, almeno sei mesi prima della data in cui il recesso deve avere esecuzione”.

Dalla lettera dell’articolo, come si vede, si comprende che non esiste una durata minima inderogabile del contratto, tale per cui le parti (o almeno l’inquilino) sono vincolate alla locazione e non possono recedere prima di una certo termine: al contrario, le parti possono accordarsi (come è stato fatto nel caso in esame) nel senso di consentire al conduttore di recedere liberamente dal rapporto in qualunque momento (ovviamente nel rispetto del termine di preavviso, stabilito dalla legge o pattuito).

Nonostante la norma parli espressamente di preavviso di “almeno” sei mesi, si ritiene tuttavia concordemente che – poiché lo spirito complessivo della legge è quello di garantire la più ampia tutela al conduttore, inteso come parte contrattuale “debole” (l’art. 79 della legge dice che “E' nulla ogni pattuizione diretta (…) ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello previsto dagli articoli precedenti ovvero ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della presente legge”) - il termine in questione possa essere liberamente derogato in favore del conduttore stesso.
Pertanto, le parti sono libere di stabilire un termine di preavviso più breve di quello legislativo di sei mesi.

Per tornare al quesito, dunque, purtroppo la clausola contrattuale che stabilisce un preavviso di soli tre mesi a favore dei conduttori è assolutamente valida e legittima: i medici che hanno già liberato l’immobile non possono essere costretti a prolungare la durata della locazione, né a pagare oltre tre mensilità di canone.

E’ evidente, poi, che qualora essi siano rimasti morosi di qualche mensilità (ad esempio non abbiano corrisposto, in tutto o in parte, le tre mensilità di preavviso) si potrà agire nei loro confronti direttamente con un’ingiunzione di pagamento, senza attivare preventivamente la mediazione (obbligatoria in materia di locazione). Solamente qualora il decreto ingiuntivo così ottenuto dovesse essere opposto allora il Giudice assegnerà termine alle parti per l’esperimento della mediazione, con sospensione provvisoria del procedimento in attesa della definizione di quest’ultima.


Paolo L. chiede
sabato 10/03/2018 - Toscana
“Ho in corso un contratto di locazione di immobile commerciale che al paragrafo "durata" recita: "La locazione ha durata di anni 6, ovvero dal 1° luglio 2006 al 30 giugno 2012 con rinnovazione tacita se nessuna delle parti comunicherà disdetta, almeno sei mesi prima della scadenza, con lettera raccomandata. il conduttore, decorsi due anni di locazione, ha facoltà di recedere anticipatamente ai sensi dell'art. 27, 7°comma della legge 392/78, con preavviso di 6 mesi.".
La mia domanda è se potete spiegarmi in che situazione sono. Direi che si tratta di un contratto a termine, di durata 6 anni che poteva essere rinnovato per altri sei anni tacitamente, e questo è avvenuto; adesso, trascorsi 6 + 6 anni il contratto è terminato ed ognuno è libero, il proprietario può quindi disporre del fondo E' giusta la mia interpretazione? oppure il conduttore può tacitamente rinnovare all'infinito senza che il proprietario possa mai più disporre del fondo? Mi sembra una situazione francamente sbilanciata tutta a favore di una parte, ed il contratto iniziale da me citato sembra chiaro quando afferma che la durata è di anni 6 tacitamente rinnovabile per altri 6. Dopo di chè basta, non c'è nessuna previsione di altri rinnovi. Un contratto di durata dodici anni insomma, 6 + 6. Grazie della vostra risposta.”
Consulenza legale i 16/03/2018
Anche se non è scritto nel quesito, è intuibile dal testo del contratto che la disciplina applicabile a questa locazione (di tipo non abitativo) sia la legge n. 392/1978, cosiddetta legge sull”equo canone”.
Si distinguono infatti due macro tipologie di locazioni: quelle di immobili urbani adibiti a uso abitativo (soggette alla legge n. 431/98 che ha parzialmente abrogato la legge n. 392/78) da quelle ad uso diverso dall’abitazione, cui sono applicabili le disposizioni di cui agli artt. 27 seguenti della citata legge sull’”equo canone” (n. 392/1978), non abrogate dalla legge n. 431/98.
La disciplina generale sulle locazioni di cui al codice civile, invece, si applica solamente in via residuale, ovvero quando si tratti di immobili urbani non compresi o esclusi dalle ipotesi elencate dalle due leggi di cui sopra (ad esempio un'autorimessa).

La legge sull’”equo canone”, in merito alla durata del contratto, stabilisce una durata minima di 6 anni, rinnovabili.
Attenzione, tuttavia, che l’art. 28, specifico sulla rinnovazione del contratto, stabilisce un rinnovo automatico e continuativo, salvo disdetta. La norma recita infatti: “(…) il contratto si rinnova tacitamente di sei anni in sei anni, (…); tale rinnovazione non ha luogo se sopravviene disdetta da comunicarsi all’altra parte, a mezzo di lettera raccomandata, (…) almeno 12 mesi (…) prima della scadenza”.
Ciò significa, per rispondere al quesito, che il rinnovo automatico non si verifica solo alla prima scadenza (dopo i primi 6 anni) ma altresì a tutte le successive scadenze, e così di sei anni in sei anni senza soluzione di continuità, salvo disdetta o recesso anticipato.

La clausola citata nel quesito fa riferimento alla norma della legge in commento (art. 27) che stabilisce la facoltà delle parti di consentire al conduttore il recesso anticipato dal contratto non solo dodici mesi prima della scadenza, ma in qualsiasi momento, con preavviso di soli sei mesi (il recesso al conduttore è sempre consentito, invece, con preavviso di sei mesi quando sussistano gravi motivi).
Nel caso di specie, è stato convenuto in contratto che il conduttore possa recedere con preavviso di sei mesi in qualsiasi momento, ma solo dopo due anni di vigenza del contratto (quest’ultimo, in buona sostanza, dovrà avere una durata minima di due anni).

La disciplina normativa è, in effetti, comunque sbilanciata a favore del conduttore. Il locatore, infatti, non può disdettare alla prima scadenza (ovvero prima dei primi 6 anni) se non per i motivi tassativamente previsti dalla legge in commento ed elencati nell’art. 29 della medesima.
Dalla seconda scadenza in avanti, invece, (quindi dopo 6 anni) anche il locatore – ai sensi dell’art. 28 già visto – può liberamente recedere ma, attenzione, non in qualsiasi momento ma solo dodici mesi prima della scadenza contrattuale.
Nel caso in esame è stato posto un vincolo convenzionale in capo al conduttore, ovvero egli rimane legato al contratto per almeno due anni: tuttavia, si tratta pur sempre di durata inferiore a quella di 6 anni cui è vincolato il locatore.

Ultima cosa: attenzione alla indennità da versare al momento della cessata locazione (indennità per perdita di avviamento).


N. M. chiede
domenica 07/01/2018 - Emilia-Romagna
“Salve,
faccio una breve premessa delle mie intenzioni: posseggo una società (composta da ristorante e locale da ballo) ed è mia intenzione affittare per qualche giorno a settimana il locale da ballo (compreso di tutte le attrezzature predisposte: casse musicali, postazioni bar e quindi, a detta del mio consulenti, a tutti gli effetti considerabile come azienda).
Dubbio: ho raccolto diversi pareri in giro, ma su un punto noto confusione, ossia questo. é possibile affittare l'azienda per 1 (oppure 2) giorni a settimana oppure bisogna ricorrere a strumenti differenti dal'affitto d'azienda?
qualora non fosse possibile, mi potreste cortesemente indicare uno strumento legale opportuno ad affidare la gestione del locale ad un terzo per qualche giorno a settimana?”
Consulenza legale i 10/01/2018
Nel quesito in esame il cliente riferisce di voler affittare il locale da ballo di cui è proprietario e che il detto locale è dotato di tutte le attrezzature necessarie allo svolgimento della detta attività (casse musicali, postazioni bar ecc..).

Inoltre viene riferito che l’affitto del locale vorrebbe essere limitata soltanto a pochi giorni alla settimana.

Alla luce di quanto esposto, riteniamo che, nella fattispecie in esame, si potrebbe ricorrere a due schemi contrattuali:

1) La locazione non abitativa ad uso transitorio occasionale di cui al 5° comma dell’art. 27 legge 392/1978.

Con tale contratto si può concedere in locazione l’immobile o parte di esso ad esempio per eventi privati, feste, corsi di ballo ecc.,. a uno o più conduttori.

Il relativo contratto di locazione deve essere stipulato in forma scritta nonostante sia destinato ad avere una durata di poche ore, con la indicazione dell’esigenza transitoria che in concreto ha giustificato la sottrazione del rapporto locativo al limite legale di durata (6 anni).

Se il contratto è inferiore ai 30 giorni non è soggetto all’obbligo di registrazione in termine fisso, ma solo in caso d’uso.

I requisiti richiesti sono gli stessi dei locali commerciali (conformità impianti, attestato di prestazione energetica ecc.).

L’ammontare del corrispettivo è lasciato alla libera determinazione delle parti.

Al momento della consegna sarebbe opportuno redigere un accurato verbale di consegna dell’immobile con la descrizione dello stato di conservazione di pareti, pavimenti, arredi, attrezzature ecc. e farsi rilasciare un importo a titolo di deposito cauzionale a copertura di eventuali inadempimenti contrattuali e soprattutto di possibili danni pur involontariamente provocati all’immobile.

2) Il contratto d’uso di spazi attrezzati.

Il contratto d’uso di spazi attrezzati è un contratto con il quale il titolare di un immobile mette a disposizione uno spazio attrezzato e una serie di servizi funzionali e connessi con l’uso dello spazio concesso in uso.

La particolarità di tale tipologia di contratto è data dal fatto che, oltre al semplice uso dei locali, il cliente può usufruire anche dei servizi.

Il detto contratto, difatti, viene utilizzato nel caso in cui, oltre ad offrire un locale o un’area, si fornisce al cliente una serie di servizi senza i quali lo spazio perderebbe la sua utilità.

Elementi principali del contratto d’uso di spazi attrezzati sono:
- la descrizione dello spazio;
- la descrizione dei servizi offerti;
- il corrispettivo;
- la durata;
- il recesso;
- le modalità di accesso allo spazio;
- gli obblighi dei clienti che dovranno consistere nel rispettare le regole di buon comportamento all’interno dei locali e nel non compiere attività illecite mediante l’uso dello spazio e dei servizi;
- la limitazione di responsabilità del titolare, il quale non sarà responsabile per l’attività compiuta dal cliente nei suoi locali e non risponda per furti o per i danni relativi alle cose dei clienti.
- la cauzione.

A nostro parere, nel caso in esame, sarebbe più opportuno ricorrere alla seconda tipologia contrattuale indicata e cioè al contratto d’uso di spazi attrezzati considerato che Lei metterebbe a disposizione del conduttore non solo la sala da ballo ma anche tutte le attrezzature necessarie per lo svolgimento della relativa attività (casse musicali, postazioni bar ecc..).

Con tale tipologia di contratto, inoltre, potrebbe concedere in uso la sala solo per pochi giorni alla settimana, come da Lei richiesto.

La durata, infatti, come detto, può essere concordata liberamente dalle parti e può essere anche di solo poche ore, giorni, mesi.


Gianpaolo G. chiede
venerdì 09/12/2016 - Emilia-Romagna
“Buongiorno Signori Avvocati, 3 anni fa ho affittato il mio immobile, che è un capannone industriale, a "Mario", il mio affittuario svolge nel capannone l' attività di falegnameria e ha 5 - 6 dipendenti come operai.
Mi viene pagato l' affitto regolarmente, il mio capannone è stato oggetto di condono edilizio nel 1985, e nel 2006 ha ottenuto la " Sanatoria" dal comune, con la " Sanatoria" io credendo di essere in regola al 100 % affittavo l' immobile.
Ultimamente il mio inquilino, mi ha chiesto " l' Agibilità" per delle pratiche che lui deve fare.
Io mi sono riletto la Sanatoria, che costituisce anche Agibilità, ma poi specifica, che comunque, il mio immobile deve allacciarsi, alle fognature, del Comune.
Il mio immobile ha sempre risolto i problemi dei 2 bagni, con una vasca Imof, per il solido, e per le acque reflue, ci sono delle tubature, interrate che vanno a disperdere sotto terra queste acque.
La spesa per fare l' allaccio alle fognature del Comune è molto ingente, anche perche l' immobile è in aperta campagna.
Il mio problema è il seguente, sono comunque in regola avendo la Sanatoria rilasciatami dal Comune?
E se qualcuno dei dipendenti della falegnameria, si dovesse fare male, io come proprietario dell' immobile cosa rischio sia come Codice Penale, sia con il Codice Civile?
Per il Civile, eventualmente ci fossero rischi di un mio coinvolgimento, Voi mi consigliate eventualmente di fare una Assicurazione che copre tali incidenti, e che paga, gli eventuali danni?”
Consulenza legale i 16/12/2016
La locazione di immobili urbani ad uso diverso da quello abitativo trova la propria disciplina fondamentale nella Legge 27 luglio 1978 n. 392, ed in particolare negli artt, 27 e ss.
Pertanto, le norme del codice civile troveranno applicazione solo per colmare eventuali lacune di tale disciplina o per espresso rinvio della medesima.
Si parla di uso diverso da quello abitativo quando l’immobile locato viene adibito all’esercizio di una delle attività di cui al primo comma dell’art. 27 (attività industriali, commerciali, artigianali, di interesse turistico, di lavoro autonomo) ovvero ad una di quelle attività elencate dall’art. 42; nel caso di specie, dunque, trattandosi di attività di falegnameria, il riferimento sarà all’art. 27 Legge 392/1978.
Tra le norme codicistiche di sicura applicazione vi è invece quella contenuta nell’art. 1575 c.c., rubricato “Obbligazioni principali del locatore”, la quale dispone che il locatore deve mantenere la cosa locata in stato da servire all’uso convenuto, mentre chiarisce il successivo art. 1578 c.c. che se al momento della consegna la cosa locata è affetta da vizi che ne diminuiscono in modo apprezzabile l’idoneità all’uso pattuito, il conduttore può domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, salvo che si tratti di vizi da lui conosciuti o facilmente riconoscibili.

Costituisce opinione pacifica quella secondo cui, affinché sia rilevante ai fini della garanzia prevista dall’art. 1578 c.c., il vizio debba inficiare parzialmente la possibilità di godimento secondo l’uso contrattuale convenuto, in quanto la fattispecie di totale impossibilità di godimento può comportare la risolubilità del contratto per impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 c.c. ovvero, se tali vizi concretino l’originaria impossibilità del godimento, l’ipotesi di radicale nullità del contratto di locazione.

Tale tesi è avvalorata dalla previsione di cui all’art. 1579 c.c., che priva di effetto il patto di limitazione della responsabilità del locatore in ogni caso in cui i vizi sono tali da rendere impossibile il godimento della cosa, anche nell’ipotesi in cui il conduttore conoscesse i detti vizi, proprio perché in tal caso il regolamento negoziale non può attuarsi (se sopravvenuti) né poteva sorgere (se originari e preesistenti alla conclusione del negozio).
Ciò posto, va ora precisato che costituisce opinione pacifica sia in dottrina che in giurisprudenza quella secondo cui la mancanza di agibilità/abitabilità di un immobile deve configurarsi quale vizio della cosa locata ex art. 1578 c.c.

Infatti, il certificato di agibilità, previsto e disciplinato dal T.U. dell’Edilizia (D.P.R. 380/2001), che ha abrogato il D.P.R. 425/1994, riveste un ruolo di primaria importanza nella attestazione della assenza di vizi dell’immobile, avendo appunto la funzione di attestare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti (così art. 24 D-P-R- 380/2001).

Da tempo in giurisprudenza si è andata affermando la tesi che attribuisce al locatore l’obbligo di procurare il certificato di agibilità dell’immobile, previsto come si è poc'anzi detto a tutela delle esigenze igieniche e sanitarie attraverso l’accertamento pubblico dell’esistenza delle condizioni di stabilità e sicurezza di un edificio.
Nel quadro della normativa contrattuale i relativi obblighi di adeguamento sono posti a carico del locatore, giusta il disposto degli artt. 1575 e 1617 c.c., dovendosi garantire che il bene sia idoneo all’uso cui è contrattualmente destinato.
In particolare, costituisce orientamento costante della Suprema Corte di Cassazione quello secondo cui, in presenza di contratto di locazione, il vincolo che impone di procurarsi il certificato deve ritenersi incombere al locatore quale proprietario e comunque titolare del potere di disposizione sulla cosa (in tale senso tra le altre Cass. 16 giugno 2008 n. 16216, che conferma precedenti pronunce sul tema).

Ultimamente tale onere del locatore è stato per certi versi rimodellato, precisandosi che, salva sempre l’ipotesi in cui il locatore abbia espressamente assunto lo specifico obbligo di ottenere l’agibilità, il suo inadempimento si configurerebbe solo allorchè l’inagibilità attenga a carenze intrinseche o dipenda da caratteristiche proprie dell’immobile locato, tali da non consentire il lecito esercizio dell’attività del conduttore conformemente all’uso pattuito (Cass. Civ. 16/06/2014 n. 13651).
In quest’ultima ipotesi può senza dubbio farsi rientrare la fattispecie delineata nel caso che si esamina, poiché il mancato allaccio alla rete fognaria pubblica non può non influire sul lecito esercizio dell’attività svolta nel capannone, secondo l’uso pattuito nel contratto di locazione.

Alla domanda se ci si può ritenere in regola a seguito del rilascio della concessione in sanatoria contenente tra l’altro anche l’agibilità, si ritiene infatti debba darsi risposta negativa allorchè l’allaccio alla rete fognaria pubblica sia stato posto quale prescrizione al cui adempimento subordinare l’efficacia della concessione medesima e, conseguentemente, della agibilità dell’immobile.
A tale riguardo va detto che l’art. 35 co. 20 L. 47/1985 dispone che a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità, anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari e qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli infortuni.
In applicazione di tale norma molte amministrazioni comunali in tutta Italia seguivano la prassi di rilasciare il certificato contestualmente al rilascio della concessione edilizia in sanatoria, senza effettuare alcuna verifica preventiva in ordine alle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile sanato.

Tale prassi è stata posta al vaglio della Corte Costituzionale investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 35 co. 20 L. 47/85, norma che è stata ritenuta costituzionalmente legittima, ma con la precisazione tuttavia da parte della stessa Consulta che l’amministrazione, a seguito del rilascio della concessione in sanatoria dovrà sempre procedere ad una verifica delle condizioni igienico-sanitarie prima di concedere l’abitabilità dell’edificio condonato.
Sulla scorta di tale interpretazione la P.A. dovrebbe procedere ad un controllo più incisivo esteso all’accertamento dell’inesistenza di tutte le cause di insanabilità dell’edificio, sia esso a destinazione abitativa o industriale.

Pertanto, sulla scorta di quanto appena detto e ritornando al caso in esame, l’agibilità, seppure costituente parte integrante del provvedimento di concessione edilizia in sanatoria, è subordinata ad una condizione ben precisa, ossia l’allaccio alla rete fognaria pubblica, con la conseguenza che solo al verificarsi di tale condizione potrà esplicare piena efficacia e costituire valido titolo da produrre per qualsivoglia pratica.
In conformità poi a quanto previsto dal D.L. n. 69/2013, c.d. “decreto del fare” proprio in materia di certificato di agibilità, può dirsi che il verificarsi di tutte le condizioni previste perché un immobile sanato o non possa conseguire i requisiti di agibilità può essere autocertificato da un professionista abilitato.

Va comunque ulteriormente precisato che la mancanza di agibilità dell’immobile per mancato allaccio alla rete fognaria può soltanto comportare profili di responsabilità civile per violazione di quanto prescritto dagli artt. 1575 e 1578 c.c. sopra richiamati, mentre nessuna responsabilità può comportare in ordine ad eventuali danni occorsi ai dipendenti dell’azienda svolgente nel capannone l’attività di falegnameria, dandosi per presupposto che quest’ultima detenga l’immobile sulla base di contratto regolarmente registrato.

Di tali eventuali danni unico responsabile sarà il titolare dell’azienda datrice di lavoro, e ciò in virtù di quanto chiaramente disposto dall’art. 2087 c.c., ai sensi del quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Pertanto, non si reputa necessario stipulare alcuna assicurazione per tale finalità.

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