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Articolo 1321 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Nozione

Dispositivo dell'art. 1321 Codice Civile

(1)Il contratto [1173](2) è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale [1174, 1322](3).

Note

(1) Sotto il profilo dogmatico il contratto appartiene al novero dei negozi giuridici, che possono essere definiti come dichiarazioni con le quali si esplicitano gli scopi che si vogliono perseguire e alle quali l'ordinamento ricollega tali effetti purché siano meritevoli di tutela.
(2) Con il concetto di parte non si intende un soggetto singolo ma un centro di interessi che, quindi, può essere costituito anche da più soggetti. È essenziale che ci siano almeno due parti altrimenti si è in presenza di un atto unilaterale (1324 c.c.).
(3) Con il contratto le parti intendono regolare degli interessi producendo precisi effetti giuridici. Tali interessi devono essere patrimoniali perchè si possa parlare di contratto: non è un contratto, ad esempio, il matrimonio.

Ratio Legis

Il legislatore sceglie di dare una definizione di contratto (ciò che non fa con altre figure affini, come, ad esempio, il negozio giuridico) in quanto esso rappresenta figura essenziale del codice e del nostro sistema giuridico.

Brocardi

Contractus
Contractus est ultro citroque obligatio
Est pactio duorum pluriumve in idem placitum consensus
Pactum est duorum consensus atque conventio
Stipulatio est verborum conceptio, quibus is, qui interrogatur, daturum facturumve se, quod interrogatus est, responderit

Spiegazione dell'art. 1321 Codice Civile

Funzione sociale del contratto

La concezione individualistica destina il contratto ad assolvere esigenze egoistiche, e ne ripone la funzione nell'utilità che è suscettibile di apportare ai contraenti; per essa i1 contratto si giustifica come rapporto obbligatorio, in quanto serve ad aumentare o a diminuire la sfera della libertà e della proprietà dell'individuo, la sua potenza economica e giuridica. In un ordinamento, però, in cui l'attività dei singoli assume una immanente destinazione a scopi di ordine superiore, è chiaro che il contratto diviene espressione di un interesse particolare che riflette l'interesse collettivo, si profila quale strumento di libertà giuridica dell'individuo coordinata ai bisogni del complesso sociale, quale mezzo di attuazione della cooperazione delle attività individuali per il raggiungimento dei fini sociali ammessi dall'ordinamento giuridico. Pure in un sistema che concede diritti soggettivi soltanto per la realizzazione delle finalità generali il contratto, dunque, potrebbe mantenere una sua funzione giuridica.

Già sotto l'impero del codice del 1865, per l'impulso dello spirito sociale che andò animando anche l'ordinamento giuridico liberale, si era ritenuto che il contratto dovesse intendersi come mezzo giuridico per l'attuazione di quello scambio di prestazioni e di servizi che alimenta il complesso sociale, e perciò si era sostenuto che, mediante il contratto, i singoli combinano le loro forze; cooperando ad assicurare la conservazione e lo sviluppo della collettività organizzata. Proclamato il principio di prevalenza dell'interesse generale, la dottrina aveva potuto affermare che la generica concessione della tutela dell'ordinamento giuridico alla volontà privata esprimentesi nel contratto, dipendeva dalla valutazione dell'utilità sociale connessa ai fini perseguiti dai privati; ma è noto che tale concezione si ergeva prevalentemente sui criteri politici che presiedevano all'indirizzo della vita giuridica della Nazione, e pertanto non doveva soddisfare il giurista.

La funzione sociale del contratto oggi, invece, può costruirsi su basi di diritto positivo. Soccorre, all'uopo, l'art. 1321, il quale pone, al riconoscimento dei contratti innominati, la condizione che essi realizzino interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico.

La concezione che ne deriva ammette che si possano conseguire, mediante il contratto, scopi di interesse particolare solamente se questi scopi possono sistemarsi in una sfera d'interessi d'ordine superiore. Entro tali limiti il contratto è strumento giuridico dell'attività economica individuale. E’ strumento di cooperazione e di collaborazione fra gli individui, ma nel contempo è espressione dell'iniziativa privata, dalla quale trae impulso e svolgimento anche la vita dell'economia.

Cooperazione e collaborazione non è però comunione di interessi; in modo che anche la nozione del contratto, nella costruzione derivata dal nuovo codice, siede sul presupposto del naturale contrasto economico e giuridico fra le parti, e sulla composizione che tale contrasto riceve nel rapporto creato dal contratto. Infatti, è naturalmente insopprimibile una contrapposizione fra gli interessi dei contraenti quando le conseguenze del rapporto contrattuale si riflettono nella sfera di ciascuna delle parti con effetti opposti e antagonistici; e d'altra parte, anche se tale conflitto è meno appariscente, come nell'ipotesi considerata nell'art. 1420 (per cui, come vedremo sub n. 5, si rimane nell'orbita contrattuale), in effetti ciascuna parte muove ugualmente da diversi e contrastanti punti che, se si compongono nella determinazione di uno scopo comune, per l'intrecciarsi degli obblighi e dei diritti reciproci, si ripercuotono ugualmente con effetti contrapposti.


Nozione del contratto secondo il nuovo codice

La determinazione del concetto di contratto, sotto l'impero del codice del 1865 ebbe a suscitare i più vivi dibattiti. La sua distinzione dal concetto di convenzione, del quale avrebbe dovuto intendersi come una particolare specie (Pacifici Mazzoni), la sua identificazione col concetto di negozio giuridico bilaterale (Coviello N., Bonfante, Pacchioni, De Ruggiero) e la sua considerazione restrittiva come negozio a contenuto patrimoniale (Scuto), costituirono sempre altrettante direttive di una polemica, non di rado risolventesi in una critica della definizione adottata dall'art. #1098# del codice del 1865.

Il nuovo codice, fra tanto dissidio, fisse del contratto una nozione tecnica, volendo precisare iL campo di applicabilità diretta delle norme per esso dettate e che agli altri negozi bilaterali possono estendersi soltanto per analogia, in vista della forza espansiva che sono suscettibili di sviluppare (art. 1324). Quanto meno nei limiti in cui possa condizionare l'applicazione di una serie di altre disposizioni, la dottrina deve riconoscere valore alla definizione dell'art. 1321 e deve ricercare l'estensione che questa conferisce al concetto di contratto, senza isolarsi dietro il dogma del carattere non vincolante delle norme definitorie, oggi ritenuto spoglio di valore assoluto e suscettibile quindi di una valutazione attenuata.


a) Negozio a carattere patrimoniale; differenza dai negozi di diritto familiare

Il contratto è stato configurato nell'art. 1321 come negozio a carattere patrimoniale. Tale configurazione si adegua alla norma dell'art. 1174, la quale ritiene essenziale all'obbligazione (di cui il contratto è una fonte: art. 1173) la patrimonialità della prestazione (il contratto però può anche rivestire rapporti con effetti reali: art. 1376 e segg., 1350, n. 1 a 5; 2643, n. 1 a 5); d'altra parte la disciplina apprestata per il contratto, così nel nuovo, come nel vecchio codice, non potrebbe integralmente convenire se non a rapporti a contenuto patrimoniale.

I rapporti patrimoniali sogliono contrapporsi a quelli familiari. Ora, in relazione a questi ultimi la volontà individuale non è capace di produrre effetti giuridici, come riguardo ai rapporti patrimoniali; per cui non soltanto è impossibile spaziare in una varietà indefinita di forme negoziali a carattere familiare, come per i negozi patrimoniali, che non sono di numero chiuso, ma non è efficiente un'indagine sulla volontà degli interessati che si diriga a ricercare l'intento pratico comune prescindendo dallo schema predisposto dalla legge. Non è convincente l'opinione che nega l'applicazione del concetto di causa ai negozi di diritto familiare dopo la precisa affermazione della sua compatibilità anche nei. negozi di diritto pubblico e la sua specifica estensione al matrimonio, in modo che, la circostanza che il contratto esige imprescindibilmente una causa, non consente di attribuire, al rapporto contrattuale, autonomia di concezione rispetto a quello familiare. E’ invece
indiscutibile che la disciplina del contratto non è preordinata con riguardo a rapporti che, come quelli di diritto familiare, si possono costituire ed estinguere indipendentemente dalla volontà di chi è destinatario dei suoi effetti; nei quali, sul momento del diritto predomina quello del dovere; nei quali, al dovere non corrisponde in generale un diritto del destinatario degli effetti; nei quali, al titolare del dovere si pongono dei diritti non riferibili al suo interesse, in funzione della idoneità di lui ad adempiere al dovere, di massima non esercitabili mediante rappresentante. A tali rapporti non si può certo conferire la natura del contratto (v. sui negozi di diritto familiare, ancora, ultra,sub art. 1323, n. 3).


b) Negozio tra più di due parti

Altro aspetto che è opportuno cogliere nella definizione dell’art. 1321 riguarda la configurazione del contratto quale negozio fra «due o più parti» anzichè fra «due o più persone», come si diceva nell'art. #1098# del codice civile del 1865.

Parte è un centro di interessi; e la sua nozione si costituisce, così con riferimento ad un solo soggetto giuridico (parte semplice), come in relazione a più soggetti (parte plurima). In quest'ultimo caso gli interessi singoli si presentano unificati, si dispongono cioè e si tutelano
quale interesse unico; le dichiarazioni di volontà che si esprimono nel contratto saranno, ben vero, nel caso di parte plurima, tante quanti sono i soggetti che compongono la parte, ma la loro direzione è una sola.

Talvolta, tuttavia, alla pluralità di soggetti che costituiscono una parte, non corrisponde una pluralità di interessi unificati: ciò si verifica quando vi è necessità di integrare la capacità dell'unico titolare (emancipato o inabilitato e suo curatore) o per le esigenze della sua rappresentanza (procura congiuntiva).

Sotto 1'impero del codice del 1865, il contratto era considerato come negozio bilaterale dalla dottrina che del negozio plurilaterale faceva una figura a sè stante, qualificata dall’esistenza di più di due dichiarazioni (ciascuna delle quali rivolta a ciascuna delle altre parti), dalla pluralità di rapporti giuridici colleganti ciascuna parte a ciascuna delle altre, dalla eterogeneità di contenuto di tali rapporti e dalla diversità degli effetti rispetto a ciascuna parte. La nozione che emerge dall'art. 1321 esclude però che il contratto, per il nuovo codice, presupponga non più di due parti; in modo che la categoria del negozio plurilaterale è venuta ad assumere, come concetto tecnico di diritto positivo, la stessa configurazione che spetta al negozio bilaterale con con-tenuto patrimoniale. Il negozio plurilaterale, se pur dogmaticamente può ispirare l'idea di una figura autonoma, dal lato della disciplina legislativa è oggi da ritenersi un contratto; con che non si dice che particolari suoi atteggiamenti non possano far divergere dalla disciplina del contratto, in quanto si ritenga che essa sia stata predisposta esclusivamente con riguardo ad un rapporto fra due sole parti (arg. articoli 1420, 1446, 1459, 1466).

L'art. 1321, accennando ad un accordo fra più di due parti, non può essersi riferito se non al c. d. negozio plurilaterale, perchè, quando un rapporto contrattuale si forma fra più di due parti, ciascuna e portatrice di un proprio interesse, e perciò non è da pensare che il nuovo codice abbia potuto alludere ad una fattispecie di negozio fra più di due parti dal quale non derivi una pluralità di rapporti: lo prova la circostanza che sono disciplinati fra i contratti il sequestro convenzionale (art. 1798 e segg.), già ritenuto negozio plurilaterale, e la cessione dei beni ai creditori (art. 1977 e segg.), che nella qualifica di negozio plurilaterale avrebbe dovuto sistemarsi alla stessa stregua del concordato amichevole stragiudiziale. Quanto all'estremo della eterogeneità degli effetti che scaturirebbero dal negozio plurilaterale in relazione alla varietà dei rapporti regolati, esso sembra compatibile con la figura del contratto delineata nell'art. 1321, non soltanto perchè qui non è espressamente richiesto che da un contratto debbano derivare conseguenze giuridiche omogenee, ma perchè, in realtà, non si intende la ragione per la quale detta omogeneità debba elevarsi a requisito essenziale del contratto quando è possibile che i vari effetti siano dominati da una causa unica: se alla pluralità di effetti corrisponde una plura­lità di cause, vi sarà pluralità di negozi, della cui natura dovrà discutersi caso per caso.


Il contratto plurilaterale: critica della dottrina che lo configura come atto collettivo

Nella nozione del contratto rientra, secondo l'art. 1420, pure il negozio con più di due parti in cui le prestazioni di ciascuna son dirette al conseguimento di uno scopo comune: ciò è menzionato esplicitamente nel predetto art. 1420 e nei correlativi articoli 1446, 1459, 1466, ed è riconfermato negli articoli 2247 e 2602 a proposito della società e del consorzio, che vanno ricondotti alla figura generale regolata nell'art. 1420, e che sono qualificati dal codice come contratti.

Non sembra che, in via interpretativa, possa negarsi al tipo di negozio descritto nell'art. 1420 la natura contrattuale che questo gli attribuisce, se, come si è detto (v. supra n. 2), il contratto è una nozione di diritto positivo.

Si è tuttavia parlato di atto collettivo anzichè di contratto. Ma l'atto collettivo presuppone un accordo fra una pluralità di soggetti per la formazione di una volontà unica, e quindi per una dichiarazione che, a seconda dei casi, può avere i caratteri di negozio unilaterale (perfetto) di dichiarazione unilaterale (diretta alla formazione di un negozio), e che in ogni ipotesi riflette la sua efficacia anche al di la della sfera di coloro che hanno concorso a formarlo; per converso l'art. 1420 presuppone dichiarazioni dal cui concorso risulta sempre un negozio giuridico perfetto e dalle quali sorge un vincolo reciproco fra le persone che le hanno espresse, diretto ad assoggettare la libertà, giuridica di ciascuna all'interesse di tutte le altre, e quindi all'interesse comune. In altri termini, mentre dall'atto collettivo promanano manifestazioni unificate (v. sub art. 1332, n. 2) suscettibili di appropriazione da parte dei soggetti che non hanno partecipato alla sua formazione, nella fattispecie alla quale si riferisce l’art. 1420 si hanno manifestazioni che esauriscono la loro efficacia nell'ambito delle persone che hanno partecipato alla formazione dell'atto giuridico. Di più, l'atto collettivo si basa su una situazione giuridica di interesse comune già precostituita, mentre il rapporto enunciato nell'art. 1420 mira anche a creare questa comunione di interessi.


Il contratto di società come contratto plurilaterale

La dottrina che assimila all'atto collettivo il contratto di cui all'art. 1420 non sembra meglio persuasiva se la si considera in relazione alto schema del contratto di società, che dovrebbe invece fornirne la piena dimostrazione.

Base della teoria anticontrattualista è l'affermazione di una incom­patibilità fra la struttura del rapporto contrattuale e quella del rapporto sociale, che non esige unanimità di consensi ed anzi può essere dominato dal principio maggioritario, che non pone i contraenti in antagonismo di interessi, che ammette mutamenti nei soggetti originari o per l'entrata di altri soci o per l'alienazione della partecipazione, che si può risolvere in un rapporto fra persone vicendevolmente sconosciute, attesa la possibilità, nella società per azioni, di incorporare la posizione di socio in un titolo al portatore. Procedimento di indagine per gli scopi della teoria predetta, è soprattutto l'analisi portata alla struttura della società per azioni e, in particolare, al modo di formazione successiva della società stessa.

Questo procedimento è di dubbia validità perchè la società per azioni e un tipo di società non la società tipica e perchè il processo di formazione successiva della società azionaria e il meno usato; ma, di più, non sembra che possa condurre a risultati convincenti.

La formazione successiva della società per azioni avviene con la partecipazione dei soli intervenuti nell'assemblea costituente perchè costoro hanno la rappresentanza degli assenti (art. 2336). Nel dissenso circa il contenuto secondario del contratto definitivo e circa la modifica dell'atto costitutivo prevale il volere della maggioranza, non perchè si prescinde dalla volontà della minoranza, ma perchè, con la sottoscrizione delle azioni e la costituzione del rapporto definitivo i sottoscrittori e gli azionisti hanno consentito a considerare come volontà propria quella che esprimerà, la maggioranza, nei limiti in cui questa sia conforme alla legge o allo statuto; in modo che la volontà della maggioranza è volontà anche dei dissenzienti per l'anticipata rimessione che ad essa è stata fatta, e che rende privo di effetto il dissenso successivamente manifestato. Perciò i1 principio maggioritario non sta per nulla in opposizione a quello del consenso.

L'antagonismo di interessi fra i soci è evidentissimo, in via generale, in base alle disposizioni degli articoli 2253 e segg. che pongono rapporti fra soci (come si rileva dall'intestazione della sezione), quindi obbligazioni di un socio verso l'altro, quindi pretese di un socio verso l'altro, riguardanti anche il periodo successivo alla formazione della società (esempio, debito di conferimento). In via particolare, l'opposizione di interessi deve constatarsi come permanente, ad esempio, nei casi in cui vi è un gruppo di soci con diritto ad una maggiore quota di utili o al voto limitato, e come eventuale nei casi di violazione della legge o dell'atto costitutivo, che da diritti di impugnativa appunto in vista di un'opposizione di interesse fra minoranza e maggioranza nell'orbita del rapporto comune.

Nè ripugna al contratto la possibilità di mutamenti nei suoi soggetti (arg. art. 1406 e segg.). Che nel caso di azioni al portatore la trasmissibilità della posizione dell'azionista può ridurre il rapporto sociale a un rapporto fra persone che non si conoscono non dà argomento decisivo alla tesi anticontrattualista dato il riconoscimento legislativo del contratto per persona da nominare, che dà luogo ad una identica indeterminatezza soggettiva, per giunta originaria, eliminata dalla retroattività degli effetti, così come è eliminata, nel caso di azione al portatore, dall'esibizione del titolo.


Il contratto plurilaterale come accordo

A ben guardare, i1 contratto delineato nell'art. 1420 non è che il c.d. accordo: è infatti caratteristica di questa ultima figura giuridica quella comunione di scopi fra le parti alla quale allude l'art. 1420 predetto. Una parte della dottrina aveva respinto ogni distinzione fra contratto e accordo, sul riflesso che anche quest'ultimo è un modo d'incontrarsi di più volontà sull'identico contenuto giuridico, e che la disposizione parallela dei voleri, sostenuta per l'accordo (mentre nel contratto le volontà sarebbero convergenti), è compatibile con la figura del contratto, di cui può costituire un particolare atteggiamento.

Il nuovo codice ha accolto tale dottrina, pur ammettendo che, a motivo della pluralità dei vincoli che nell'accordo si racchiudono, della comunione di scopi che le parti intendono raggiungere, del pericolo che in alcune sue manifestazioni può costituire per l'economia pubblica (consorzi), e sotto vari altri ovvi aspetti, i1 contratto di cui all'art. 1420 meriti una disciplina parzialmente autonoma.

Questa disciplina particolare non intacca l’unità della più vasta figura di contratto che si è avuta occasione di delineate come concetto tecnico di diritto positivo; il concetto unitario così descritto si fonda sulla prevalenza di caratteri comuni nel contratto in senso stretto e nell'accordo, per cui le particolarità di quest’ultimo possono rappresentare specificazioni, non mai antinomie giustificatrici di configurazioni autonome. Nei limiti permessi dalla disciplina particolare predetta, la denominazione di accordo potrà certo sopravvivere, come indicatrice di un tipo speciale di contratto (in senso ampio).

Nelle rubriche degli articoli 1420, 1446, 1459 e 1466 si parla di contratto plurilaterale con riferimento ad un accordo fra più di due parti; ma questa pluralità di soggetti è ovviamente prevista allo scopo di regolare particolari situazioni che presuppongono la esistenza di più di due parti, non al fine di designarne una caratteristica essenziale. Infatti, qualsiasi finalità può essere comune anche solo a due parti, Tanto vero che la società può essere costituita pure da due persone: l'accordo così può essere bilaterale oltre che plurilaterale.


Contratti bilaterali e unilaterali; contratti con prestazioni corrispettive e con obbligazioni di una sola parte

Il nuovo codice, se fa accenno alla categoria dei contratti plurilaterali, tace su quelli bilaterali e sugli unilaterali; regola però i contratti con prestazioni corrispettive (articoli 1453, 1463 e 1467) e i contratti con obbligazioni di una sola parte (articoli 1333 e 1468).

Le categorie regolate hanno assorbito, rispettivamente, i contratti bilaterali e quelli unilaterali di cui agli articoli #1099# e #1100# codice del 1865. Di contratto unilaterale potrà tuttavia continuare a parlarsi a proposito dei contratti con obbligazioni di una sola parte; la denominazione di contratto bilaterale, invece, può avere ancora la sua importanza posi­tiva, soltanto se con essa si vogliono designare i contratti a due parti nei quali ciascuna assume obbligazioni che non sono in posizione di sinallagma con le obbligazioni dell'altra parte. L'accordo bilaterale può rientrare nella citata nozione di contratto bilaterale, data l’assunzione dell'accordo nella più ampia categoria del contratto.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

602 Una parte della dottrina classifica i contratti tra i negozi giuridici bilaterali, e cioè tra i negozi che si costituiscono tra due parti, qualunque sia il numero delle persone di cui ciascuna parte è costituita. Tale atteggiamento però non riscuote consensi unanimi, essendosi da taluno considerato che il codice civile del 1865, negli articoli 1098, 1697 e 1704 accenna a "più persone" in sinonimia con "più parti" (argomento dagli articoli 1698, 1701, 1702 e 1733), ed essendosi così ammesso che il contratto possa formarsi tra più di due parti e comportare più di due obbligazioni.
La definizione del contratto data nell'art. 1321 del c.c. tiene conto della possibilità che ad esso partecipino non soltanto due o più persone ma due o più parti; vale a dire ammette che il contratto possa riferirsi a due o più centri di interessi. Gli artt. 1420, 1446, 1459 e 1466 regolano poi come contratto anche il tipo di rapporto nel quale le prestazioni delle parti sono dirette al conseguimento di uno scopo comune. Lo scopo comune stringe in un fascio una serie di vincoli; ma non sempre le situazioni che operano rispetto ad un vincolo hanno riflessi su tutto il rapporto. Vi è questo riflesso e quindi, a seconda dei casi, la nullità, l'annullabilità, la rescissione o la risoluzione di tutto il contratto, solo quando il vincolo nullo, viziato o risolubile debba considerarsi essenziale per l'ulteriore esistenza del rapporto; diversamente questo vive una vita indipendente dalle vicende di ciascun vincolo, e così continua a spiegare piena efficacia anche quando venga meno uno dei vincoli che esso comprende e collega.
Secondo l'art. 1321 del c.c., inoltre, solo un rapporto giuridico patrimoniale può costituire il contenuto del contratto.
La conseguenza è che resta fuori dalla diretta disciplina del titolo secondo del libro delle obbligazioni una categoria imponente di negozi giuridici il cui contenuto non può valutarsi economicamente, come, ad esempio, i negozi di diritto familiare: questi non sono sostanzialmente omogenei rispetto agli altri che hanno un oggetto patrimoniale, e quindi anche a loro disciplina deve essere in gran parte diversa. Per tali rapporti si farà capo alle regole concernenti i contratti nei limiti in cui ciò risulti possibile; e infatti le norme stabilite per i contratti hanno una portata espansiva, come si desume dalla disposizione dell'art. 1324 del c.c., che porgerà sicuramente alla dottrina lo strumento e lo spunto legislativo per una compiuta elaborazione scientifica del negozio giuridico. Analogamente la disciplina sostanziale del contratto si estende agli accordi, salvo per ciò che concerne le particolarità che questi presentano (ad esempio, nella formazione e negli effetti).

Massime relative all'art. 1321 Codice Civile

Cass. civ. n. 15603/2021

A differenza dell'attività di interpretazione del contratto, che è diretta alla ricerca della comune volontà dei contraenti e integra un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, l'attività di qualificazione giuridica è finalizzata a individuare la disciplina applicabile alla fattispecie e, affidandosi al metodo della sussunzione, è suscettibile di verifica in sede di legittimità non solo per ciò che attiene alla descrizione del modello tipico di riferimento, ma anche per quanto riguarda la rilevanza qualificante attribuita agli elementi di fatto accertati e le implicazioni effettuali conseguenti. (Nella specie, la S.C., dopo aver sollecitato il contraddittorio sul punto, ha ravvisato uno stretto collegamento funzionale tra i due contratti di locazione oggetto di giudizio, tale da consentire una considerazione unitaria dell'intera operazione negoziale, qualificata in termini di affitto di azienda).

Cass. civ. n. 9996/2019

La qualificazione di un negozio giuridico richiede due distinte operazioni: la prima consiste nell'identificazione degli elementi costitutivi dell'attività negoziale e delle finalità pratiche perseguite dalle parti; la seconda consiste, invece, nell'attribuzione del "nomen juris", previa interpretazione sul piano giuridico, degli elementi di fatto precedentemente accertati. Di tali operazioni, mentre la seconda è soggetta al sindacato di legittimità, la prima ne è sottratta, se correttamente motivata, giacché si risolve in un apprezzamento di mero fatto, riservato al giudice di merito.

Cass. civ. n. 15469/2018

Il trust non può definirsi né "oneroso" né "operazione a contenuto patrimoniale", ove il concetto di "patrimonialità", come può desumersi dalla interpretazione della disposizione sull'imposta di registro (D.P.R. n. 131/1986), non può intendersi in senso civilistico ai sensi degli artt. 1174 e 1321 c.c. come mera "suscettibilità di valutazione economica" della prestazione bensì come prestazione, a fronte della quale figura la pattuizione "di corrispettivi in danaro" e quindi onerosa per tale ragione, non può che essere assoggettato all'imposta in misura fissa e non proporzionale in quanto l'atto devolutivo in trust è a titolo gratuito non essendovi nessun corrispettivo. Non determinandosi alcuna conseguenza economica nella sfera delle parti contraenti, ma sono esclusivamente destinati a disciplinare la gestione della proprietà in maniera radicalmente diversa da quella propria della tradizionale figura romanistica. Nel caso del trust non essendovi alcuna previsione di corrispettivo o di altra prestazione a carico del trustee, non può dunque parlarsi di "operazione a carattere patrimoniale" tale da essere soggetta all'imposta del 3% ai sensi dell'art. 9 della tariffa. E ciò vale anche per le imposte ipotecaria e catastale, giacché va ricordato che l'atto soggetto a trascrizione, ma non produttivo di effetto traslativo, in senso proprio (id. est, definitivo), postula l'applicazione di dette imposte in misura fissa ai sensi dell'art. 1 del D.Lgs. n. 347 del 1990 e 4 dell'allegata tariffa, per quanto attiene all'ipotecaria e art. 10, comma 2, del D.Lgs. 347/1990, quanto riguarda la catastale.

Cass. civ. n. 6162/2006

Qualora sia stato promesso in vendita un immobile indiviso considerato nel contratto come un "unicum inscindibile", ciascuno dei promittenti si impegna non soltanto a prestare il consenso relativo al trasferimento della quota di comproprietà di cui è rispettivamente titolare ,ma si obbliga anche a promettere il fatto altrui, cioè la prestazione del consenso da parte degli altri. Peraltro, tale obbligazione, che ha natura collettiva, non è solidale, non potendo operare il principio stabilito dall'art.1292 cod. civ., secondo cui ciascuno degli obbligati in solido può adempiere per l'intero e l'adempimento dell'uno libera gli altri, atteso che i promittenti sono in grado di manifestare il consenso relativo alla propria quota e non quello concernente le quote spettanti agli altri. Pertanto, il condebitore non inadempiente non può invocare la norma dettata in materia di obbligazioni solidali dall'art.1307 cod. civ., alla stregua del quale se l'adempimento dell'obbligazione è divenuto impossibile per causa imputabile a uno o più condebitori, il creditore può chiedere il risarcimento del danno ulteriore al condebitore o a ciascuno dei condebitori inadempienti,mentre gli altri obbligati sono tenuti soltanto a corrispondere il valore della prestazione dovuta, tenuto conto che in tal caso la responsabilità è posta a carico esclusivamente del debitore colpevole che con la propria condotta ha reso impossibile l'adempimento della prestazione da parte dei coobbligati che altrimenti avrebbero potuto eseguire liberandosi dell'obbligazione senza produrre il danno ulteriore.

Cass. civ. n. 1739/2005

In tema di promessa di vendita di un bene immobile indiviso, appartenente pro quota a più comproprietari, allorché nell'unico documento predisposto per il negozio non risulti la volontà dei comproprietari di scomposizione del contratto in più contratti preliminari relativi esclusivamente alle singole quote di cui ciascuno di loro è rispettivamente titolare, le dichiarazioni dei promittenti venditori, che costituiscono un'unica parte complessa, si fondono in un'unica volontà negoziale, sicché - quando una di tali dichiarazioni manchi - non si forma o si forma invalidamente la volontà di una delle parti del contratto preliminare con la conseguente esclusione per il promissario acquirente di ottenere la sentenza costitutiva "ex" art. 2932 c.c..

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Alessandro R. chiede
sabato 24/07/2021 - Liguria
“Oggetto : possibile contratto Rifacimento Facciata con contributo del 90%

le due parti :

- L'Assemblea del condominio

- il General Contractor che si assume l'incarico dei lavori


Dal momento che il volume dei lavori da fare non è certamente realizzabile entro il 31/12/2021 il General Contractor, che dice di poter realizzare per quella data il 45% dei lavori, propone una soluzione del tipo:

- Se dal 31/12 la nuova normativa prevederà un contributo al 75% , allora tu condominio, per la restate parte dei lavori mi pagherai Euro xxxxxx

- Se la nuova normativa prevederà un contributo al 50% , allora tu condominio mi pagherai per la restate parte dei lavori Euro yyyyyyy

Ovviamente xxxxx e yyyyyy sono superiori alla cifra iniziale prevista e legata al 90%.

Domanda 1: siamo di fronte ad un "gioco d'azzardo" visto che le nuove percentuali dipenderanno da decisioni governative ancora da prendere? E' un contratto legittimo?

Domanda 2 :Potrebbe stare in piedi un contratto che preveda:
- una clausola che preveda l’impegno, comunque, del G. C. a realizzare entro il 31/12 almeno il 45% dei lavori ?
- una clausola che preveda, quando il governo comunicherà l’eventuale nuova percentuale, la possibilità di rinegoziare gli importi, compresa la possibilità di ridimensionare i lavori, se le conseguenze per il condominio fossero troppo gravose ?

Prima mi date una risposta (o prendete un contatto con me) meglio è, perché l’assemblea dovrebbe svolgersi ai primi di agosto. I miei recapiti telefonici ed e-mail sono sopra già indicati.

Cordialmente”
Consulenza legale i 28/07/2021
Tutte le soluzioni prospettate, sia quelle indicate dal general contractor che quelle del condominio, sono giuridicamente legittime e percorribili. L’unica condizione è che si formi attorno a queste clausole il consenso di entrambe le parti contraenti ai sensi degli artt. 1321 e ss, del c.c.

Con particolare riferimento alla clausola di rinegoziazione, riteniamo che essa, oltre ad essere legittima, sia una soluzione di buon senso, tenendo conto del fatto che il Governo non si è ancora espresso in merito alla prosecuzione dei bonus fiscali e sulle modalità della loro futura fruizione.
Se, infatti, i provvedimenti che adotterà l’esecutivo in materia saranno differenti da quelli ipotizzati nel contratto le parti dovranno giocoforza rinegoziarlo, e quindi una clausola di questo tenore potrebbe evitare potenziali contenziosi.



Alfredo chiede
mercoledì 15/05/2013 - Liguria
“Scrittura privata di divisione ereditaria (concordata e firmata nel 2005 da tutti gli eredi) non ancora formalizzata da atto notarile: é un contratto? comportamenti concludenti (facta concludentia) certificati nel corso degli anni hanno efficacia contrattuale?
Grazie”
Consulenza legale i 22/05/2013
L'1350, primo comma, numero 11) c.c., prevede che gli atti di divisione di beni immobili e di altri diritti reali immobiliari debbano farsi per atto pubblico o per scrittura privata, sotto pena di nullità. Pertanto, la scrittura privata che contenga un accordo divisionale, sottoscritta da tutti gli eredi, sebbene non trascritta, risulta valida ed efficace tra le parti.
L'art. 2646 del c.c. stabilisce che si debbano trascrivere le divisioni che hanno per oggetto beni immobili (volontarie o giudiziali), ma tale previsione non incide sulla validita della divisione fatta con scrittura privata, per le seguenti ragioni.
Poiché la divisione ha natura dichiarativa (la proprietà esclusiva dei beni assegnati al condividente non rappresenta il risultato di un trasferimento delle quote indivise degli altri condomini, ma si considera acquisita a lui sin dal momento in cui la comunione è sorta) l'effetto della trascrizione, secondo la giurisprudenza dominante, è solo quello di garantire la continuità delle trascrizioni (art. 2650 del c.c.) e non l'opponibilità dell'atto ai terzi, ai sensi dell'art. 2644 del c.c.. Ad esempio, la trascrizione della divisione non è idonea a risolvere i conflitti tra l'assegnatario di un determinato bene e chi avesse acquistato diritti da altro condividente sullo stesso bene: se l'atto di alienazione fosse anteriore alla divisione, ai sensi dell'art. 757 del c.c., esso sarebbe sottoposto alla condicio iuris della assegnazione del bene al disponente (non sarebbe, pertanto, neppure trascrivibile prima di tale momento); se l'alienazione fatta da un condividente diverso dell'assegnatario fosse, al contrario, successiva alla trascrizione, l'acquirente sarebbe avente causa da un soggetto privo di titolo per costituire o trasferire il diritto.
Sul punto, si riportano, tra le altre, le seguenti decisioni:
- Cass. civ., sez. II, 2800/1985: La trascrizione delle divisioni è richiesta dall' art. 2646 cod. civ. in ossequio al principio della continuità delle trascrizioni, ma non già agli effetti di cui all' art. 2644 (opponibilità ai terzi), a meno che, per eventuali manifestazioni negoziali dei condividenti, lo scioglimento della comunione, negozio avente natura dichiarativa, non si accompagni a disposizioni che comportano effetti costitutivi o traslativi.
- Cass. civ., sez. II, 25 gennaio 2000, n. 821: La trascrizione della domanda di divisione (art. 2646 c.c.), infatti, non è richiesta per il conseguimento degli effetti di cui all' art. 2644 c.c., ma unicamente in ossequio al principio della continuità delle trascrizioni, per effetto della quale le cose assegnate al condividente vanno riconosciute, ma non esclude ogni effetto riguardo ai terzi che tale quota hanno successivamente acquistato e trascritto. La trascrizione è, cioè, prevista dalla legge ai fini di cui all'art. 1113 c.c. che riguardano il diritto ad intervenire (è richiesto che devono essere chiamati) ed a proporre opposizione; ai fini cioè di mera pubblicità notizia.
- Cass. civ., sez. II, 3 gennaio 2013, n. 78: La disposizione di cui all'art. 1113 c.c., comma 3, dettata per il giudizio divisionale avente ad oggetto beni immobili, da parte sua, individua, anche al fine di garantire la continuità delle trascrizioni nei registri immobiliari, nella trascrizione dell'atto di acquisto il momento determinante al fine di stabilire quali soggetti debbano partecipare al giudizio.

I comportamenti dei condividenti, consistenti nell'utilizzo esclusivo di ciascun bene assegnato sulla base della scrittura privata, rilevano al fine di confermare la volontà già perfettamente contenuta in tale atto scritto.
Qualora emergessero profili di invalidità della scrittura privata (si ribadisce: la forma in sé è sufficiente a rendere efficace tra le parti la divisione, ma potrebbero esservi altre cause di invalidità, ad esempio perché uno dei contraenti è stato vittima di dolo o è caduto in errore essenziale), il comportamento dei coeredi potrebbe rilevare ai fini dell'usucapione del bene assegnato mediante la divisione eventualmente invalida.
In tal senso, si riportano alcune tra le numerose pronunce che confermano tale tesi:
- Cass. civ., 12260/2002: Il comproprietario può usucapire la quota degli altri comproprietari estendendo la propria signoria di fatto sulla res communis in termini di esclusività, ma a tal fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano limitati ad astenersi dall'uso della cosa, occorrendo, per converso, che il comproprietario in usucapione ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, in modo tale, cioè, da evidenziarne una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus. Qualora, invece (...) il comproprietario - coerede sia stato, a seguito di amichevole divisione del compendio ereditario, immesso nel possesso di un bene in assenza di un contestuale atto di mandato ad amministrare da parte degli altri coeredi, egli prende, per tale via, a possedere (anche ai fini dell'usucapione) pubblicamente ed a titolo esclusivo il bene assegnatogli de facto, senza che sia necessaria una formale interversione del titolo del possesso o un'interversione di fatto, una mutazione, cioè, negli atti di estrinsecazione del possesso medesimo tale da escluderne un pari godimento da parte degli altri coeredi.
- Cass. civ., 25 marzo 2009, n. 7221: Il coerede può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri coeredi, senza che sia necessario l'interversione del titolo del possesso, attraverso l'estensione del possesso medesimo in termini di esclusività, pur essendo a tal fine non sufficiente che gli altri partecipanti si siano astenuti dall'uso della cosa, occorrendo altresì che il coerede ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus; ed invero il coerede, che è già compossessore animo proprio ed a titolo di comproprietà, non è tenuto ad un mutamento del titolo, ma solo ad una estensione dei limiti del suo possesso.
- Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2009, n. 17462: In tema di compossesso il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all'esercizio del possesso ad usucapionem, e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell'altro compossessore, risultando per converso necessario, ai fini dell'usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell'interessato attraverso una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene.
- Cass. civ., 30 giugno 2011, n. 14467: Il coerede è a un tempo comproprietario e compossessore dei cespiti ereditati e, pertanto, risulta perfettamente in grado di usucapirne l’intero a seguito del possesso ventennale, pacifico, non violento ed ininterrotto: affinché ciò accada, tuttavia, è necessario non solo il disinteresse degli altri coeredi al possesso della cosa, quanto e soprattutto l’estensione del possesso da parte del coerede, ossia il manifestarsi del suo animus possidendi in termini di esclusività, ergo di proprietà e non già di comproprietà. Il coerede, insomma, che è già compossessore animo proprio ed a titolo di comproprietà, non è tenuto ad un mutamento del titolo, ma solo ad una estensione dei limiti del suo possesso. Il coerede, nel possesso del bene ereditario comune ad altri eredi, per acquistare il bene posseduto non ha pertanto bisogno di alcuna interversione: ciò che conta è esclusivamente l’animus possidendi, il quale, lungi dal trasformare il detentore in possessore, comporta invece la mutazione “qualitativa” di un possesso che già si manifestava in termini proprietari, pur nell’ambito della comunione.
- Cass. civ., sez. II, 19 aprile 2013, n. 9633: Il coerede che, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può usucapire la quota degli altri eredi, purché il tempo necessario al verificarsi di detto acquisto risulti già decorso prima del momento in cui sia intervenuta la divisione negoziale dell'asse con gli altri comunisti, comportando tale atto un riconoscimento inequivocabile e formale della comproprietà, incompatibile, pertanto, con la pretesa di essere divenuto proprietario esclusivo del compendio assegnato.