La norma in esame si apre prevedendo la provvisoria esecutività di tutte le sentenze in forza delle quali viene disposta una condanna a favore del lavoratore per crediti derivanti dai rapporti di cui all’
art. 409 del c.p.c..
Prima della riforma dell’
art. 282 del c.p.c. ad opera della novella del 1990, questa disposizione costituiva una eccezione alla regola vigente nel rito ordinario, secondo cui la sentenza poteva essere dichiarata provvisoriamente esecutiva solo in presenza di determinate condizioni.
Secondo la tesi prevalente, la provvisoria esecutività può riguardare solo le sentenze di condanna emesse in favore del lavoratore, anche se non manca chi, argomentando dal nuovo testo dell’
art. 282 del c.p.c., ritiene che la provvisoria esecutività debba riguardare tutte le sentenze, siano esse di condanna, di accertamento o costitutive, riguardando tutte le situazioni di vantaggio, che abbiano come punto di riferimento passivo un obbligo di compimento di una prestazione.
Per procedere all’
esecuzione è sufficiente la sola copia del
dispositivo, il che comporta che l’
azione esecutiva possa essere intrapresa ancor prima del deposito della sentenza (facoltà questa concessa solo al lavoratore).
Da ciò se ne fa conseguire che al dispositivo stesso debba essere riconosciuta efficacia di
titolo esecutivo, rendendo ciò il rito del lavoro ancora più celere ed immediato (chiaramente, il dispositivo deve contenere il riconoscimento di un
credito certo, liquido ed esigibile, o comunque determinabile alla stregua di elementi contenuti nello stesso titolo).
Si ritiene che l'esecuzione in base al solo dispositivo possa essere iniziata e proseguita anche oltre il decorso del termine previsto per il deposito della sentenza ed indipendentemente dall'avvenuto deposito della stessa.
E’ stato anche affermato che l’inizio dell’esecuzione sulla sola base del dispositivo, nonostante la sentenza sia già stata depositata, determinerebbe una
nullità formale che potrebbe dar luogo ad una
opposizione agli atti esecutivi, qualora venga dimostrato un concreto interesse.
In tema di esecuzione forzata, occorre precisare che la sentenza in forza della quale viene accertato il diritto del lavoratore alla qualifica superiore con corrispondente condanna del
datore di lavoro all’attribuzione di detta qualifica, non può essere eseguita coattivamente, in quanto l’attribuzione di tale qualifica non può realizzarsi senza la necessaria cooperazione del datore di lavoro debitore.
Pertanto, in caso di condanna del datore di lavoro ad un
facere infungibile, il lavoratore dovrà offrire la propria prestazione lavorativa secondo le precise modalità che la controparte è condannata ad accettare, compresa la conservazione del diritto alla retribuzione corrispondente alla qualifica superiore per il caso in cui il datore di lavoro non ottemperi alla condanna.
In caso di condanna in favore del lavoratore, il giudice d’appello può disporre la sospensione dell’esecuzione se da essa ne possa derivare un gravissimo danno, indipendentemente dalla fondatezza dei motivi di
impugnazione.
Si esclude, in linea generale, che possano integrare gli estremi del gravissimo danno il fatto che il pagamento della somma arrechi pregiudizio alla capacità produttiva dell’azienda di far fronte alle proprie obbligazioni con i mezzi ordinari o anche il pericolo che le somme corrisposte non possano essere successivamente restituite dal lavoratore.
Il quarto comma precisa che la sospensione può anche essere parziale e che in ogni caso l’esecuzione resta autorizzata fino alla somma di euro 258,23.
Il comma successivo sancisce la provvisoria esecutività anche delle sentenze di condanna disposte in favore del datore di lavoro, per le quali si applica la disciplina di cui agli artt. 282 e 283 c.p.c.
Risulta comunque confermata la concessione al solo lavoratore della facoltà di intraprendere l’esecuzione forzata sulla sola base del dispositivo, così come anche la disciplina dell’inibitoria della sentenza differisce a seconda che l’istante sia il lavoratore o il datore di lavoro.
Infatti, se nel primo caso, in applicazione del terzo comma della norma, è prevista la necessaria ricorrenza di un
gravissimo danno, nel secondo caso il comma 6 si limita a prevedere che la sospensione possa essere concessa in presenza del più tenue requisito dei
gravi motivi.
La sospensione dell’esecuzione presuppone un’apposita istanza di parte che dovrà essere proposta con l’atto di impugnazione principale o con l’
impugnazione incidentale.
L’ultimo comma si riferisce all’istanza di sospensione proposta sia per condanne in favore del lavoratore che del datore di lavoro, disponendo che se detta istanza viene considerata manifestamente infondata o inammissibile, lo stesso giudice d’appello può, con ordinanza non impugnabile, condannare la parte che l’ha proposta al pagamento di una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250,00 e non superiore ad euro 10.000,00.
Tale disposizione si inserisce in un contesto normativo caratterizzato dall’introduzione di veri e propri ostacoli alle fasi dell’impugnazione, con evidente finalità deflattiva.
Sebbene tale ordinanza venga qualificata come non impugnabile, la stessa può essere revocata con la sentenza che definisce il giudizio.