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Articolo 960 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Obblighi dell'enfiteuta

Dispositivo dell'art. 960 Codice Civile

L'enfiteuta ha l'obbligo di migliorare il fondo e di pagare al concedente un canone periodico(1)(2). Questo può consistere in una somma di danaro ovvero in una quantità fissa di prodotti naturali [2763].

L'enfiteuta non può pretendere remissione o riduzione del canone per qualunque insolita sterilità del fondo o perdita di frutti(3).

Note

(1) Per la determinazione del canone vedasi. l'art. 1 della L. 1966 n. 607; gli artt. 2, 5 ss. della L. 1970 n. 1138; gli artt. 1 e 3 della L. 1974 n. 270. Per l'aggiornamento del canone vedasi. sent. Corte cost. 1988 n. 406. Esse fanno riferimento al c.d. reddito dominicale del fondo, la rendita, cioè, che esso procura al proprietario in conformità a criteri predisposti dall'amministrazione statale in materia di riscossione dei tributi.
Scopo della legge è mantenere la misura del canone entro limiti contenuti.
(2) Ogni altra attività finalizzata a rendere più produttivo il fondo corrisponde ad una decisione libera dell'enfiteuta.
Egli, però, non deve, qualora si sia ottenuto l'incremento economico, deteriorare la cosa.
(3) Viene esclusa ogni possibilità di remissioni o limitazioni del canone come conseguenza di una "insolita sterilità del fondo o perdita di frutti", in forza dell'indipendenza tra i diritti del concedente e dell'enfiteuta, ciascuno dei quali non può dipendere dalle vicende proprie dell'esercizio dell'altro.

Brocardi

Ad meliorandum

Spiegazione dell'art. 960 Codice Civile

Elementi essenziali dell'enfiteusi

Analogamente a quanto era previsto nel codice del 1865, anche nel nuovo codice gli elementi essenziali dell'enfiteusi sono rappresentati ancora dal miglioramento del fondo e dal pagamento del canone. Si può, quindi, dire che gli obblighi dell'enfiteuta sono rimasti invariati.


Miglioramenti del fondo

Per quanto riguarda l'obbligo di migliorare il fondo enfiteutico, non c'è dubbio che esso costituisca lo scopo più importante del contratto, specie qualora si tratti di fondi incolti. Ma occorre tener presente che non di rado si danno ad enfiteusi anche fondi già ridotti a colture. In questi casi, poiché anche il fondo già ridotto a coltura può esser sempre suscettibile di un ulteriore miglioramento, lo scopo prefisso dal contratto di enfiteusi può dirsi raggiunto quando questo ulteriore miglioramento, qualunque esso sia, venga effettivamente apportato.

La legge, del resto, parla di miglioramento in genere, senza stabilire cioè quale specie di miglioramento si richieda perché il contratto di enfiteusi possa validamente esistere.


Modalità circa il pagamento del canone

Per quanto riguarda il canone, esso, analogamente a quanto era disposto in passato, può consistere in una somma di denaro oppure in prestazioni in natura: ma per queste ultime si è abbandonata la troppo generica formula del codice del 1865 che parlava di quantità fissa di prodotti naturali, e ciò sia perché le prestazioni in natura possono consistere, oltre che in derrate, anche in prodotti naturali diversi dalle derrate stesse, sia perché si è voluto esplicitamente escludere la possibilità che la prestazione possa consistere in una quota proporzionale dei prodotti del fondo, dato che la fissazione del canone pro quota avrebbe implicato un controllo ed un'ingerenza del concedente nella gestione del fondo. Controllo e ingerenza che contrastano con la natura e l'ampiezza del diritto di cui l'enfiteuta è investito.

« Parve, infatti, troppo contrastante con la quasi proprietà dell'enfiteuta - si legge nella Relazione della Commissione reale per la riforma dei codici - un controllo ed una vigilanza del direttaio sulla gestione, quale è portata necessariamente dalla partecipazione per quota ai prodotti, e d'altro canto la prestazione di quote di frutti proporzionali al reddito lordo e non al netto è ritenuta un ostacolo all'intensificazione della produzione agraria, giacché ancor oggi il graduale aumento dei costi di produzione minaccia di assorbire il reddito ».

Infine, in conformità con quanto disponeva il vecchio codice all'art. 1559, il secondo comma dell'articolo in esame nega all'enfiteuta la facoltà di pretendere la remissione o riduzione del canone per qualunque insolita sterilità del fondo o perdita di frutti.

Va da sé però che, nel caso avvengano trasformazioni del fondo tali da giustificare la domanda, l'enfiteuta può chiedere che il canone fissato in determinati prodotti naturali sia pagato in una equivalente quantità di altri prodotti. Una tale possibilità era stata esplicitamente stabilita nel progetto della Commissione reale per la riforma dei codici: ma una tale esplicita statuizione è stata ritenuta superflua, essendo la cosa più che logica.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

449 Gli obblighi dell'enfiteuta rimangono invariati. Il pagamento del canone e il miglioramento del fondo costituiscono ancora gli elementi essenziali dell'enfiteusi (art. 960 del c.c., primo comma). Il canone può consistere in una somma di danaro ovvero in una «quantità fissa di prodotti naturali». Con la sostituzione di tale formula a quella adoperata dall'art. 1556 del codice del 1865, il quale parlava di «determinata prestazione in danaro o in derrate», mentre si ammette che il canone possa consistere in prodotti naturali diversi dalle derrate, si esclude che possa consistere in una quota proporzionale dei prodotti del fondo. La fissazione del canone pro quota implica un controllo e un'ingerenza del concedente nella gestione del fondo, che contrastano con la natura e l'ampiezza del diritto di cui l'enfiteuta è investito. In conformità, dell'art. 1559 del codice del 1865, il secondo comma dell'art. 960 non consente all'enfiteuta di pretendere remissione o riduzione del canone per qualunque insolita sterilità, o perdita di frutti.

Massime relative all'art. 960 Codice Civile

Cass. civ. n. 15822/2022

Elemento essenziale dell'enfiteusi, anche dopo le modifiche introdotte in materia dalle leggi n. 607 del 1966 e n. 1138 del 1970, e tanto nel caso in cui essa abbia ad oggetto un fondo rustico, quanto in quello in cui riguardi un fondo urbano (terreno da utilizzare per scopi non agricoli, ovvero edificio già costruito), è l'imposizione a carico dell'enfiteuta dell'obbligo di migliorare la precedente consistenza del fondo, il quale, pure nel suddetto caso dell'enfiteusi urbana, non si identifica, né si esaurisce nel diverso obbligo di provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria. Ne consegue che, sia nel caso di enfiteusi urbana che rurale, le migliorie non si risolvono nella mera manutenzione, sia pure straordinaria.

Corte cost. n. 160/2008

L'acquisto della proprietà di costruzioni anteriori al 1941 mediante affrancazione dovrà essere effettuato ad un prezzo adeguato alla realtà economica. La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 5 e 6 della legge 18 dicembre 1970, n. 1138 (Nuove norme in materia di enfiteusi), nella parte in cui, per le enfiteusi urbane costituite anteriormente al 28 ottobre 1941, non prevedono che il valore di riferimento per la determinazione del capitale per l'affrancazione delle stesse sia periodicamente aggiornato mediante l'applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenerne adeguata con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la effettiva realtà economica.

Corte cost. n. 143/1997

E' incostituzionale l'art. 1 comma 1 e 4, l. 22 luglio 1966 n. 607, nella parte in cui, per le enfiteusi fondiarie costituite anteriormente al 28 ottobre 1941, non prevede che il valore di riferimento per la determinazione del capitale per l'affrancazione delle stesse sia periodicamente aggiornato mediante l'applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenerne adeguata, con ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la effettiva realtà economica.

Corte cost. n. 406/1988

è illegittimo, per violazione dell'art. 42 cost., l'art. 1 l. 14 giugno 1974, n. 270, nella parte in cui non prevede che il valore di riferimento da esso prescelto per la determinazione del canone enfiteutico, e quindi del capitale di affrancazione, sia periodicamente aggiornato mediante l'applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con l'effettiva realtà economica.

Cass. civ. n. 4328/1982

Elemento essenziale dell'enfiteusi, anche dopo le modifiche introdotte in materia delle leggi 22 luglio 1966, n. 607 e 18 dicembre 1970, n. 1138, e tanto nel caso in cui essa abbia ad oggetto un fondo rustico, quanto in quello in cui riguardi un fondo urbano (terreno da utilizzare per scopi non agricoli, ovvero edificio già costruito), è l'imposizione a carico dell'enfiteuta dell'obbligo di migliorare la precedente consistenza del fondo, il quale, pure nel suddetto caso dell'enfiteusi urbana, non si identifica, né si esaurisce nel diverso obbligo di provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria.

Cass. civ. n. 1614/1978

Non sono incompatibili con la concessione in enfiteusi di fondo agricolo le clausole contrattuali che costituiscano a carico dell'enfiteuta obbligazioni personali, ove queste, pur limitando le facoltà di godimento del suolo o del sottosuolo, non precludano le possibilità di sfruttamento di quel fondo secondo la natura ed il contenuto tipico del diritto d'enfiteusi (nella specie, trattandosi di patti che vietano l'utilizzazione di eventuali giacimenti minerari o sorgenti d'acqua sotterranee, nonché la costruzione di fabbricati non agrari).

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Consulenze legali
relative all'articolo 960 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Anonimo chiede
domenica 18/04/2021 - Toscana
“Quesito su enfiteusi.
Buonasera Avvocati,
Abbiamo una causa in corso per sfratto su un immobile (ex canonica).
Nel 1991 quando siamo entrati nell'immobile, lo stesso era in condizioni di assoluto degrado (mancanza di bagno, impianto elettrico, fosse biologiche, ecc.). Dal 1999 con un contratto di locazione paghiamo regolarmente un affitto e ci siamo occupati della manutenzione ordinaria e straordinaria. Abbiamo quindi migliorato (restaurato) l'immobile con ingenti costi, essendosi il proprietario sempre disinteressato di qualsiasi intervento di manutenzione. Approfondendo da "non esperti" la situazione, abbiamo appreso del diritto di enfiteusi e quindi la nostra domanda è: abbiamo acquisito tale diritto? Vorrei allegare delle informazioni reperite su internet e avere conferma della loro validità e consistenza giuridica.
Grazie”
Consulenza legale i 28/04/2021
L’enfiteusi, disciplinata dagli artt. 957 e ss. del codice civile, è un diritto reale su cosa altrui, che si caratterizza essenzialmente per il fatto che, a fronte del godimento del fondo (in proposito, l’art. 959 c.c. attribuisce all'enfiteuta ha gli stessi diritti che avrebbe il proprietario sui frutti del fondo, sul tesoro e relativamente alle utilizzazioni del sottosuolo), l’enfiteuta ha l'obbligo di migliorare il fondo e di pagare al concedente un canone periodico (art. 960 c.c.).
Come previsto dall’art. 1350, n. 2 c.c., la costituzione del diritto di enfiteusi deve farsi in forma scritta, a pena di nullità, ed è soggetta a trascrizione ai sensi del n. 2 dell’art. 2643 c.c.
Nel nostro caso, il godimento dell’immobile, iniziato da tempo risalente (non è chiaro a quale titolo), è stato formalizzato come contratto di locazione ad uso abitativo, nel quale peraltro - conformemente a quanto avviene in questo tipo di contratti - non è previsto alcun obbligo di migliorare l’immobile; anzi, si vieta espressamente al conduttore di effettuare lavori di qualsiasi tipo senza la preventiva autorizzazione scritta del locatore.
Naturalmente, il diritto dell’enfiteuta, così come gli altri diritti reali, può essere acquistato per usucapione, ovvero per effetto del possesso sulla cosa, esercitato per il periodo di tempo prescritto dalla legge (che nel caso dei beni immobili è di venti anni, ex art. 1158 c.c.).
Al riguardo, occorre fare chiarezza su cosa si intenda per possesso e quale sia la differenza con la semplice detenzione della cosa: questo perché, se per usucapire un diritto reale è necessario il possesso, nella locazione il conduttore non ha il possesso, bensì la detenzione del bene.
Ora, per possesso, ai sensi dell’art. 1140 c.c., si intende il potere sulla cosa, che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Il possesso, dunque, si compone di due elementi: un elemento oggettivo (c.d. corpus possessionis), costituito appunto dal potere di fatto sulla cosa, e un elemento soggettivo (c.d. animus possidendi), ovvero l’intenzione di tenere la cosa come propria mediante l'attività corrispondente all'esercizio della proprietà, o di altro diritto reale.
Proprio l’animus distingue il possesso (utile ai fini dell’usucapione) dalla detenzione, che è appunto una relazione con la cosa, in cui manca l’intento di comportarsi come proprietario, o come titolare di altro diritto reale.
Alla luce di quanto sin qui esposto, può il conduttore, che detiene - non possiede - la cosa in forza di un contratto di locazione, usucapire la proprietà o altro diritto reale sulla cosa stessa?
La risposta è contenuta nell’art. 1141 c.c., che disciplina la c.d. interversione del titolo del possesso: ai sensi del secondo comma della norma, se qualcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finché il titolo non venga a essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore.
Tale principio è stato illustrato e ribadito anche recentemente da Cass. Civ., Sez. II, sentenza n. 5333/2016: “secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi, l'art. 1141 c.c. non consente al detentore di trasformarsi in possessore mediante una sua interna determinazione di volontà, ma richiede, per il mutamento del titolo, o l'intervento di "una causa proveniente da un terzo", per tale dovendosi intendere qualsiasi atto di trasferimento del diritto idoneo a legittimare il possesso, indipendentemente dalla perfezione, validità, efficacia dell'atto medesimo (compresa l'ipotesi di acquisto da parte del titolare solo apparente), oppure l'opposizione del detentore contro il possessore, opposizione che può aver luogo sia giudizialmente che extragiudizialmente e che consiste nel rendere noto al possessore, in termini inequivoci e contestando il di lui diritto, l'intenzione di tenere la cosa come propria [...]. Questa Corte ha peraltro precisato che l'interversione nel possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato d'esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente "animus detinendi" dell'animus rem sibi habendi"; tale manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell'avvenuto mutamento, e quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all'esercizio del possesso da parte sua. A tal fine sono inidonei atti che si traducano nell'inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita (verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale) ovvero si traducano in meri atti di esercizio del possesso (verificandosi in tal caso una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene)”.
Nel nostro caso, pertanto, appare difficile sostenere la tesi di un acquisto per usucapione del diritto dell'enfiteuta.

SEBASTIANO C. chiede
mercoledì 15/03/2017 - Campania
“Vorrei fittare un fondo rustico di circa 16 ha. Attualmente il fondo è incolto. Circa la metà vi sono alberi secolari di olivo.Per la restante metà è terreno nudo.
Il contratto di locazione verrà stipulato in deroga alla legge e più precisamente ai sensi dell’art. 45 della Legge 203/82.
La durata del fitto agrario sarà di dieci anni. Il canone di affitto sarà prossimo allo zero, comunque simbolico per dare validità al contratto.
Il canone simbolico, pari quasi a zero è giustificato dal fatto che il terreno allo stato è incolto e che occorrono opere agrarie di miglioramento sia per la messa in coltura sia per l’impianto di nuove piante di olivo e di nocciole. Dette opere di miglioramento dovranno essere eseguite a cura e spesa dell’affittuario.
.Quesito
1. L’affittuario a conclusione del contratto può pretendere indennizzi per i miglioramenti effettuati ?
2. La non corresponsione o l'esiguità del canone da parte dell’affittuario può giustificarsi nel contratto con l’impegno da parte di quest’ultimo di apportare le migliorie senza alla fine del contratto essergli dovuti indennizzi per migliorie?
3. Alla fine del contratto l’affittuario può pretendere indennizzi per eventuali maggiori spese sostenute per i miglioramenti rispetto ai canoni di locazione non versati a titolo di miglioramenti?
In caso positivo potremmo ovviare inserendo in contratto dichiarazione dell’affittuario che i mancati canoni di locazione compensano pienamente le spese necessarie per i miglioramenti? Una clausola di tal fatta ci copre da ulteriori pretese dell’affittuario?
4. Nel contratto è opportuno indicare dettagliatamente le opere di miglioria a farsi nel corso della locazione ed i tempi di esecuzione?
5. E’ possibile, e quindi non ritenuto “contra legem” inserire in un contratto di affitto di un fondo rustico clausole e patti che escludono il pagamento all’affittuario di somme a titolo di migliorie ?
Nel caso sia possibile quale valenza giuridica può avere in caso di giudizio in cui l’affittuario dovesse chiedere somme per miglioramenti sul fondo agricolo, eseguiti con il consenso del locatore?”
Consulenza legale i 21/03/2017
Prima di rispondere alle domande occorre riepilogare la disciplina positiva dalla quale poter trarre le dovute risposte.
L’affitto di fondo rustico è il principale contratto di scambio previsto dalla L. 203/1982: il proprietario cede il godimento del proprio fondo all’affittuario, in cambio di un corrispettivo.
La causa del contratto è appunto lo scambio tra il bene-terra, utile a produrre reddito agrario, ed il corrispettivo economico del suo godimento.

La Legge n. 203 del 1982 regola gli aspetti principali del contratto di affitto di fondo rustico, dettando una disciplina specifica che presta particolare attenzione alla debolezza contrattuale delle parti.
In particolare, per quanto ci interessa, l’art. 2 della L. 203/82 prevede per l'affitto un termine minimo contrattuale di almeno 15 anni, ulteriormente prorogabile di altri 3 anni ove l'affittuario lo richieda al locatore.
Tali termini possono essere utilmente derogati dalle parti ai sensi dell’art. 45 della medesima legge, ovverosia avvalendosi dell’assistenza delle rispettive organizzazioni agricole maggiormente rappresentative nella redazione e nella stipula del contratto.
L’art. 17 sancisce invece il diritto dell'affittuario, che abbia realizzato migliorie sul fondo, di percepire "una indennità corrispondente all'aumento del valore di mercato conseguito dal fondo a seguito dei miglioramenti da lui effettuati e quale risultante al momento della cessazione del rapporto, con riferimento al valore attuale di mercato del fondo non trasformato. Le parti possono convenire la corresponsione di tale indennità anche prima della cessazione del rapporto”.

L' enfiteusi invece è un diritto reale di godimento su cosa altrui, con il quale si attribuisce all'enfiteuta il diritto di godimento del fondo con l'obbligo di miglioramento unitamente al pagamento di un canone periodico.
La causa del contratto di enfiteusi è stata ricostruita dalla giurisprudenza nello scambio del bene-terra a fronte dell’obbligo di eseguire le migliorie. Detto altrimenti i miglioramenti del fondo ineriscono la causa stessa del contratto, il che postula che questo abbia ad oggetto terreni nudi e incolti, o comunque terreni in cui è necessario stabilire o ristabilire le condizioni minime essenziali per una proficua e redditiva coltivazione.

Ciò posto per rispondere alle Sue due prime domande, intimamente interconnesse, occorre sottolineare che la giurisprudenza della Corte di Cassazione, ed anche la dottrina, hanno riconosciuto la validità del contratto di affitto ad meliorandum, inteso come quel contratto avente ad oggetto la concessione in godimento di un fondo rustico con l'obbligo di miglioramento dello stesso, "rappresentando tale miglioramento il corrispettivo del godimento del fondo, sicché al rilascio del fondo nulla è dovuto al conduttore per i miglioramenti eseguiti" (Cass. 23 dicembre 1982 n. 7121, ma nello stesso senso più di recente cfr. Cass. n.25454/2015).
La Corte di Cassazione ha riconosciuto questo tipo di contratto ove i miglioramenti non costituiscano la causa stessa del contratto, ma solo il corrispettivo del godimento del fondo.
Dunque si, è valido il contratto di affitto con il quale le parti si accordino acché il canone venga ridotto in ragione dell'obbligo dell’affittuario di adottare i miglioramenti, senza che al momento della conclusione del contratto, egli possa pretendere l'indennità per gli stessi.
Merita però precisare che, a parere di chi scrive, sarebbe più cauto prevedere espressamente nel contratto quali sono i miglioramenti che dovranno essere posti in essere e quale è la riduzione del canone accordata, facendo attenzione a ricreare una proporzione tra il valore dei miglioramenti ed il valore del godimento del fondo.
Sarebbe allor più opportuno esplicitare in contratto a quanto ammonterebbe il canone se non operasse la riduzione per i miglioramenti e prevedere il ripristino del canone per l’intero se l’affitto dovesse protrarsi oltre il termine convenuto.

Infatti occorre sottolineare che l’interprete (rectius il giudice in sede contenziosa) non è vincolato al nomen iuris attribuito dalle parti al contratto, ma deve indagare quale sia la causa che le parti volevano perseguire in concreto, con la conseguenza che è sempre possibile una riqualificazione del rapporto negoziale.
Il che vale a dire che il rischio non è tanto quello di dover corrispondere l’indennità per i miglioramenti e le addizioni, quanto il vedere qualificato il contratto di affitto come enfiteusi, con tutte le conseguenze derivanti dall’applicazione della sua disciplina (ad esempio il diritto dell'enfiteuta all’ affrancazione del fondo).

Con riguardo al 3° quesito, come in parte già chiarito, l'affittuario al termine del contratto non potrà richiedere le maggiori spese sostenute per i miglioramenti del fondo, salvo che questi miglioramenti siano altri ed ulteriori rispetto a quelli che contrattualmente e pattiziamente sono stati previsti. Allo scopo occorrerebbe prevedere nel contratto una clausola che vieti ulteriori miglioramenti ed addizioni, salvo il previo consenso del proprietario.

Sarebbe altresì più cauto prevedere espressamente che l’affittuario rinunci a richiedere l’indennità per i miglioramenti e le addizioni concordate ed ulteriori.
La giurisprudenza di legittimità ha infatti confermato “la validità della clausola, inserita in un contratto di affitto di fondo rustico, di rinunzia preventiva all'indennità per i miglioramenti fondiari di cui alla L. n. 203 del 1982, articolo 17, se stipulata con l'assistenza delle organizzazioni professionali” (cfr. Cass. n. 8729/2012 e n. 7726/2015).
Anche se le migliorie fossero autorizzate dal locatore, la previa ed espressa rinuncia all'indennità di cui all'art. 17 L. 203/1982 contenuta nel contratto stipulato ai sensi dell'art 45 medesima legge, e cioè con l'assistenza delle organizzazioni professionali, secondo gli orientamenti finora espressi dalla Corte di Cassazione, dovrebbe tener esente il concedente dalle richieste economiche dell'affittuario.

Giovanni chiede
lunedì 11/11/2013 - Piemonte
“Buongiorno. Sono un docente. Negli anni 1994 - 1995 di ruolo alle scuole superiori statali. Nel ‘96, per motivi di distanza da casa ottenni il passaggio di ruolo da scuola superiore a scuola media (grado inferiore).
Ora succede che, passati 17 anni, il preside dell'attuale scuola media (nel frattempo ho cambiato tre scuole medie) mi convoca dicendo che in segreteria si sono accorti casualmente che la mia posizione stipendiale risulta erroneamente essere ancora la KA08 invece di KA07 (stipendio docente di scuola superiore invece che di scuola media). Questo per una dimenticanza o errore risalente al ‘96 commesso in qualche punto dell’apparato amministrativo (segreteria della prima scuola media di arrivo dopo il passaggio di ruolo oppure provveditorato agli studi o altro). Quindi in modo piuttosto scocciato mi avverte che dovrò restituire lo stipendio preso in più nei 17 anni, rimproverandomi pure di non essermi accorto dell’errore, quasi fossi io il colpevole e non gli amministratori.
Voglio precisare che non mi sono mai accorto dell’errore (né potevo sognarmi che ci fosse) in quanto:
1) all’ufficio informazioni del Provveditorato, nel 1995 mi dissero che lo stipendio sarebbe rimasto tale pur passando a ruolo inferiore. E infatti lo stipendio non cambiò. Quello che ho scoperto ORA è che nel tempo le due tipologie di stipendio si sarebbero differenziate per gli scatti di anzianità (un po’ più “lenti” nella scuola media). Comunque si parla di differenze poco percettibili, nell’ordine di 30-50 € al netto mensili.
2) Non avevo mai sentito nominare tali KA08 o KA07 (né sapevo nemmeno cosa fossero, lo so ORA) e non guardavo praticamente mai il cedolino in quanto controllavo sempre in banca il versamento mensile. Le rare volte che guardavo il cedolino non ho mai fatto caso alle siglette criptiche varie interessandomi sempre della parte in basso dello stesso, ove ci sono i totali. I controlli veri li effettuavo in banca e stop. Non avevo altro motivo di controllare alcunché.
3) Ho controllato ora, con attenzione, un cedolino e, in effetti, ben dissimulata tra altre sigle e siglette criptiche, c’è la dicitura "Doc. Sc. Med. Sup." e "inquadramento KA08". Ma non mi sono mai sognato di leggerle. Né ne avevo motivo.
4) I cedolini venivano stampati dalle segreterie e consegnati ai docenti. Mai nessuna segretaria si è mai accorta dell’errore. Ora che da qualche anno i cedolini sono on-line non ne ho mai stampato nemmeno uno limitandomi a guardare i soli totali riportato in una tabella riassuntiva sul sito.
5)La segretaria dell’attuale scuola media si accorta dell’errore dopo 8 anni che ci lavoro. Non hanno fatto controlli otto anno fa al mio arrivo?
-
Ora intenderei avvalermi sia della “prescrizione quinquennale” sia della sentenza (Cassazione, 1464 del 2 febbraio 2012) che limita la restituzione, di quanto percepito erroneamente, al netto di contributi , ritenute, ecc.
Ecco il quesito: per la prescrizione quinquennale potrebbero sollevare la questione che dovevo accorgermi io stesso dell’errore ? E quindi ostacolarla o annullarla in qualche modo?
(Il preside credo non sappia per ora dell’esistenza della prescrizione. Infatti afferma che dovrò pagare per tutti i 17 anni . Ma ho la sensazione che alla fine incolperà solo me)
Grazie infinitamente. Distinti saluti.”
Consulenza legale i 27/11/2013
Nel caso in cui la pubblica amministrazione abbia erogato somme che non aveva l'obbligo di versare ad un dipendente, si applica l'ordinaria disciplina codicistica di cui all'art. 2033 del c.c.. La giurisprudenza, come si vedrà nelle sentenze sotto citate, reputa irrilevante la buona fede del lavoratore che ha percepito indebitamente le somme, come pure l'affidamento nello stesso ingenerato dal trascorrere del tempo.

La Suprema Corte, con sentenza 29926/2008, ha stabilito che: "In ogni caso, trattandosi di rapporto di lavoro in regime di diritto privato, qualora risulti accertato che l'erogazione è avvenuta sine titulo, la ripetibilità delle somme ex art. 2033 c.c., non può essere esclusa per la buona fede dell'accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi (Cass. 19.8.03 n. 12146). Detta natura del rapporto esclude anche l'applicabilità della regola di carattere eccezionale enunciata dalla giurisprudenza amministrativa per il rapporto di pubblico impiego, di irripetibilità delle somme corrisposte dalla pubblica amministrazione ai propri dipendenti e da costoro percepite in buona fede e destinata al soddisfacimento delle loro normali necessità di vita (Cass. 24.6.95 n. 7181 ed altre conformi)".

Con sentenza n. 8338/2010, la Cassazione ha ribadito il predetto orientamento: "Anche il secondo profilo di censura specificamente in merito alla asserita "irrepetibilità delle somme indebitamente percepite dal dipendente in buona fede non costituendo il recupero di dette somme un atto assolutamente vincolato per l'Amministrazione" - non è meritevole di accoglimento. Infatti - come di recente ha statuito questa Corte - in materia di impiego pubblico privatizzato, nel caso di domanda di ripetizione dell'indebito proposta da una amministrazione nei confronti di un proprio dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora, risulti accertato che l'erogazione è avvenuta sine titulo, la ripetibilità delle somme non può essere esclusa ex art. 2033 c.c. per la buona fede dell'accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi (Cass. n. 29926/2008)".

Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato condivide l'orientamento sopra esposto, statuendo in particolare: "il recupero di somme indebitamente corrisposte dalla P.A. a propri dipendenti ha carattere di doverosità e costituisce esercizio di un vero e proprio diritto soggettivo a carattere patrimoniale, non rinunciabile in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse alle quali sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate" (Cons. Stato, sez. 4, n. 290/2008; Cons. Stato ord. gen. n. 145/2007); ancora, "il recupero di emolumenti indebitamente corrisposti ai dipendenti, dopo che sia stata accertata la mancanza di un titolo alla corresponsione delle relative somme e quindi l'esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo patrimoniale ex art. 2033 c.c. avente il carattere della doverosità" (Cons. Stato, sez. 5 n. 561/2008).

Anche con sentenza 2651/2007 il Consiglio di Stato ha ribadito che costituisce jus receptum il principio secondo cui il recupero di somme indebitamente erogate dalla Pubblica Amministrazione ai propri dipendenti ha carattere di doverosità e costituisce esercizio, ai sensi dell'articolo 2033 del codice civile, di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, non rinunziabile. Nella medesima pronuncia si legge anche: "In ordine al profilo della rilevanza della buona fede del debitore, è stato più volte precisato che essa non può rappresentare un ostacolo all'esercizio da parte dell'amministrazione del recupero dell'indebito [...] neppure quando intervenga a lunga distanza di tempo dall'erogazione delle somme, comportando in capo all'Amministrazione solo l'obbligo di procedere al recupero stesso con modalità tali da non incidere significativamente sulle esigenze di vita del debitore".

La sentenza citata nel quesito (n. 1464 del 2 febbraio 2012) parte pur sempre dall'applicazione della disciplina sull'indebito ex art. 2033 c.c., rilevando però, correttamente, che "la ripetizione dell'indebito nei confronti del lavoratore non può non avere ad oggetto [...] che le somme da quest'ultimo 'percepite', ossia quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del predetto" (in altre parole, il 'netto').

Quanto al termine prescrizionale, lo scorso anno il Tar del Lazio, Sez. I bis, ha accolto una eccezione del dipendente che sosteneva si applicasse nel caso di specie la prescrizione quinquennale di cui all'art. 2948, numero 4), c.c. Tale disposizione stabilisce che si prescrivono in cinque anni gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi. Si segnala però che non tutta la giurisprudenza amministrativa è di questo avviso (v. Consiglio di Stato sez. VI, sent. 4989 del 20.9.2012: "secondo la costante giurisprudenza dalla quale il collegio non ha ragione di discostarsi, l'azione di recupero di somme indebitamente corrisposte al pubblico dipendente da parte della pubblica amministrazione è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale di cui all'art. 2946, c.c., e non a quella quinquennale prevista dall'art. 2948, c.c., non potendosi far rientrare tale fattispecie fra le ipotesi espressamente contemplate in quest'ultima norma (cfr. C.S., sezione VI, sent. 27.11.2002 n. 6500)").

lucia chiede
domenica 27/02/2011 - Campania

“Il nostro Comune ha inviato circa 13mila ingiunzioni di pagamento di pregressi canoni idrici dal 1996 al 2002 notificati il 13/10/2006 e anni dal 2002 al 2006 notificati il 28/12/2009 (entrambe le notifiche sono state fatte alla posta del ns. Comune) che l'ha spedita ai relativi destinatari nel mese di febbraio 2011. Vorrei sapere se tali canoni sono oggetto di prescrizione dato che gli importi sono davvero onerosi ed il fatto del mancato pagamento degli anni in oggetto, non è stato dei cittadini bensì del Comune che non ha mai provveduto ad inviare le bollette nè bimestrali, nè semestrali, nè annuali, bensì dopo oltre dieci anni con i relativi interessi e oneri vari oltre agli importi idrici. Tengo a precisare che nel nostro Comune ancora nel 2011 per avere l'acqua nelle abitazioni dobbiamo utilizzare l'autoclave con conseguente non purezza dell'acqua che dovremmo bere e con il consumo, che paghiamo a parte, della corrente elettrica per azionare l'autoclave.
GRAZIE”

Consulenza legale i 28/02/2011

Non si comprende il rapporto giuridico intercorrente col Comune. Tuttavia, qualora si tratti di invio dell’atto di accertamento tributario, questo è realizzabile sotto forma di apposito avviso motivato da notificare al contribuente, anche a mezzo posta con lettera raccomandata con avviso di ricevimento. In merito alla questione descritta, va evidenziato che la notificazione è un momento fondamentale nel procedimento d’imposizione tributaria, ed è essenziale ai fini della conoscenza del contribuente circa la violazione commessa e le conseguenze pregiudizievoli che ne derivano, che questa si svolga in modo regolare e tempestivo.

Ora, sicuramente esiste un termine di decadenza del potere di accertamento per quanto riguarda quella particolare imposta, relativa al consumo di acqua e nel caso specifico se la notificazione non si è perfezionata nel termine di legge, il Comune è decaduto dal suo potere di accertamento: l’intero iter si deve svolgere entro il termine di decadenza fissato dalla legge.

Preliminarmente, è possibile inviare una lettera raccomandata al Comune, in cui evidenziare l’illegittimità degli accertamenti, in un secondo momento, si può presentare ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale, entro il termine di 60 giorni dalla notificazione dell’avviso di accertamento.


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