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Articolo 2395 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 03/08/2024]

Azione individuale del socio e del terzo

Dispositivo dell'art. 2395 Codice Civile

Le disposizioni dei precedenti articoli non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo [2419] che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori [2393, 2393 bis, 2394, 2394 bis].

L'azione può essere esercitata entro cinque anni dal compimento dell'atto che ha pregiudicato il socio o il terzo.

Ratio Legis

Tale azione, di natura aquiliana, è esperibile dal socio o dal terzo al fine di ottenere il risarcimento del danno subito in conseguenza di fatti illeciti compiuti dagli amministratori.

Spiegazione dell'art. 2395 Codice Civile

Il tratto distintivo dell'azione individuale di responsabilità nei confronti degli amministratori viene tradizionalmente identificato nel carattere diretto del danno lamentato dal soggetto legittimato ad esperirla.
Elementi della fattispecie sono:
- la condotta degli amministratori;
- il pregiudizio patrimoniale patito dal socio o dal terzo;
- il nesso di causalità materiale fra la condotta e il danno lamentato dall'attore, qualificato in termini di diretta efficacia causale della condotta.

La responsabilità in oggetto ha natura extracontrattuale.

In caso di fallimento della società, l'azione resta individuale e non si ha la sostituzione del curatore al creditore o al socio.

Massime relative all'art. 2395 Codice Civile

Cass. civ. n. 11223/2021

L'azione individuale del socio nei confronti dell'amministratore di una società di capitali non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l'art. 2395 c.c. esige che il singolo socio sia stato danneggiato "direttamente" dagli atti colposi o dolosi dell'amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società; la mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non costituiscono danno diretto del singolo socio, poichè gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all'eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell'amministratore.

Cass. civ. n. 10096/2020

In tema di azioni di responsabilità dei soci nei confronti degli amministratori di società di capitali, non costituisce condotta illecita la mancata rivalutazione, in sede di redazione di bilancio, delle partecipazioni in imprese controllate o collegate, pure consentita dall'art. 2426, comma 1, n. 4, c.c., perché si tratta di una scelta discrezionale rimessa all'organo gestorio, che ha la facoltà, e non l'obbligo, di valutare le menzionate immobilizzazioni finanziarie con il metodo del patrimonio netto, seguendo le modalità indicate dalla norma, invece di iscriverle al costo di acquisto.

Cass. civ. n. 9206/2020

In tema di società, l'azione individuale di responsabilità, ai sensi dell'art. 2395 c.c., esige che il comportamento doloso o colposo dell'amministratore, posto in essere tanto nell'esercizio dell'ufficio quanto al di fuori delle correlate incombenze, abbia determinato un danno direttamente sul patrimonio del socio o del terzo, restando irrilevante che il comportamento dell'amministratore sia stato conforme agli interessi della società o a vantaggio di questa.

Cass. civ. n. 15822/2019

L'inadempimento contrattuale di una società di capitali non implica automaticamente la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell'altro contraente ai sensi dell'art. 2395 c.c., atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, richiede la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente, come si evince, fra l'altro, dall'utilizzazione, nel testo della norma, dell'avverbio "direttamente", il quale esclude che l'inadempimento e la pessima amministrazione del patrimonio sociale siano sufficienti a dare ingresso all'azione di responsabilità.

Cass. civ. n. 3779/2019

La responsabilità degli organi sociali, derivante dall'azione proposta dal socio ex art. 2395 c.c. ha natura extracontrattuale, postulando la sussistenza di fatti illeciti direttamente imputabili ad un comportamento colposo o doloso degli amministratori. Ne discende che, qualora l'evento dannoso si ricolleghi a più azioni od omissioni, il problema della concorrenza di una pluralità delle cause trova la sua soluzione nella disciplina di cui all'art. 41, c.p., in virtù del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l'evento, essendo quest'ultimo riconducibile a ciascuna di esse, a meno che non sia raggiunta la prova dell'esclusiva efficienza causale di una sola, pur se imputabile alla stessa vittima dell'illecito, da ritenersi idoena ad impedire l'evento od a ridurne le conseguenze.

Cass. civ. n. 17794/2015

A fronte dell'inadempimento contrattuale di una società di capitali, la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell'altro contraente non deriva automaticamente da tale loro qualità, ma richiede, ai sensi dell'art. 2395 c.c., la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente. Ne consegue che, nel caso di bilancio contenente indicazioni non veritiere, che si assumano avere causato l'affidamento incolpevole del terzo circa la solidità economico-finanziaria della società e la sua decisione di contrattare con essa, il terzo che agisca per il risarcimento del danno avverso l'amministratore che abbia concorso alla formazione del bilancio asseritamente falso ha l'onere di provare non solo tale falsità, ma anche, con qualsiasi mezzo, il nesso causale tra il dato falso e la propria determinazione di concludere il contratto, da cui sia derivato un danno in ragione dell'inadempimento della società alle proprie obbligazioni.

Cass. civ. n. 8458/2014

In tema di azioni nei confronti dell'amministratore di società, a norma dell'art. 2395 cod. civ., il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all'esperimento dell'azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall'amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l'ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, dovendosi proporre, altrimenti, l'azione, contrattuale, di cui all'art. 2394 cod. civ., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell'art. 146 della legge fall. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto la legittimazione del creditore ad agire ex art. art. 2395 cod. civ. nel caso in cui si accerti che gli amministratori della società fallita, attraverso il sostanziale trasferimento di tutte le attività e passività aziendali in favore di altro soggetto, avessero perseguito l'obiettivo di sottrarre la garanzia patrimoniale con riguardo unicamente all'obbligazione di cui l'attore era titolare).

Cass. civ. n. 4548/2012

L'azione individuale del socio nei confronti dell'amministratore di una società di capitali non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l'art. 2395 c.c. esige che il singolo socio sia stato danneggiato "direttamente" dagli atti colposi o dolosi dell'amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società; la mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non costituiscono danno diretto del singolo socio, poichè gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all'eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale, la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell'amministratore.

Cass. civ. n. 6558/2011

In tema di società, l'azione promossa individualmente dal socio nei confronti degli amministratori, ai sensi dell'art. 2395 c.c., richiede la realizzazione di un danno diretto alla sfera giuridico-patrimoniale del singolo socio danneggiato. Ne consegue che costituiscono condotte in relazioni alle quali difetta il carattere del danno diretto richiesto dalla norma indicata quelle degli amministratori che abbiano impedito il conseguimento di utili, danneggiato il patrimonio della società e reso impossibile la liquidazione delle quote sociali, trattandosi di comportamenti dolosi o colposi che colpiscono in via diretta esclusivamente la società, avendo un effetto solo riflesso sui soci.

Cass. civ. n. 15220/2010

L'art. 2395 c.c. esige, ai tini dell'esercizio dell'azione di responsabilità del socio nei confronti degli amministratori, che il pregiudizio subito dal socio non sia il mero riflesso dei danni eventualmente arrecati al patrimonio sociale, ma gli derivi direttamente come conseguenza immediata del comportamento illecito degli amministratori: pertanto, né l'inattività dell'assemblea, né la perdita del capitale sociale e né l'inadempimento contrattuale posto in essere dall'amministratore integrano, di per sé, i presupposti della disposizione, in quanto la prima inerisce al mero funzionamento degli organi sociali e non comporta necessariamente un danno alla società o al socio, mentre il capitale è un bene della società e non dei soci, i quali dalle perdite subiscono soltanto un danno riflesso a causa della diminuzione di valore della propria partecipazione, ed, infine, il mancato rimborso della somma presa a mutuo dalla società può comportare la responsabilità dell'amministratore soltanto quando derivi da un illecito colposo o doloso dell'organo nell'inadempimento del mutuo. (Fattispecie in tema di s.r.l., anteriore all'entrata in vigore del d.l.vo 17 gennaio 2003, n. 6).

Cass. civ. n. 1195/2010

Il socio di una società di capitali è titolare, già prima che divenga esigibile il suo diritto alla quota di liquidazione, di una situazione giuridica direttamente tutelata, avente ad oggetto innanzi tutto il diritto alla durata tendenzialmente illimitata della società ed alla propria partecipazione al libero svolgimento dell'attività negoziale di essa e delle operazioni sociali. (Nel caso di specie, la C. S. ha cassato la sentenza impugnata, la quale - a fronte della domanda risarcitoria proposta dal socio per gli illeciti commessi, in concorso fra loro, dagli altri soci e dall'amministratore di una società a responsabilità limitata,.consistenti nella falsificazione delle scritture sociali, nella distruzione del libro dei soci e nella sostituzione dello stesso con un nuovo libro attestante falsamente la titolarità delle quote in capo ai soci - aveva omesso di individuare esattamente l'evento di danno lamentato, considerato unitariamente come risultato della condotta concorrente degli autori dell'illecito, e di accertare se tale evento fosse lesivo della situazione giuridica soggettiva del socio direttamente tutelata in capo allo stesso, come sopra individuata).

Cass. civ. n. 6870/2010

In tema di azioni nei confronti dell'amministratore di società, a norma dell'art. 2395 c.c., il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all'esperimento dell'azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall'amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l'ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall'art. 2394 c.c., esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell'art. 146 della legge fall.

Cass. civ. n. 21130/2008

L'inadempimento contrattuale di una società di capitali non può , di per sè, implicare responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell'altro contraente, secondo la previsione dell'art. 2395 cod. civ., atteso che tale responsabilità, di natura extracontrattuale, postula fatti illeciti direttamente imputabili a comportamento colposo o doloso degli amministratori medesimi, come si evince, fra l'altro, dall'utilizzazione dell'avverbio "direttamente", la quale esclude che detto inadempimento e la pessima amministrazione del patrimonio sociale siano sufficienti a dare ingresso all'azione di responsabilità.

Cass. civ. n. 14558/2008

La responsabilità risarcitoria dell'amministratore di una società di capitali nei confronti dei soci e dei terzi non è in alcun modo dipendente, sul piano logico, da quella, di natura contrattuale, eventualmente fatta valere nei confronti della società, cosi come questa seconda non presuppone l'accertamento di quella; ne consegue che, promossa una causa in primo grado nei confronti sia dell'amministratore che della società, e deceduto nelle more l'amministratore, la mancata integrazione del contraddittorio, in grado di appello, relativamente ad uno degli eredi di questo, non si traduce in conseguente inammissibilità del gravame proposto contro la società, non configurandosi una situazione di inscindibilità delle cause, ai sensi dell'art. 331 c.p.c.

Cass. civ. n. 10271/2004

Nelle società a responsabilità limitata (nel vigore della disciplina dettata dal codice civile del 1942, anteriormente alla riforma organica di cui al D.L.vo 17 gennaio 2003, n. 6), posto che gli utili sono parte del patrimonio sociale fin quando l'assemblea eventualmente non ne disponga la distribuzione in favore dei soci, la sottrazione indebita di tali utili ad opera dell'amministratore lede il patrimonio sociale, e solo indirettamente si ripercuote sulla posizione giuridica e sull'interesse economico del singolo socio, compromettendo la sua aspettativa di reddito e comprimendo il valore della sua quota. Pertanto è da escludere che al singolo socio competa, in tal caso, l'azione di responsabilità contemplata dall'ari. 2395 c.c., la quale presuppone invece l'esistenza di un danno subito dal medesimo socio direttamente, non cioè come mero riflesso del danno sociale di cui solo la società, tramite gli organi a ciò abilitati e con il procedimento a tal fine prescritto dal precedente art. 2393 c.c., può chiedere il risarcimento all'amministratore.

Cass. civ. n. 2850/1996

L'art. 2395 c.c. che, oltre all'azione di responsabilità attribuita alla società ed ai creditori sociali, disciplinata nei precedenti artt. 1393 e 2394, contempla un'azione individuale spettante al socio e al terzo, nel caso in cui abbiano risentito un danno diretto per il comportamento doloso o colposo degli amministratori richiede unicamente che il danno causato dagli amministratori abbia investito in via immediata il patrimonio del socio o del terzo, senza che assuma rilievo che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell'esercizio delle loro incombenze o al di fuori di esso, né, infine, che l'atto lesivo sia stato eventualmente compiuto dagli amministratori nell'interesse della società o a vantaggio della stessa. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto ammissibile, pur affermandone l'infondatezza nel merito, l'azione di annullamento di una delibera del consiglio d'amministrazione di una Spa, con la quale, in occasione di aumento di capitale con emissione di nuove azioni, veniva fissato, per l'assegnazione delle azioni rimaste non optate, un prezzo diverso da quello stabilito per l'opzione).

Cass. civ. n. 9385/1993

Il diritto alla conservazione del patrimonio sociale spetta alla società e non al socio come tale, il quale ha in materia un interesse, la cui eventuale lesione non può concretare quel danno diretto necessario per potersi esperire l'azione individuale di responsabilità contro gli amministratori. Tale danno diretto, peraltro, non sussiste neppure per il solo fatto che nel comportamento degli amministratori possa configurarsi un illecito penale, né può consistere nella mancata distribuzione degli utili, perché questi, prima della distribuzione appartengono alla società, si che il danno derivante dalla loro distrazione ad opera degli amministratori è della società e non dei soci, Che De vengono pre giudicati solo di riflesso, tanto da non essere neppure abilitati a proporre azione di indebito arricchimento per conseguire la quota di utili occultata nel bilancio di esercizio.

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Anonimo chiede
mercoledì 11/05/2016 - Campania
“Salve
(omissis)
Sono socio di una (omissis) con amministratore nominato nello statuto.
Negli anni il rapporto è stato talmente fiduciario tanto che il socio amministratore non rendicontava a fine anno il bilancio come previsto dallo statuto societario.
Da poco tempo, insospettito da alcuni comportamenti ho richiesto e ottenuto con difficoltà indescrivibili i bilanci le chiede contabili ed il libro giornale degli anni (omissis).
Ho trovato distrazione di utili per grandi somme di denaro.
Per essere sintetico cito due esempi soltanto.
Anno (omissis) : utili euro (omissis) (conoscevo questo dato perchè era vicino al modello 101 di cui ho pagato l'IRPEF per la mia quota societaria) distribuzione di utili (omissis) dati come anticipo soci durante l'arco dell'anno.
Considerato il rapporto fiduciario ho chiesto solo verbalmente motivazione che gli utili mi sembravano inferiori ottenendo risposte vaghe quali ad esempio conto corrente in negativo.
Anno (omissis):
L'amministratore (che è socio (omissis) pagato dalla società a fattura) nei mesi di gennaio febbraio e marzo si fa aiutare dal figlio socio biologo pagandolo alla luce del sole con assegno di circa (omissis) euro mensili e questo alla conoscenza di tutti i soci.
La gravità consiste nel fatto che nei mesi di (omissis) il libro giornale documenta che il figlio (omissis) ha emesso nell'arco di (omissis) n. (omissis) fatture di prestazioni per importi variabili tra (omissis) euro e ricevuto il denaro in contanti per circa euro (omissis). (si noti il caso che la società nel mese (omissis) ha ricevuto una sopravvenenza attiva di (omissis) euro che il commercialista ha caricato in bilancio in tre anni).
Alla luce delle distrazioni che i consulenti hanno accertato l'amministratore non da spiegazioni anzi è diventato talmente insolente da cacciarmi fuori dai locali della società in presenza di testimone e di impedirmi di esercitare il mio diritto di socio.
Vorrei sapere se già questi episodi rientrano nel penale, se posso chiedere il rimborso di quanto mi è stato sottratto se posso chiedere la revoca dell'amministratore e l'esclusione da socio.
Quale vie seguire per far valere i miei diritti?”
Consulenza legale i 18/05/2016
La distrazione degli utili, l’omissione di rendiconti obbligatori, il comportamento “ostruzionistico” volto a nascondere o rendere più difficile il controllo da parte dei soci sull’amministrazione e l’andamento della società, costituiscono tutti gravi comportamenti degli amministratori, che rilevano sia sotto il profilo penale che civile.

Dal punto di vista della responsabilità penale, si evidenzia come sia il codice civile stesso a contenere alcune importanti norme di specifica rilevanza penale al Titolo XI del Libro V: “disposizioni penali in materia di società e di consorzi”, tra le quali un intero titolo tratta “Degli illeciti commessi dagli amministratori”.

Potrebbero quindi venire in considerazione, nello specifico caso in esame, i seguenti reati:
- “False comunicazioni sociali” (art. 2621 c.c.), che punisce “gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni.(…)”; la condotta punita è quindi quella dell’amministratore che - in violazione degli obblighi di correttezza e chiarezza – abbia reso false informazioni oppure abbia omesso di rendere informazioni che possano incidere sulla valutazione dell’entità economica della società; questo in bilanci, relazioni o altre comunicazioni sociali obbligatorie (ovvero solo quelle previste per legge) e con la finalità specifica di ingannare i soci e trarre per sé o per altri un ingiusto profitto. Nel caso di specie, l’amministratore non ha effettuato il rendiconto annuale obbligatorio (ai sensi dell’art. 2261 cod. civ.) ed ha omesso di comunicare ai soci il reale importo degli utili conseguiti dall’esercizio, in modo da distrarne una parte a favore del figlio;

- “False comunicazioni sociali in danno della società, dei soci o dei creditori” (art. 2622 c.c.), il quale punisce la medesima condotta di cui all’articolo sopra richiamato, con la differenza che quest’ultima deve aver prodotto un danno patrimoniale a carico di società, soci o creditori;

- “Infedeltà patrimoniale” (art. 2634 c.c.), che costituisce ipotesi particolare di appropriazione indebita, che stabilisce “Gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni (…)”;

- probabilmente, infine, anche “impedito controllo” (art. 2625 c.c.) – fattispecie mista di illecito amministrativo e penale - per il quale “Gli amministratori che, occultando documenti o con altri idonei artifici, impediscono o comunque ostacolano lo svolgimento delle attività di controllo legalmente attribuite ai soci, o ad altri organi sociali, sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10.329 euro. Se la condotta ha cagionato un danno ai soci, si applica la reclusione fino ad un anno e si procede a querela della persona offesa.

Si noti bene che la responsabilità penale dell’amministratore ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 2621 e 2622 c.c. importa di diritto l’interdizione – tra gli altri - dall’ufficio di amministratore e giustifica, quindi, sicuramente l’esclusione del medesimo dalla compagine sociale, per la sua gravità.
Va tenuto tuttavia presente che alcune delle condotte di cui sopra (ad esempio quella punita dall’art. 2622 c.c.), sono perseguibili a querela della persona offesa, ovvero è possibile denunciare il reato a pena di decadenza solo entro 3 mesi dalla effettiva conoscenza del fatto di reato.

In alternativa alla responsabilità penale – oppure in aggiunta e concorrente con quest’ultima – può configurarsi anche la responsabilità dell’amministratore sotto il profilo civilistico, che potrà essere fatta valere (e ciò anche nelle società di persone, secondo la regola dettata dall’art. 2395 cod. civ. per le società di capitali) anche dal singolo socio – oltre che dalla società – (solamente) qualora quest’ultimo abbia subìto un danno diretto a causa di atti colposi o dolosi dell’amministratore.

Si è ritenuto, a tal proposito, che sia legittimato ad esperire l’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore anche il singolo socio quando il primo si sia appropriato degli utili sociali, perché questa è un’ipotesi configurabile come danno “diretto” al socio e non solo alla società.
L’azione suddetta si prescrive in cinque anni.

L’appropriazione degli utili sociali e comunque tutte le condotte tenute dall’amministratore nel caso in esame, configurano sia un’ipotesi di giusta causa di revoca del medesimo, ai sensi dell’art. 2252 cod. civ.- in quanto configurano inadempimento al mandato ad amministrare – sia legittima causa di esclusione del socio per inadempimento agli obblighi sociali, talmente grave che tra i commentatori prevale l’opinione per la quale non sarebbe possibile prevedere nello Statuto una clausola che rimetta tale decisione ad una libera e discrezionale valutazione degli altri soci.

In ordine alle modalità con cui procedere, le norme del codice civile sulle società di persone tacciono sulla necessità della unanimità dei consensi, piuttosto che sulla sufficienza di una sola maggioranza, in ordine alle decisioni assunte dai soci che riguardino la vita sociale.
La dottrina e la giurisprudenza, a partire dall’analisi dell’art. 2252 c.c., per il quale “Il contratto sociale può essere modificato soltanto con il consenso di tutti i soci, se non è convenuto diversamente [2259, 2272 n. 3, 2300].”, nel tempo è giunta ad elaborare una regola, secondo la quale il discrimine è se la decisione riguardi la struttura organizzativa ovvero la gestione della società: la regola dell’unanimità è applicabile quando si tratti di decisione che tocchi le fondamenta organizzative della società, mentre la diversa regola della maggioranza è applicabile quando si tratta di decisioni che afferiscono alla gestione dell’impresa.

Sulla base di questa regola, si può legittimamente ritenere che mentre l’esclusione del soggetto in questione dalla compagine sociale richiede senz’altro l’unanimità, la semplice revoca dall’incarico di amministratore sembrerebbe richiedere solamente la maggioranza. Maggioranza tuttavia, si noti bene, che normalmente viene calcolata per capi (ovvero “per teste”) e non per quote.

Da ultimo, è opportuno ribadire ed evidenziare come il socio che chieda, in sede civile, il risarcimento del danno per inadempimento dell’amministratore avrà l’onere rigoroso di provare che il danno prospettato non sia una mera conseguenza riflessa del danno patito dalla società ma sia un danno che lui ha direttamente patito nel proprio patrimonio; sotto questo profilo, si è ritenuto da parte della giurisprudenza che il risarcimento dovuto non possa comprendere la somma versata dal socio nelle casse sociali - senza la previsione di un obbligo di restituzione in capo alla società - e successivamente imputata a capitale: “il risarcimento dovuto al socio non comprende la somma da lui versata nelle casse sociali senza la previsione di un obbligo di restituzione in capo alla società e successivamente imputata a capitale: tale versamento non è infatti riconducibile allo schema del mutuo, ma costituisce un apporto finanziario che si aggiunge a quelli rappresentati dai conferimenti imputabili alla originaria costituzione della società o al successivo aumento del capitale sociale, non restituibile al di fuori dell'ipotesi di liquidazione della società e liberamente utilizzabile da parte di quest'ultima” (Trib. S.Maria Capua V. 10 ottobre 2006).


A. B. chiede
lunedì 13/06/2022 - Toscana
“Dopo un rapporto di fornitura di circa 20 anni, per 3 anni esclusiva con una società per azioni filiale italiana di una multinazionale, che, ove non era regolamentata da contratto, è provata da regolari fatture pagatemi, mi è stato chiesto dall’azienda di verificare l’opportunità di una sponsorizzazione proposta da un dirigente, nel farlo ho scoperto che quest’ultimo cercava di sponsorizzare per circa 100.000 euro un suo socio in una società terza, che tra l’altro per codice attività risulta essere in possibile conflitto d’interessi con la filiale della multinazionale per la quale lavora.
Ho riferito tutto in modo dettagliato all’azienda (filiale multinazionale) che mi ha commissionato la consulenza, per la loro normativa interna la mia consulenza (provata per tabula) avrebbe dovuto produrre il licenziamento dl dirigente e la segnalazione alla corporate dell’accaduto.
L’amministratore delegato, amico del dirigente ha affossato tutto all’interno della azienda e alla prima occasione ha promosso il dirigente mettendolo a capo della divisione con la quale lavoravo e cambiato il fornitore “scomodo” (la mia ditta) con un’azienda di suoi amici di famiglia (anche questo è provato palesemente), totalmente fuori ruolo rispetto al lavoro affidatogli. Ho testi interni all’azienda.
Sulla base di quali norme posso agire contro questi soggetti: AD, Dirigente e azienda concorrente?
Ad ora ho individuato il 2391 Codice Civile. Grazie per l’ottimo lavoro che mettete a disposizione a saluti!”
Consulenza legale i 21/06/2022
Ai sensi dell’art. 2104 del c.c., “il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa […]”.
L’art. 2105 del c.c. dispone, inoltre, che “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore […]”.

Tanto premesso, nel concludere una sponsorizzazione in conflitto di interessi con l’impresa presso la quale è impiegato, il dirigente avrebbe posto in essere un comportamento in violazione dell’art. 2104 del c.c., poiché non avrebbe utilizzato la diligenza richiesta dall’interesse dell’impresa; nonché dell’art. 2105 del c.c., poiché avrebbe trattato affari in concorrenza con l’imprenditore.
Presupposto per entrambe le violazioni è la reale sussistenza del conflitto di interessi tra l’operazione trattata dal dirigente e l’impresa per la quale svolge la propria attività lavorativa; il dirigente/lavoratore, infatti, si troverebbe a trattare un affare in concorrenza con l’imprenditore.
Il danneggiato da tale condotta, tuttavia, sarebbe l’impresa (la s.p.a. italiana), unica che potrebbe agire per chiedere il risarcimento danni al proprio dipendente per violazione delle norme sopra citate.

In relazione all’amministratore aelegato della s.p.s., in primo luogo si deve considerare il disposto dell’art. 2391 del c.c., il quale impone all’amministratore delegato di dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l'origine e la portata; nonché di astenersi dal compiere l'operazione e di investire della stessa l'organo collegiale.

Il primo aspetto rilevante consiste nel valutare l’applicabilità della norma, che disciplina il conflitto di interessi dell’amministratore di una s.p.a., al caso concreto esposto: valutare, cioè, se il rapporto personale intercorrente con il dirigente possa integrare un’ipotesi di conflitto di interessi, tanto nell’ambito dell’operazione di sponsorizzazione, quanto nell’affidamento della fornitura ad un’impresa con la quale vantava rapporti personali extralavorativi.
Si rammenti che si ha interesse quando sussiste un ragionevole motivo di ritenere che l'amministratore, nelle concrete circostanze del caso, si rappresenti di ricavare dal compimento o dall'omissione di una determinata operazione una utilità qualitativamente e quantitativamente significativa e rilevante (Enriques; Sambucci).
L'interesse dell'amministratore è, al contrario, irrilevante quando l'utilità prospettata non è di consistenza tale da essere idonea ad influire sulle scelte di gestione o sul voto dell'amministratore.
L'interesse, che per rilevare deve avere natura patrimoniale, può essere un interesse che l'amministratore ha in proprio o che si trova a curare per conto di terzi.
In quest'ultimo caso, per far scattare gli obblighi fissati dall'art. 2391 del c.c., la cura dell'interesse del terzo deve trovare origine in un rapporto giuridicamente rilevante; in altri termini l'amministratore deve curare l'interesse del terzo in virtù di un rapporto cui l'ordinamento riconosce rilevanza giuridica, quale ad es. quello coniugale, o quello contrattuale.

Nella giurisprudenza presa in rassegna si ha sempre a riguardo a rapporti giuridicamente rilevanti (ex multis Trib. Milano, 19 gennaio 1974; Trib. Milano, 9 giugno 1977, per due casi relativi a contratti stipulati con il coniuge; Cass. Civ, 4 aprile 1998, n.3483, per un caso in cui il c.d.a. aveva deliberato di dare in affitto l'azienda della società ad altra società della quale gli stessi amministratori erano soci ed uno di questi era anche amministratore).
Entro certi limiti, anche situazioni di fatto potrebbero rilevare, purché si tratti però di situazioni cui normalmente nell'ordinamento si riconoscono effetti giuridici, quali convivenza more uxorio o le società di fatto.
Non pare invece possa essere riconosciuta rilevanza a rapporti di mera amicizia o a relazioni amorose, che, comunque, parte della dottrina considera rilevanti (Enriques).

A prescindere dalla sussistenza o meno di un conflitto di interessi dell’amministratore delegato con la s.p.a. presso il quale svolge il proprio ruolo, le conseguenze di tali condotte possono ricondursi da un lato all’annullabilità degli atti posti in essere dall’amministratore; dall’altro lato al sorgere di una responsabilità dello stesso per i danni derivati alla società dalla sua azione od omissione, nonché per i danni che siano derivati alla società dalla utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di affari appresi nell'esercizio del suo incarico.
La valutazione, pertanto, non incide sulla possibilità da parte Sua di ottenere un risarcimento, che non appare possibile mediante questa via.

La norma sulla quale occorre porre l’attenzione è l’art. 2395 del c.c., la quale presuppone la possibilità da parte dei terzi (e dei singoli soci) di agire nei confronti dell’amministratore di una società nell’eventualità in cui siano stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori; al secondo comma dispone che l'azione possa essere esercitata entro cinque anni dal compimento dell'atto che ha pregiudicato il socio o il terzo.

Affinché il terzo possa chiedere agli amministratori il risarcimento dei danni, debbono ricorrere i seguenti presupposti: il compimento da parte degli amministratori di un atto illecito nell’esercizio del loro ufficio; la produzione di un danno diretto al patrimonio del terzo, di un danno cioè che non sia semplice riflesso del danno eventualmente subito dal patrimonio sociale; il nesso di causalità materiale fra la condotta e il danno lamentato dall'attore, qualificato in termini di diretta efficacia causale della condotta.
Si tratta di una responsabilità extracontrattuale.
A fronte dell'inadempimento contrattuale di una società, la responsabilità degli amministratori nei confronti dell'altro contraente non deriva automaticamente da tale loro qualità, ma richiede la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori, del danno e del nesso causale tra questa e il danno patito dal terzo contraente. (Cass. Civ., 8 settembre 2015, n. 17794).
L'amministratore incorre in responsabilità anche quando agisce nell'interesse della società e per adempiere i doveri impostigli dalla carica assunta, se, nello svolgimento di tale attività, produce un danno diretto a terzi agendo con dolo o colpa (Cass. Civ., 3 aprile 2007, n. 8359; Trib. Milano, 2 novembre 2000).

Sulla scorta delle informazioni fornite, pare potersi ragionevolmente affermare che si possa intraprendere un’azione dell’amministratore ai sensi dell’art. 2395 del c.c., il quale con la sua condotta illecita ha cagionato un danno diretto nei Suoi confronti.

Un ulteriore aspetto da considerare può rinvenirsi, tuttavia, anche in una possibile responsabilità della s.p.a. per violazione del rapporto contrattuale sottostante alla fornitura (n.d.r. somministrazione) continuativa da Lei garantita nel corso degli anni.

In proposito va considerato che non è richiesta alcuna forma specifica per la stipula di un contratto di somministrazione di cui agli artt. 1559 e ss del c.c., che pertanto può essere concluso anche oralmente.
La dimostrazione della sussistenza del rapporto contrattuale può essere fornita anche mediante i comportamenti tenuti dalle parti in vigenza del rapporto contrattuale e mediante i precedenti rapporti commerciali tra le parti (possono essere indicativi di una prassi e quindi di un determinato comportamento stabilizzato); nonché mediante altri documenti (scambi di email, preventivi, proposte, fatture).
In via generale, ai sensi dell'art. 1560 del c.c. la determinazione circa l’oggetto del contratto di somministrazione, e nello specifico della quantità di beni o servizi da fornire, è stabilita dalle parti sulla base del loro libero accordo; in assenza di una puntuale determinazione, si presume che la quantità di beni o servizi da fornire sia quella del “normale fabbisogno” che il somministrato ha nel momento della conclusione del contratto.

Una clausola tipica del contratto di somministrazione consta nell’esclusiva a favore del somministrante di cui all’art. 1567 del c.c., la quale è finalizzata ad evitare che il somministrato (colui che riceve i beni o servizi) possa rivolgersi ad altri per la stessa fornitura di prestazioni della stessa natura.
Un’eventuale violazione della clausola di esclusività comporta la risoluzione del e la possibilità di richiedere agire per il risarcimento del danno subito.
Tale clausola, tuttavia, deve essere pattuita nel contratto, che, nel caso di specie, non ha la forma scritta; pur potendo dimostrare la sussistenza del rapporto contrattuale, appare complessa la dimostrazione di un’eventuale clausola di esclusiva, pertanto un’azione in tal senso sembra difficilmente percorribile.

Venendo al recesso dal contratto (verbale) di somministrazione, ai sensi dell’art. 1569 del c.c. nei casi in cui non sia stata previsto un termine finale, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, dando all’altra parte, un preavviso nel termine pattuito o in quello stabilito dagli usi o, in mancanza, entro un termine congruo avuto riguardo alla natura della fornitura.
In tal senso, dimostrata la sussistenza del rapporto contrattuale e posto il recesso senza preavviso perpetrato dalla s.p.a., appare possibile agire nei confronti della stessa per il risarcimento del danno per il mancato rispetto di qualsivoglia termine per il recesso dal contratto di somministrazione in essere.

Infine, non appare possibile agire nei confronti dell’impresa concorrente subentrata nel contratto di somministrazione, in quanto soggetto terzo che non ha tenuto condotte illecite.