Sebbene il codice abbia inteso dare all’esecuzione testamentaria una definita configurazione giuridica attribuendole i caratteri dell’ufficio, questo, tuttavia, non esce dall’ambito dei rapporti privati e l’esecutore presta in sostanza un “ufficio di amico”, come si esprimevano i trattatisti meno recenti. Dunque, il designato è perfettamente libero di accettare o di rinunciare all’incarico, e ciò risulta implicitamente, ma necessariamente, dalla prima parte dell’articolo.
L’accettazione o la rinunzia, peraltro, sono soggette alla formalità indicata nella disposizione: formalità che, da un lato, dato il carattere evidentemente cogente della norma, è requisito essenziale per la validità dell’atto e, dall'altro, particolarmente per l’accettazione (che non può più essere tacita) attribuisce alla medesima carattere di pubblicità, opportunamente stabilito nell'interesse dei terzi. L’accettazione, inoltre, non tollera né condizione, né termine; la legge non risolve la questione circa la sorte dell’atto nell'ipotesi in cui siano apposti termini o condizioni, ma non sembra dubbio che, in tal caso, si configuri l’invalidità dell’atto stesso: infatti, la condizione o il termine sarebbero inscindibili dal consenso e non si potrebbero eliminare senza dare a quest'ultimo una base non rispondente alla manifestazione di volontà.
Di evidente opportunità è il terzo comma, per evitare che l’esecutore, trascurando di fare la dichiarazione di accettazione o di rinunzia, tenga in sospeso situazioni che, invece, secondo il concetto della legge, devono essere sollecitamente definite.
A proposito della rinuncia, anche rispetto al codice in vigore può sorgere la questione se, una volta intervenuta l’accettazione, l'esecutore possa rinunziare; e se, ammessa la rinuncia, questa possa effettuarsi secondo il suo arbitrio, oppure col concorso di determinate circostanze obiettivamente valutabili. In relazione al codice precedente, era discusso l’uno e l’altro punto: vi era, infatti chi, dato il carattere di ufficio da riconoscersi all'esecuzione testamentaria, non ammetteva la rinuncia; altri, invece, la ammettevano incondizionatamente, trattandosi di un ufficio di diritto privato; altri ancora ritenevano che, dopo l'accettazione, l’esecutore non potesse più abbandonare le funzioni senza giusta causa, incorrendo altrimenti in responsabilità analoghe a quelle del mandatario che rinuncia all'incarico con pregiudizio del mandante.
Quest’ultima soluzione pare preferibile anche rispetto alle nuove disposizioni; infatti, una facoltà di rinuncia, ad arbitrio, non sembra rispondente alla struttura giuridica dell'istituto, considerata come ufficio con rafforzamento di poteri e di responsabilità. Ma da ciò non deriva neppure che l’esecutore, una volta intervenuta l’accettazione, sia necessariamente ed indissolubilmente legato all’ufficio stesso, anche quando giuste ragioni concorrerebbero ad autorizzare la cessazione: ammettere tale possibilità, infatti, può rispondere agli interessi di un’esatta esecuzione del testamento ed a quelli degli eredi, meglio che una gestione trascurata. D’altra parte, poiché l’art.
710 indica vari
casi in cui l'esecutore può essere esonerato e, fra questi, l’
inidoneità in genere all’ufficio, sembra giusto ritenere che, quando si verifichi una di tali ipotesi, l’esecutore possa spontaneamente astenersi evitando il provvedimento.