AUTORE:
Gianluca Simonetti
ANNO ACCADEMICO: 2021
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea Magistrale
ATENEO: Università degli Studi di Napoli - Federico II
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
Nel lavoro di tesi ci si concentra - in particolare - sulla rilevanza dei simboli religiosi nei luoghi di lavoro, soprattutto per quel che concerne la condizione delle lavoratrici di fede islamica. Non a caso, in Europa, le donne musulmane sono quelle con il minor grado di occupazione, seguite dalle donne di fede indù, dalle ebree e dalle donne di fede ortodossa. Al contrario, le donne di fede protestante ed evangelica mostrano saggi positivi di occupazione lavorativa.
Scegliere - o non scegliere - per motivazioni religiose di svolgere un certo lavoro o intraprendere una determinata carriera, si riflette sulle opportunità di inserimento lavorativo e sociale. Ne deriva una potenziale alterazione del principio di eguaglianza in favore di una discriminazione per motivi religiosi.
Nei Paesi dell’Unione Europea vige la direttiva 2000/78/CE, in attuazione dell’art. 12 del Trattato della Comunità europea (ora art. 19 TFUE) che vieta, anzitutto, qualsiasi discriminazione - diretta e indiretta - con riferimento a una serie di fattori, compreso quello religioso. L’ambito di applicazione copre il lavoro, sia subordinato che autonomo, abbracciando le condizioni di accesso all’occupazione e di lavoro (a titolo esemplificativo: retribuzione, licenziamenti), ma estendendosi anche oltre, fino a toccare la formazione professionale e l’associazionismo sindacale (art. 3, par. 1).
È interessante notare che la direttiva colpisce tanto gli atti dei privati quanto le normative nazionali confliggenti con il divieto di discriminazione.
Passando a considerare l’incidenza della direttiva sui comportamenti dei privati, si deve rilevare che essa impone agli Stati membri di prevedere nelle proprie legislazioni un obbligo del datore di lavoro di adottare “soluzioni ragionevoli” (cioè che non richiedono un “onere finanziario sproporzionato”) per rendere effettivo il principio di parità di trattamento soltanto per quanto riguarda i disabili. Per rimuovere le altre ragioni di discriminazione, non sono previsti obblighi positivi di attivarsi né per il datore di lavoro, né per il legislatore nazionale: in particolare, non è previsto il “ragionevole accomodamento”, ben noto ad altre esperienze giuridiche.
Peraltro, il diniego opposto dal datore di lavoro ad eventuali richieste dei lavoratori dettate da esigenze di carattere religioso o di culto, per non costituire discriminazione indiretta ai sensi della direttiva e della legislazione nazionale di recepimento, dovrà essere giustificato da finalità aziendali perseguite con mezzi appropriati e necessari.
Scegliere - o non scegliere - per motivazioni religiose di svolgere un certo lavoro o intraprendere una determinata carriera, si riflette sulle opportunità di inserimento lavorativo e sociale. Ne deriva una potenziale alterazione del principio di eguaglianza in favore di una discriminazione per motivi religiosi.
Nei Paesi dell’Unione Europea vige la direttiva 2000/78/CE, in attuazione dell’art. 12 del Trattato della Comunità europea (ora art. 19 TFUE) che vieta, anzitutto, qualsiasi discriminazione - diretta e indiretta - con riferimento a una serie di fattori, compreso quello religioso. L’ambito di applicazione copre il lavoro, sia subordinato che autonomo, abbracciando le condizioni di accesso all’occupazione e di lavoro (a titolo esemplificativo: retribuzione, licenziamenti), ma estendendosi anche oltre, fino a toccare la formazione professionale e l’associazionismo sindacale (art. 3, par. 1).
È interessante notare che la direttiva colpisce tanto gli atti dei privati quanto le normative nazionali confliggenti con il divieto di discriminazione.
Passando a considerare l’incidenza della direttiva sui comportamenti dei privati, si deve rilevare che essa impone agli Stati membri di prevedere nelle proprie legislazioni un obbligo del datore di lavoro di adottare “soluzioni ragionevoli” (cioè che non richiedono un “onere finanziario sproporzionato”) per rendere effettivo il principio di parità di trattamento soltanto per quanto riguarda i disabili. Per rimuovere le altre ragioni di discriminazione, non sono previsti obblighi positivi di attivarsi né per il datore di lavoro, né per il legislatore nazionale: in particolare, non è previsto il “ragionevole accomodamento”, ben noto ad altre esperienze giuridiche.
Peraltro, il diniego opposto dal datore di lavoro ad eventuali richieste dei lavoratori dettate da esigenze di carattere religioso o di culto, per non costituire discriminazione indiretta ai sensi della direttiva e della legislazione nazionale di recepimento, dovrà essere giustificato da finalità aziendali perseguite con mezzi appropriati e necessari.