Cass. pen. n. 24795/2018
L'imputato straniero resosi responsabile di un delitto politico commesso in danno di cittadini in un Paese extraeuropeo può essere tratto a giudizio dinanzi all'autorità giudiziaria italiana anche qualora, per lo stesso fatto, sia già stato giudicato all'estero, non vigendo, salve le specifiche previsioni di cui all'art. 54 della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen del 21 novembre 1990, il principio del "ne bis in idem" internazionale. (In motivazione la Corte ha specificato che, in tal caso, è comunque necessario che il Ministro della Giustizia formuli richiesta di rinnovamento del giudizio nello Stato ai sensi dell'art. 11, comma secondo, cod. pen., alla cui efficacia non osta una pregressa richiesta di riconoscimento della sentenza straniera ex art. 12, comma secondo, seconda parte, cod. pen.).
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Può integrare un'ipotesi di delitto politico il crimine di guerra che, pur non possedendo connotati di estensione e sistematicità tali da farlo assurgere a crimine contro l'umanità, si caratterizza per una così spiccata gravità della condotta da determinare una lesione dei diritti fondamentali della persona e, pertanto, anche del cittadino, la cui tutela è sancita da norme inderogabili sia dell'ordinamento internazionale che di quello interno. (Fattispecie relativa all'esecuzione di tre volontari italiani della Croce Rossa in missione umanitaria in Bosnia-Erzegovina, catturati, depredati ed uccisi in un'azione di guerra da un reparto dell'esercito bosniaco al comando dell'imputato nell'ambito della c.d. "guerra dei convogli", caratterizzante il conflitto croato-musulmano).
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In tema di delitto politico, spetta esclusivamente all'autorità giudiziaria, e non al Ministro della giustizia, la qualificazione di un delitto come tale, con la conseguenza che il termine trimestrale previsto dall'art. 128 cod. proc. pen., entro il quale il Ministro è chiamato ad esercitare il potere di rimuovere l'ostacolo alla punibilità del fatto mediante la formulazione della richiesta prevista dall'art. 8 cod. pen., inizia a decorrere soltanto da quando il pubblico ministero comunichi al medesimo l'intenzione di procedere in relazione ad un delitto in tal modo qualificato.
Cass. pen. n. 5089/2014
In tema di estradizione per l'estero, ai fini dell'individuazione dell'ambito di operatività del divieto di estradizione di cui agli artt. 10, comma quarto, e 26, comma secondo Cost., il reato va considerato politico anche quando, indipendentemente dal bene giuridico offeso dalla condotta illecita, vi sia fondata ragione di ritenere che, proprio per la "politicità" della condotta illecita, l'estradando possa essere sottoposto nello stato straniero richiedente ad un processo non equo o all'esecuzione di una pena discriminatoria ovvero ispirata da iniziative persecutorie per ragioni politiche che ledono diritti fondamentali dell'individuo quali il diritto al rispetto del principio di uguaglianza, il diritto ad un equo processo ed il divieto di trattamenti disumani o degradanti verso i detenuti. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso il divieto di estradizione con riferimento a condanna pronunciata all'esito di processo celebrato nel rispetto dei diritti fondamentali per reati in materia di armi asseritamente commessi al fine di tutelarsi contro iniziative di appartenenti ad altri gruppi etnici all'interno di uno Stato democratico).
Cass. pen. n. 23181/2004
La qualificazione di un delitto come politico data dall'art. 8 c.p. va letta alla luce dell'art. 10 cost., secondo il quale l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale, tra le quali si pone in particolare la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che obbliga gli Stati al rispetto di alcuni diritti fondamentali nei confronti di ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione. Ne consegue che vanno definiti come politici i delitti di oggettiva gravità, commessi in danno di cittadini italiani residenti in Argentina, in esecuzione di un preciso piano criminoso diretto all'eliminazione fisica degli oppositori al regime senza il rispetto di alcuna garanzia processuale e al solo scopo di contrastare idee e tendenze politiche delle vittime, iscritte a sindacati, o partiti politico o ad associazioni universitarie, in quanto tali delitti non solo offendono un interesse politico dello Stato italiano, che ha il diritto ed il dovere di intervenire per tutelare i propri cittadini, ma anche i diritti fondamentali delle stesse vittime.
Cass. pen. n. 16808/2004
Un reato comune è soggettivamente politico, ai sensi dell'art. 8, comma terzo, c.p., allorché sia qualificato da un movente di natura politica, nel senso che l'agente sia stato determinato, in tutto o in parte, a delinquere al fine di incidere sull'esistenza, costituzione e funzionamento dello Stato ovvero favorire o contrastare idee o tendenze politiche proprie dello Stato, o anche offendere un diritto politico del cittadino, sì che non è sufficiente ad escludere la natura politica del delitto comune la circostanza che esso sia stato commesso per motivi in parte o non prevalentemente politici. (In applicazione di tale principio la Corte ha disposto l'annullamento con rinvio dell'ordinanza del Tribunale di Roma, costituito ex art. 309 c.p.p., rilevando che l'omicidio in territorio afgano della giornalista italiana Maria Grazia Cutuli, e degli altri che si trovavano con lei, era stato commesso non solo a scopo di rapina, ma anche per dimostrare all'opinione pubblica mondiale che la coalizione militare straniera, tra la quale l'Italia, che in vario modo si opponeva al regime dei talebani, non aveva acquisito il controllo del paese).
Cass. pen. n. 35488/2003
La perseguibilità dei reati contro le leggi e gli usi della guerra commessi all'estero è prevista negli articoli 13 e 231 c.p.m., secondo cui per tali reati, ove commessi in danno dello Stato italiano o di un cittadino italiano o di uno Stato alleato o di un cittadino di questo, non esistono limiti territoriali e le relative norme si applicano anche ai militari stranieri. Ne consegue che al delitto di cui agli artt. 13 e 185 commi 1 e 2 c.p.m. guerra (concorso in violenza come omicidio aggravato e continuato in danno di cittadini italiani) non è applicabile la previsione dell'art. 8 c.p. e, di conseguenza, tale delitto non può essere ricondotto alla categoria dei delitti politici, ex art. 8, comma 3, c.p.. In applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto che non sia applicabile l'indulto, di cui all'art. 2 D.P.R. n . 922 del 1953 — previsto per i reati politici e connessi nonché «per i reati inerenti a fatti bellici commessi da coloro che abbiano appartenuto a formazioni armate» (e non agli appartenenti alle Forze armate, cfr. sent. Corte cost. n. 298 del 2000) — nei confronti di un ex ufficiale delle SS., condannato per l'eccidio delle Fosse Ardeatine.
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Un reato comune è soggettivamente politico, ai sensi dell'art. 8, comma 3, c.p., allorché sia qualificato da un movente strettamente politico, il che si verifica quando il colpevole abbia agito per conseguire fini e scopi che investano la collettività sociale e incidano sull'esistenza, costituzione e funzionamento dello Stato o siano diretti a contrastare o consolidare idee e tendenze politiche e sociali, mentre non è sufficiente che il reato abbia ricadute sull'ordinamento italiano, se tali effetti non siano direttamente vuoti e perseguiti. (In applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto che l'eccidio delle Fosse Ardeatine - per cui era stato condannato un ex ufficiale delle SS - non ha connotazione politica, in quanto ordinato al fine di mantenere e rafforzare la supremazia militare dell'esercito tedesco sulle organizzazioni partigiane e sui resti dell'esercito italiano, così determinando un esito della guerra in atto (dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943) favorevole alla Germania, costituendo le ricadute della strage sulla costituzione e sul funzionamento dello Stato italiano un semplice effetto collaterale).
Cass. pen. n. 31123/2003
In tema di estradizione per l'estero, la nozione di reato politico a fini estradizionali trova fondamento non nell'art. 8 c.p., nel quale il reato politico è definito in funzione repressiva, bensì nelle norme costituzionali, che lo assumono in una più ampia funzione di garanzia della persona umana, finalizzata a limitare il diritto punitivo dello Stato straniero. Per quanto concerne il cittadino straniero in Italia, la Costituzione non fornisce una nozione rigida di reato politico, ma la subordina alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Tra tali norme si pongono le convenzioni internazionali sottoscritte e ratificate dallo Stato italiano, ed in particolare la Convenzione europea sul terrorismo del 1977, nella quale, indipendentemente dalle loro finalità, sono definiti non politici determinati atti delittuosi (in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito con la quale veniva dichiarata l'estradabilità in favore della Francia di un cittadino tunisino con riferimento alla condotta di partecipazione ad associazione criminale diretta al compimento di atti terroristici diretti all'eversione dello Stato francese, con modalità violente comprensive dell'uso di materie esponenti e attentati alla vita e all'integrità fisica di cittadini ignari).
Cass. pen. n. 767/1992
Nell'evoluzione della normativa internazionale, approdata — come atto tra i più significativi — alla Convenzione europea contro il terrorismo, ratificata dall'Italia con L. 26 novembre 1985, n. 719, emerge l'intento di contemperare non tanto la nozione in sè di reato politico, quanto la sua rilevanza a fini estradizionali, con la necessità di tutelare valori umani universali che possono risultare gravemente offesi da delitti di ispirazione politica; il che si verifica o quando il delitto abbia determinato un pericolo collettivo per la vita, l'integrità fisica e la libertà delle persone ovvero quando abbia colpito o messo in pericolo persone estranee ai moventi politici che l'hanno ispirato, ovvero, ancora, quando è stato realizzato con mezzi crudeli e con perfidia. Elementi, tutti, che lo Stato italiano, nel formulare la riserva all'atto della ratifica riguardo alla convenzione dell'estradizione per reati politici, si è impegnato a considerare. Ne deriva che la nozione di reato politico a fini estradizionali trova la sua definizione nel bilanciamento tra il valore insito nel principio costituzionale del rifiuto di consentire alla persecuzione dei cittadini e dello straniero per motivi politici e quello dei valori umani primari — consacrati nella Carta costituzionale — quando l'aggressione di tali valori abbia quei caratteri di gravità individuabili alla stregua dei criteri ora ricordati.