I poteri di cui gode il P.M. e che la legge gli attribuisce vengono distinti a seconda che si tratti delle cause di cui all’
art. 70 del c.p.c. n. 1 (cioè le cause in cui interviene, ma che avrebbe potuto proporre) o delle cause di cui agli altri numeri dell’art. 70 c.p.c. (ossia le altre cause nelle quali è soltanto chiamato ad intervenire).
La diversità di tali poteri è strettamente correlata alla rilevanza dell’interesse pubblico per il quale è previsto il suo intervento; così, se l’interesse è considerato di maggiore rilevanza sociale, al P.M. viene attribuito il potere di azione e tutti i poteri delle parti, mentre nel caso di interessi di minore rilevanza gli viene riconosciuto un potere di intervento e poteri limitati rispetto a quelli delle parti.
Due sono i principi desumibili dal primo comma della norma in esame, e cioè:
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Il P.M. ha il ruolo di parte nel processo;
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Il P.M. viene posto sullo stesso piano delle parti private.
Va ricordato che si tratta di parte in senso formale o
sui generis, in quanto ad esercitare l’azione non è il soggetto titolare del diritto.
In quanto parte (formale) può formulare domande, proporre
eccezioni (sia di carattere sostanziale che processuale), produrre documenti, dedurre prove, mentre non potrà mai compiere atti di disposizione del diritto perché non è parte in senso sostanziale (così non potrà rendere
confessione, compromettere in arbitri, ecc.).
Una deroga al principio della parità della posizione del P.M. rispettoa quella delle parti private si rinviene sul piano delle preclusioni: si ritiene, infatti, che egli possa compiere attività che sono ormai precluse alle parti quando interviene in una fase del processo in cui i termini di preclusione sono già spirati.
Altra deroga a questa parità di posizione si rinviene in materia di spese, in quanto il P.M. non può essere condannato al pagamento delle spese in caso di
soccombenza, né gli possono essere refuse le spese nel caso di soccombenza del suo contraddittore.
Nel caso di P.M. interveniente la sua attività processuale può essere esercitata nei limiti delle domande proposte dalle parti. Tale espressione viene interpretata nel senso che gli è precluso allargare l’oggetto del giudizio, proponendo domande diverse (per titolo e oggetto) da quelle proposte dalle parti.
In questi casi, infatti, la sua attività processuale è diretta a sostenere o contrastare la domanda delle parti, essendo la sua posizione assimilabile a quella di un interventore adesivo dipendente.
Dal punto di vista concreto, il P.M. potrà proporre prove, produrre documenti non offerti dalle parti, sollevare eccezioni rilevabili d’ufficio, mentre non può far valere eccezioni rilevabili ad istanza di parte.
La norma si occupa poi del potere di
impugnazione del P.M., potere che gli spetta nel caso di P.M. agente ex
art. 69 del c.p.c. ed interveniente nelle cause che avrebbe potuto proporre ex art. 70 n. 1 c.p.c. (è espressione del più ampio potere di assumere l’iniziativa processuale).
Non gli compete, invece, nel caso di P.M. interveniente nelle altre cause di cui all’art. 70 c.p.c. nn. 2,3 e 5 (in questo caso, infatti, l’attività processuale del P.M. dipende da quella delle parti, e così anche la scelta di reagire ad una sentenza ritenuta ingiusta).
Un’eccezione a quest’ultima regola, però, la si rinviene al terzo comma della norma in esame: gli viene infatti riconosciuto il potere di impugnare le sentenze relative a cause matrimoniali salvo quelle di
separazione personale tra coniugi, nonché le sentenze che dichiarano l'efficacia o l'inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali, salvo che quelle di separazione personale.
A questo proposito deve ricordarsi il disposto di cui all’art. 5 della Legge 898/1970, il quale prevede che il P.M. può proporre impugnazione avverso le sentenze di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio solamente per gli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci.
In tutti i casi in cui la legge riconosce al P.M. il potere di impugnazione, si ritiene che egli debba essere considerato parte necessaria anche del procedimento di
appello; ciò comporta che la parte privata che propone l'impugnazione deve necessariamente
notificare l'appello anche al P.M. (se viene omessa tale notificazione, il giudice dovrà ordinare l'integrazione del contraddittorio ai sensi dell'
art. 331 del c.p.c.).
Legittimato all'impugnazione è il P.M. presso il giudice
a quo, dovendosi tenere presente che, una volta proposta l'impugnazione, l'attività processuale in sede di gravame sarà svolta dall'ufficio del P.M. presso il giudice dell'impugnazione (così dinanzi alla corte d'appello, il P.M. sarà rappresentato dal Procuratore Generale della Repubblica presso la corte medesima).
Costituisce eccezione a tale ultima regola quella di cui all'art. 72 comma 5 c.p.c., il quale prevede che nelle ipotesi di cui al 3° e 4° co. (ossia nei casi di impugnazione in cause matrimoniali, ovvero di sentenze di delibazione di provvedimenti stranieri in materia matrimoniale), il potere di impugnazione è riconosciuto tanto al P.M. presso il giudice
a quo, quanto al P.M. presso il giudice
ad quem (tale scelta si ritiene sia stata dettata dalla preoccupazione di apprestare un rimedio contro l'inerzia dei P.M. presso le corti giudicanti).
Da ultimo va detto che il potere di impugnazione riconosciuto al P.M. prescinde dal presupposto della
soccombenza, il che significa che egli avrà il diritto di impugnare anche in caso di conformità della pronuncia alle sue conclusioni.