I soggetti preposti a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero sono magistrati, a cui viene attribuito il compito di svolgere funzioni particolari.
Secondo quanto stabilito dall’ordinamento giudiziario (art. 70 R.D. n. 12/1941) gli uffici del pubblico ministero, in ambito civile, sono istituiti presso i giudici collegiali, e più precisamente presso Tribunali, Corti d’Appello e Corte di Cassazione, e sono rappresentati dai procuratori della Repubblica per i Tribunali e dai Procuratori generali per le corti.
La disposizione in esame prevede la figura del c.d. pubblico ministero agente, al quale spetta l’iniziativa processuale (si dice, appunto,
esercita l’azione civile).
Il fondamento normativo del suo potere di esercitare l’azione civile e intervenire nel processo si rinviene all’art. 75 del R.D. 30.01.1941 n. 12, nonché all’
art. 2907 del c.c., il quale ultimo gli riconosce l’iniziativa della tutela giurisdizionale dei diritti.
Dall’analisi dei diversi casi in cui il pubblico ministero può assumere l’iniziativa processuale, emerge il principio secondo cui lo stesso agisce in tutte le ipotesi in cui sussiste un interesse della collettività alla pronuncia del giudice (lo stesso avviene in campo penale, ove il P.M. fa valere l’interesse della collettività alla persecuzione ed alla punizione dei reati).
Quanto appena detto impone che per la sua azione deve sussistere un presupposto essenziale, ovvero riconoscere che taluni interessi privati e talune posizioni soggettive individuali presentino una qualche rilevanza per la collettività, tale da dover ricevere tutela nel corso di un processo.
Si potrebbe pensare che forse sarebbe stato più semplice, in situazioni di questo tipo, attribuire al giudice il compito di iniziare d’ufficio il processo, ma il principio della domanda, espressione del valore costituzionale della terzietà ed imparzialità del giudice, impone che l’iniziativa processuale venga attribuita ad un altro soggetto, ossia il P.M.
I casi previsti dalla legge, in cui il P.M. ha il potere di azione, vengono raggruppati in tre diverse categorie, che sono:
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azioni che esercita in concorrenza con i titolari del rapporto sostanziale dedotto in giudizio. E’ questo il caso, ad esempio, delle azioni esercitate a tutela della corretta gestione degli enti collettivi, come le azioni di annullamento e sospensione delle delibere assembleari delle associazioni riconosciute o, ancora, delle azioni a tutela di soggetti incapaci.
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azioni che esercita in luogo dei titolari, ossia in via sussidiaria. Tra queste si può citare l’azione prevista dall’art. 227 del c.p.c., norma che attribuisce al P.M. il compito di richiedere l’esecuzione delle sentenze pronunciate dal giudice in procedimento per querela di falso, se non sia stata richiesta dalle parti.
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azioni che esercita in via esclusiva. Tra tali azioni, invece, si deve ricordare l’azione ex art. 848 del c.c., ossia per ottenere l’annullamento di atti che non abbiano rispettato la minima unità colturale.
In linea generale, da un’analisi complessiva delle norme che prevedono l’istituto del P.M. agente nel processo civile, può ricavarsi che la sua attività si fonda sul principio di tassatività, secondo cui il P.M. è tenuto ad esercitare l’azione civile e ad intervenire nel processo nei soli casi stabiliti dalla legge; questo deve intendersi nel senso che egli non può ritenersi titolare di un potere generale di agire, né che le ipotesi di azione previste possano essere suscettibili di interpretazione analogica o estensiva.
Del resto, è stato anche osservato che, se si considerasse l’art. 73 del R.D. n. 12/1941 come in grado di conferire una legittimazione ad agire al P.M in ogni ipotesi di violazione di norme cogenti, si avrebbe, in contrasto con i principi dell’ordinamento, un’incidenza dell'attività del P.M. nella sfera dell’autonomia privata.
Dei dubbi sono invece sorti in relazione a quelle norme che attribuiscono il potere di proporre azione a “
chiunque vi abbia interesse”, risultando logico chiedersi se in tali casi, tra coloro che possono proporre la domanda, possa includersi anche il P.M.
Secondo la tesi positiva il P.M. deve intendersi ricompreso tra gli interessati qualora, dalle varie disposizioni di legge che regolano la materia, emerga un interesse pubblico superiore connesso al rapporto sostanziale e che sia in grado di sorreggere la domanda proposta dal P.M.; secondo altra tesi, invece, diffusa soprattutto in giurisprudenza, la legittimazione riconosciuta a chiunque vi abbia interesse, deve fondarsi su una posizione concreta e attuale di diritto sostanziale, da cui la legge fa scaturire la legittimazione ad agire.
Altro aspetto che occorre analizzare con riferimento all’azione del pubblico ministero è quello del principio di obbligatorietà della sua azione, stabilito dall’
art. 112 Cost.. nell’ambito del processo penale (ed avente ad oggetto, dunque, l’esercizio dell’azione penale).
Ci si è chiesti, infatti, se, in mancanza di una corrispondente norma con riferimento all’azione civile del PM, debba ritenersi che non esista alcuna obbligatorietà di tale tipo di azione.
Sembra preferibile la tesi secondo cui anche nel processo civile opera il principio della obbligatorietà, da intendere nel senso che, non appena si abbia notizia di un accadimento di fatto, in presenza del quale la legge prevede l’esercizio dell’azione, il PM deve ritenersi obbligato a compiere una attività di approfondimento, a seguito della quale, se ritiene che sussistano le condizioni per richiedere una sentenza di accoglimento, proporre domanda.
Restano da esaminare, infine, la natura dell’azione esercitata dal P.M. e la sua posizione nel processo.
Per quanto concerne la natura della sua azione, si ritiene che debba parlarsi di c.d. “
mera azione”, da intendere nel senso che il legislatore ha riconosciuto al P.M. il potere–dovere di sollecitare l’emanazione di un provvedimento giurisdizionale, ma senza che tale provvedimento sia strumentale alla tutela di un diritto del quale il PM agente è titolare.
Dalla assenza di titolarità del diritto che si intende tutelare se ne fa anche discendere che egli assume posizione di parte in senso formale, volendosi con ciò rimarcare proprio le distanze tra il P.M. e la parte in senso sostanziale (ossia, con chi è titolare del rapporto sostanziale dedotto in giudizio dal P.M.).
Sotto questo profilo la sua posizione viene ad essere assimilata a quella del sostituto processuale il quale, appunto, fa valere nel processo, in nome proprio interessi altrui (infatti, parte della dottrina ha sostenuto che il P.M. sia un sostituto processuale e che la sua attività sia qualificabile come sostituzione officiosa).
D’altra parte, comunque, non è mancato chi ha preferito qualificare l’azione del P.M. come autonoma, argomentando dal rilievo che in alcuni casi l'azione è attribuita in via esclusiva al P.M. (tale ricostruzione impone di ritenere inesistente qualsiasi rapporto tra sostituto e sostituito) e che, in definitiva, il P.M. rappresenta lo Stato (inteso come Stato-collettività).