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Articolo 1001 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Obbligo di restituzione. Misura della diligenza

Dispositivo dell'art. 1001 Codice Civile

L'usufruttuario deve restituire le cose che formano oggetto del suo diritto, al termine dell'usufrutto, salvo quanto è disposto dall'articolo 995(1).

Nel godimento della cosa egli deve usare la diligenza del buon padre di famiglia(2).

Note

(1) La regola è in sintonia col diritto di usufrutto (art. 978 del c.c.), nonché con il contenuto del quasi usufrutto (art. 995 del c.c.).
(2) Se la gestione di un fondo rustico è affidata a terzi, l'usufruttuario è diligente se vigila con costanza sulle sue opere, provvedendo, in particolare, a mantenere immutata la naturale destinazione del fondo, nonché la sua capacità reddituale e il suo godimento.

Brocardi

Fructuarius causam proprietatis deteriorem facere non debet, meliorem facere potest

Spiegazione dell'art. 1001 Codice Civile

L'obbligo di restituire la cosa alla fine dell'usufrutto

L'obbligo principale che incombe sull' usufruttuario nel momento in cui si estingue il suo diritto ha per contenuto la restituzione della cosa in natura. Si è già visto che l'obbligo di restituzione, di cui il codice ha voluto dare una definizione generale, assume in diversi casi svariati atteggiamenti, come per le cose consumabili, le cose deteriorabili, le scorte di un fondo, il capitale di un credito (in tale ipotesi l'obbligo di restituzione dell'usufruttuario si converte nell'obbligo di prestarsi agli adempimenti necessari per attribuire al proprietario l'esclusiva disponibilità del capitale investito ai sensi dell' art. 1000 del c.c.). Va solamente rilevato, senza ripetere quanto detto nella spiegazione degli articoli precedenti, che l'eccezione all'obbligo di restituzione in natura non si ha soltanto nella ipotesi prevista dall' art. 995 del c.c. (cose consumabili), come sembrerebbe dalla formulazione letterale dell'art. 1001, ma si può avere anche in altre ipotesi (es. scorte di un fondo).

Se, durante l'usufrutto, l'usufruttuario ha goduto nei limiti della destinazione economica della cosa, osservando la diligenza del buon padre di famiglia ed adempiendo tutti gli obblighi che per legge o secondo il titolo erano a suo carico (custodia, vigilanza, manutenzione ecc.), l'obbligo di restituzione alla fine dell'usufrutto esaurisce tutti gli obblighi dell'usufruttuario.

Se, invece, i limiti del godimento non sono stati rispettati, oppure gli obblighi non sono stati adempiuti, l'usufruttuario sarà tenuto a risarcire i danni che il suo comportamento, positivo o negativo, avrà arrecato alle ragioni del proprietario.

Si è talvolta dubitato, sotto la vigenza del vecchio codice, se, nel caso in cui fosse stata alterata la sostanza della cosa data in usufrutto, ossia la sua destinazione, l'usufruttuario avesse anzitutto l'obbligo di restituire in pristinum la cosa, dubbio che aveva la sua radice nel problema se fosse o no ammessa nel nostro ordinamento la risarcibilità del danno in forma specifica.. La questione deve dirsi risolta grazie all' art. 2058 del c.c. che autorizza il creditore a chiedere la reintegrazione in forma specifica, quando questa sia in tutto o in parte possibile, salvo nel caso in cui il giudice ritenga che tale forma di reintegrazione risulti per il debitore eccessivamente onerosa rispetto a quella per equivalente.

Questa norma, collocata nel titolo relativo agli atti illeciti perché questo è il campo della sua maggiore applicazione, rappresenta indubbiamente un principio generale che può quindi funzionare anche nei rapporti tra proprietario e usufruttuario. Si deve solo avvertire che quando per la reintegrazione in forma specifica occorre procedere alla distruzione di qualche cosa che l'usufruttuario abbia fatto, entra in considerazione un altro limite di carattere generale, per cui non e consentito di distruggere cose la cui distruzione e di pregiudizio all'economia nazionale (art. 2933 capov. c.c.). In tal caso il creditore può pretendere solo il risarcimento dei danni per equivalente.

Quanto allo stato in cui la cosa deve essere restituita non può essere dato che un criterio generale: la cosa non deve essere restituita nello stato in cui era all'inizio dell'usufrutto ma nello stato in cui si trova per effetto del godimento da parte dell'usufruttuario, godimento che, se contenuto nei limiti stabiliti dalla legge o dal titolo, non può essere fonte di responsabilità per il titolare, anche se la cosa sia alterata nella sua consistenza originaria ovvero nella sua attitudine produttiva.


La diligenza nel godimento

Uno dei criteri fondamentali che determinano la normalità del godimento dell'usufruttuario, e quindi delimitano il contenuto dell'obbligo di restituzione, è quello posto nel capoverso dello stesso art. 1001 per cui nel godimento della cosa l'usufruttuario deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Questo criterio fondamentale, già incidentalmente messo in luce dall'art. 497 del codice del 1865, non sempre è stato valutato nella sua giusta portata, tanto che a qualcuno è apparso come un duplicato dell'obbligo di conservare la destinazione economica della cosa e che, in sede di elaborazione del nuovo codice, la Commissione delle Assemblee Legislative ne aveva proposto addirittura la soppressione.

Ovviamente, nell'ambito della destinazione economica della cosa, le modalità e le gradazioni del godimento possono essere svariate e che perciò può essere assai utile porre un criterio generale che di quello determini la misura. Ora, la diligenza del buon padre di famiglia, richiamata nell'art. 1001 come criterio limite del godimento dell'usufruttuario, presuppone il rispetto della destinazione economica della cosa e l' adempimento degli obblighi particolari che incombono all'usufruttuario e che saranno esaminati in occasione delle singole disposizioni. Naturalmente nell'adempimento di ognuno di questi obblighi l'usufruttuario deve osservare, in base a una regola generale, la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1224 cod. 1865 e art. 1175), ma qui la diligenza non è il contenuto dell'obbligo ma solo la misura e il grado del comportamento dovuto dal debitore. Invece, nel senso in cui ne parla l'art. 1001, la diligenza media è il contenuto di un obbligo autonomo che opera nella sfera di libertà riservata al godimento dell'usufruttuario dove cioè non operano i limiti e gli obblighi specifici stabiliti per l'usufruttuario dalla legge o dal titolo. L'obbligo della diligenza non rappresenta perciò un limite estrinseco della situazione tutelata per l'usufruttuario ma è una condizione intrinseca del godimento che ne determina il modo e l'intensità.

Precisata l'autonomia dell'obbligo in oggetto, si deve però rilevare che il suo contenuto è necessariamente vago e generico e nei suoi atteggiamenti concreti non può essere determinato che caso per caso. In generale si può solo dire che la diligenza che l'usufruttuario deve impiegare nel godimento della cosa non è affatto quella che la persona di ordinaria prudenza impiega nell'amministrazione e nel godimento delle cose proprie. L'usufruttuario non è obbligato a godere come godrebbe della cosa propria un diligente padre di famiglia: la condotta del diligente usufruttuario va misurata ad una stregua diversa da quella del diligente proprietario. Questa è commisurata all'interesse prevalente di conservare la cosa, quella all'interesse prevalente di conservarne il reddito. Non si può quindi pretendere che l'usufruttuario ad es. destini una parte del reddito come ammortamento per la reintegrazione della produttività della cosa che eventualmente si esaurisca per effetto di un uso normale, ne che egli sopporti spese per riparazioni straordinarie (art. 1003 del c.c.), ne che egli limiti il suo godimento attuale per garantire la conservazione dell'attitudine e della potenzialità produttiva della cosa.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

480 L'obbligo fondamentale dell'usufruttuario è quello di restituire la cosa al termine del suo diritto, salvo che si tratti di cose consumabili. Ciò è espressamente sancito dal primo comma dell'art. 1001 del c.c., il quale, nel secondo comma, stabilisce l'obbligo dell'usufruttuario di godere della cosa con la diligenza del buon padre di famiglia. Quest'ultima disposizione, già contenuta nel codice del 1865 (art. 497), completa l'altra sull'obbligo della restituzione, determinando in quale stato la cosa debba essere restituita, e cioè nello stato conseguente a un uso fattone da buon padre di famiglia.

Massime relative all'art. 1001 Codice Civile

Cass. civ. n. 699/1976

L'usufruttuario deve godere il bene impiegando la diligenza del buon padre di famiglia e, pertanto, quando l'usufrutto abbia ad oggetto un fondo rustico la cui gestione sia stata affidata a terzi, è obbligato a controllare che siano compiute tutte le attività necessarie per conservare immutate la naturale destinazione del fondo e la normale efficienza dell'organizzazione, in modo da impedire, nel caso di terreni arborati e con piante fruttifere, che l'inaridimento di queste sia dovuto a mancanza di cure idonee.

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Consulenze legali
relative all'articolo 1001 Codice Civile

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C. P. chiede
venerdì 08/04/2022 - Veneto
“La Società di Mutuo Soccorso che rappresento è titolare di una donazione di un cantiere marittimo dal 1878. Il donatore ha contestualmente donato il cantiere alla Società in usufrutto perpetuo facendo però accettare al Comune intanto l'acquisizione della nuda proprietà e quindi la piena proprietà solo in caso di scioglimento della Società. A norma di codice, nel 1972 il Comune avrebbe dovuto pretendere il cantiere, invece fino ad oggi (2022) è la stessa Amministrazione che continua a sostenere che, eventualmente, deve essere prima la Società a rinunciare ufficialmente alla proprietà (e all'usufrutto). Ora si è affacciato un acquirente terzo che, invocando appunto il CC, chiede al Comune la vendita del cantiere in quanto già estintosi dal 1972 l'usufrutto. Nel frattempo, posto che il Comune invoca "problemi patrimoniali", abbiamo eseguito lavori straordinari e co-firmato l'accatastamento per la divisione della proprietà in due distinte porzioni. Cosa ne pensate?”
Consulenza legale i 21/04/2022
Con l’entrata in vigore dell’attuale codice civile, avvenuta in data 21 aprile 1942, la disposizione contenuta all’art. 3 dell’atto notarile del 1878 (denominato dal notaio dell’epoca come “Contratto di cessione di proprietà”), ha in effetti perso ogni sua efficacia.
Analizzando nel dettaglio il contenuto di tale contratto, si legge che all’art. 2 le parti convenivano il trasferimento, a titolo gratuito ed in favore del Comune di …., della “proprietà e del possesso di diritto” dell’immobile in quel medesimo contratto descritto, mentre al successivo art. 3 si precisava che la società di mutuo soccorso e di lavoro avrebbe continuato a detenere il possesso di fatto “coi diritti e gli obblighi di un usufruttuario”, e ciò fino al momento del suo eventuale scioglimento (così si deduce dall’art. 4 del contratto).

Sembra evidente, dunque, che tale atto ha prodotto un duplice effetto, e precisamente il trasferimento della nuda proprietà dell’immobile in favore del Comune di ….. e la costituzione del diritto di usufrutto sul medesimo immobile in favore della società ivi menzionata (di ciò se ne ha conferma anche dalla lettura dell’art. 5, ove è precisato che l’immobile sarebbe stato “allibrato nei registri censuari” al Comune di …. quale proprietario ed alla locale Società … quale usufruttuaria).
La natura perpetua del diritto di usufrutto così costituito, tuttavia, deve intendersi necessariamente venuta meno, come si è accennato all’inizio, con l’entrata in vigore dell’attuale codice civile, tenuto conto che il legislatore del 1942 ha introdotto il diverso principio della temporaneità dell'usufrutto, volendo in questo modo da un lato tutelare l'interesse del proprietario a non sopportare un sacrificio perpetuo del suo diritto e dall’altro soddisfare l'esigenza di garantire una libera circolazione dei beni.
Di ciò se ne trova conferma all’art. 979 c.c., ove è espressamente detto che la durata dell’usufrutto non può in alcun caso superare la vita dell’usufruttuario, con la precisazione al secondo comma che, nell’ipotesi di usufrutto costituito in favore di una persona giuridica, lo stesso non può avere durata superiore a trenta anni.

Del tutto corretto, dunque, è quanto asserito nel quesito, ossia che nel 1972 il Comune avrebbe dovuto pretendere l’immobile, considerato appunto che a quella data il diritto di usufrutto ha raggiunto la sua durata massima, con conseguente estinzione e consolidamento del diritto di proprietà piena in favore del nudo proprietario.
Corretto, tuttavia, deve anche ritenersi quanto sostenuto dagli organi amministrativi dell’ente pubblico proprietario, ossia che “deve essere prima la Società a rinunciare ufficialmente alla proprietà (e all'usufrutto)”; tale affermazione, infatti, trova il suo fondamento giuridico nel disposto di cui all’art. 1001 c.c., ove viene espressamente posto a carico dell’usufruttuario l’obbligo di restituire le cose che formano oggetto del suo diritto al termine dell’usufrutto.

Il fatto che la società… non abbia in questo lunghissimo arco temporale adempiuto al suddetto obbligo non può indurre a far ritenere che la stessa possa, a tutt’oggi, continuare a considerarsi titolare del diritto di usufrutto su quell’immobile.
A tale riguardo può invece richiamarsi quanto sostenuto da parte della dottrina, la quale, argomentando dalla natura inderogabile delle limitazioni relative alla durata dell'usufrutto (poichè imposte da norme ritenute di ordine pubblico, con conseguente nullità della clausola che preveda un usufrutto perpetuo), ha rilevato come una convenzione diretta a dar vita ad un godimento perpetuo di un bene potrebbe essere idonea a costituire il diritto di usufrutto limitatamente al periodo di tempo stabilito dall’art. 979 del c.c., cui subentrerebbe, per il periodo successivo a quello massimo consentito dalla legge, un diritto personale avente ad oggetto l'utilizzazione prevista inter partes del bene.

Pertanto, è in questi termini, ossia come diritto personale di utilizzazione, che si ritiene possa qualificarsi il rapporto in forza del quale la società…., già usufruttuaria dell’immobile, continua oggi a detenere lo stesso.
E’ anche da escludere una possibile qualificazione della attuale detenzione dell’immobile da parte della società in termini di c.d. uso atipico e perpetuo, in quanto questo comporterebbe la perdita di utilità della proprietà e la costituzione di un diritto reale atipico, incompatibile con il nostro ordinamento (in tal senso si veda Cass. civ. Sez. II sentenza n. 193 del 09.01.2020).

Né, ancora, può pensarsi di far eventualmente valere l’usucapione del diritto di proprietà su quel medesimo bene, e ciò per le seguenti ragioni.
Seppure si tratti di fattispecie astrattamente possibile in relazione ad un immobile quale quello di cui si discute, poiché si ritiene che lo stesso non possa farsi rientrare né tra i beni demaniali e neppure tra i beni del patrimonio indisponibile del Comune (in tal senso si veda Cass. civ., sentenza n. 24990 del 23.10.20217, commentata in questo sito alla seguente pagina https://www.brocardi.it/notizie-giuridiche/possibile-usucapire-terreno-comunale/1466.html ), mancherebbe nel caso di specie un elemento essenziale per il perfezionamento di detta fattispecie acquisitiva, ossia la c.d. “interversione del possesso”, il che significa che dovrebbe essersi verificato un mutamento del possesso, corrispondente all'esercizio di un diritto reale su cosa altrui, in possesso coincidente all'esercizio del diritto di proprietà, come espressamente richiesto dall’art. 1164 del c.c..

In tal senso può essere utile richiamare quanto affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 762 del 6 marzo 1976, la quale, allo stato attuale, non sembra essere stata superata da alcuna pronuncia di diverso avviso. Nella massima si legge quanto segue: "Nei rapporti con il nudo proprietario, l'usufruttuario è mero detentore della cosa, oggetto dei rispettivi diritti, a meno che abbia posto in essere interversione del possesso, la quale non può consistere in atto di semplice volizione interna, ma deve esteriorizzarsi, in modo da rendere inequivocabile e riconoscibile che il detentore, possessore in nome d'altri, ha iniziato a possedere in nome proprio".
L’intento di possedere in nome proprio sembra qui escluso da ciò che viene riferito nello stesso quesito, sia nella parte in cui si lascia intuire che anche di recente vi sono stati dei contatti tra amministrazione comunale e società (si dice “fino ad oggi (2022) è la stessa Amministrazione che continua a sostenere che, eventualmente, deve essere prima la Società a rinunciare ufficialmente alla proprietà”) sia laddove si fa riferimento ad un accatastamento co-firmato per il frazionamento dell’immobile in due diverse unità catastali (tutti elementi che denotano la volontà della società che detiene l’immobile di non disconoscere il Comune quale proprietario dello stesso).
La conclusione a cui può giungersi, dunque, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, è la seguente: il Comune è del tutto libero di addivenire in qualunque momento alla decisione di vendere l’immobile ad un terzo acquirente.
In tal caso, considerato che il diritto di usufrutto deve ritenersi ormai estinto da diversi anni, sarebbe sufficiente formalizzare tale avvenuta estinzione per procedere legittimamente alla stipula del contratto di vendita della piena proprietà di quell’immobile.
Si tenga presente che per far constare l’avvenuta riunione dell’usufrutto alla nuda proprietà è sufficiente una semplice voltura catastale, la quale troverebbe la sua giustificazione nella scadenza del termine trentennale di durata di quel diritto.
A quel punto il proprietario (sia esso il Comune che l’eventuale terzo acquirente a cui il Comune deciderà di alienare l’immobile) avrà tutto il diritto di rientrare nel possesso dell’immobile detenuto dalla società, essendo legittimato ad esercitare, in mancanza di spontanea restituzione da parte della società attuale detentrice, la c.d. azione personale di restituzione, che trova fondamento nel venir meno del titolo in forza del quale la cosa era stata trasferita.

Infine, va fatta un’ultima precisazione.
Se al momento della cessazione dell’usufrutto esistono miglioramenti eseguiti dall’usufruttuario, quest’ultimo avrà diritto ad una indennità nella misura stabilita dal codice ex art. 985 del c.c., mentre per le addizioni lo stesso usufruttuario avrà diritto, ex art. 986 del c.c., di toglierle se ciò è possibile senza danneggiare il bene, salvo che il proprietario non preferisca tenerle per sé (ma verso pagamento di un’indennità).
Nel caso in cui, poi, non sia possibile togliere le addizioni e queste costituiscano miglioramenti, sarà dovuta un’indennità secondo i criteri stabiliti per i miglioramenti; l’usufruttuario, da parte sua, potrà rifiutarsi di restituire la cosa sino al momento in cui il proprietario non gli abbia pagato le indennità (esercitando il c.d. diritto di ritenzione).