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Articolo 42 Codice Penale

(R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)

[Aggiornato al 02/10/2024]

Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva

Dispositivo dell'art. 42 Codice Penale

Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà(1).

Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge(2).

La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente, come conseguenza della sua azione od omissione(3).

Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa(4).

Note

(1) Tale comma esige per la configurabilità del reato la c.d. suitas, ovvero la coscienza e volontà della condotta. Viene quindi richiesta l'esistenza di un nesso psichico tra l'agente ed il fatto, il quale si viene a creare tutte le volte in cui la condotta è posta in essere volontariamente e quando, anche se non sussisteva tale esplicita volontà, con uno sforzo del volere la condotta integrante il reato poteva essere evitata dal soggetto.
(2) Viene precisato che, per i delitti il criterio generale di imputazione della responsabilità penale è il dolo. Solo il legislatore può derogarvi, prevedendo per un delitto sia l'ipotesi dolosa che colposa , come ad es. in tema di lesioni: dolose (art. 582 del c.p.) e colpose (art. 590 del c.p.). Ulteriore deroga è rappresentata dal delitto preterintenzionale (art. 43 del c.p.), esplicitamente previsto nelle sue sole due ipotesi di realizzazione: l'omicidio preterintenzionale (art. 584 del c.p.) e l'aborto preterintenzionale (art. 18, comma 2, l. 22 maggio 1978, n.194).
(3) Si fa qui riferimento all'ipotesi di responsabilità oggettiva, per cui un soggetto è chiamato a rispondere della propria condotta, in base al mero rapporto di causalità materiale (art. 40 del c.p.), senza necessità che si provi la sussistenza della colpevolezza. Tracce di tale responsabilità sono ravvisabili, ad esempio, in materia di reati commessi a mezzo della stampa (art. 57 del c.p.), condizioni obiettive di punibilità (art. 44 del c.p.) e aberratio delicti (art. 183 del c.p.).
(4) Le contravvenzioni, invece, sono punibili sia a titolo di dolo che a titolo di colpa. Si ricordi però che la legge sancisce una presunzione di colpa e la sussistenza del dolo potrà essere rilevante solo, ad esempio, per la maggior misura di pena da irrogare (art. 133 del c.p. comma 3).

Ratio Legis

La norma qui prende in esame l'elemento soggettivo del reato, ovvero la colpevolezza.
In merito alla definizione di colpevolezza la dottrina non è concorde. Secondo la concezione psicologica, la colpevolezza consiste nel rapporto psicologico esistente tra il soggetto agente e l'azione che cagiona l'evento. Invece, la concezione normativa ritiene che si debba parlare di rapporto di conflittualità tra la volontà del soggetto agente e la volontà della società, immanente nella norma violata, per cui assume rilievo l'atteggiamento antidoveroso della volontà, più che la volontà dell'azione causativa dell'evento.

Secondo tale impostazione l'imputabilità dell'agente (cioè la sua capacità di intendere e di volere (art. 85 del c.p.)), ne sarebbe il presupposto, contrariamente alla dottrina dominante che, invece, la ritiene uno stato della persona che nulla ha a che vedere con la colpevolezza, dal momento che un reato può essere commesso anche da un soggetto non imputabile (es.: minore di anni 14 (art. 97 del c.p.)).

Il codice infatti tratta separatamente della colpevolezza nel Titolo III dedicato al reato e dell'imputabilità nel Titolo IV dedicato al reo. Si ricordi che il principio di colpevolezza è stato confermato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 24 marzo 1988, n. 364, la quale ha stabilito che i principio in esame deve essere fondamento di qualsiasi responsabilità penale. Ne consegue, quindi, un tendenziale ripudio delle ipotesi di responsabilità oggettiva nelle quali vi è punibilità anche senza dolo o colpa.

Spiegazione dell'art. 42 Codice Penale

La norma in esame descrive essenzialmente gli elementi soggettivi del reato, la cui presenza è necessaria al fine di poter valutare la colpevolezza, e quindi la rimproverabilità, di un soggetto.

Il dolo rappresenta la forma massima di colpevolezza, oltre ad essere il criterio generale di imputazione soggettiva. Infatti, tutti i reati, per essere addebitati al colpevole, devono essere stati commessi con coscienza e volontà, tranne i casi in cui la legge espressamente punisce anche chi abbia agito con colpa o con preterintenzione (oltre l'intenzione). I vari delitti presenti nella parte speciale del codice non accennano minimamente alla necessaria presenza del dolo, dandola per scontato.

Mentre il dolo, la colpa e la preterintenzione sono descritti nei loro caratteri essenziali nell'art. 43, la responsabilità oggettiva accennata dal terzo comma (“la legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente come conseguenza della sua azione od omissione”) non ha goduto di altrettanta specificazione da parte del legislatore. Tale forma di imputazione è connotata dall'assenza di un rimprovero per dolo o colpa in relazione all'evento, e l'agente ne risponde solamente in base all'apporto causale (art. 40 da lui fornito.

Nel corso degli anni la responsabilità oggettiva è stata via via guardata sempre con maggior sfavore dagli operatori del diritto, essendo incompatibile con il principio di personalità della responsabilità penale di cui all'art. 27 della Carta fondamentale, il quale vieta la responsabilità senza colpa.
Residua cionondimeno una ristretta area in cui la responsabilità oggettiva può risiedere. La Corte Costituzionale, sin dagli anni '80, ha sancito che l'attribuzione di un reato su base meramente oggettiva contrasta con i valori della Costituzione solamente quando riguarda gli elementi più significativi della fattispecie, quali quelli direttamente fondanti l'offesa al bene giuridico tutelato dalle singole norme (senza i quali viene dunque meno la natura illecita del fatto).

La responsabilità oggettiva può allora trovare applicazione solo quando non riguarda gli elementi più significativi, e ricomprenderebbe unicamente le condizioni di punibilità estranee all'offesa.
Esemplificando, nel reato di incendio di cosa propria ex art. 423, comma 2, il soggetto viene punito perché ha messo in pericolo la pubblica incolumità, anche se egli in realtà voleva solo liberarsi di un suo bene personale. Al soggetto viene dunque attribuita la lesione del bene giuridico tutelato (la pubblica incolumità) anche se ciò non era assolutamente sua intenzione.

///SPIEGAZIONE ESTESA

I concetti di "coscienza e volontà" indicati nel primo comma della disposizione in oggetto non vanno confusi con la nozione di imputabilità, contemplata dall'art. 85, e con quella di colpevolezza, disciplinata dal successivo art. 43.

Con "coscienza e volontà" il legislatore del Codice Penale ha voluto intendere una sorta di pre-requisito dell'imputabilità e della colpevolezza. Si parla in dottrina di "suitas" per indicare la riconducibilità di una certa azione al suo autore, intendendo con tale nozione qualcosa di diverso e di antecedente rispetto alla imputabilità, che mira già ad accertare un requisito ulteriore: la capacità dell'autore di comprendere il valore sociale dell'atto posto in essere.

Così, sono venuti in rilievo i c.d. atti "automatici" i quali, trovando la loro origine al di sotto della sfera di coscienza del soggetto, non sono per questo da lui voluti. Lo stesso dicasi per gli atti "riflessi" (tosse, starnuto) e "istintivi". In tutti questi casi, sarebbe da escludere la coscienza e volontà di tali atti in capo all'agente.

Per fare un esempio concreto, si può pensare al caso di sinistro stradale mortale cagionato da un colpo di sonno del conducente. Se si è trattato sonno fisiologico conseguente ad un pasto abbondante non si esclude la configurabilità del reato, mentre se il sonno è dovuto a cause patologiche come un improvviso e non prevedibile malore, non si potrà parlare di reato.

Va poi precisato che la "suitas" assume connotati diversi a seconda dell'elemento soggettivo del reato.
Quindi, nelle fattispecie dolose (così come in quelle punite a titolo di colpa cosciente) la "suitas" consisterebbe in una coscienza e volontà reali, connotandosi sulla base di aspetti psicologico-naturalistici. Viceversa, nel caso di reati puniti a titolo di colpa, la "suitas" andrebbe identificata con una coscienza e volontà solo potenziali, avendo un contenuto ipotetico-normativo.

Sono da considerare riferibili al loro agente gli atti automatici o abituali dominabili con uno sforzo di volontà, poiché questi atti sono frutto sì di un impulso dell'agente, ma non riflesso o automatico, bensì dominabile dallo stesso.
Per esemplificare ulteriormente, la giurisprudenza ritiene che tipiche cause di esclusione della "suitas" siano, oltreché la forza maggiore e il costringimento fisico, gli stati di delirio febbrile, il sonnambulismo e i malori improvvisi in generale.
Tuttavia, l'agente non andrà esente da responsabilità allorquando, pur avendo commesso il fatto di reato durante un episodio di sonnambulismo, fosse a conoscenza di tale sua patologia, per essersi la stessa già verificata diverse volte in precedenza.

Oltre alla "suitas", anche l'imputabilità e la colpevolezza esprimono concetti diversi, che operano su piani distinti.
In generale, si ritiene che l'imputabilità vada accertata con precedenza rispetto alla colpevolezza, poiché ne costituirebbe un presupposto naturalistico. Tuttavia, altra parte della giurisprudenza ritiene che l'imputabilità costituirebbe solamente il presupposto per affermare la responsabilità dell'agente. Per questo motivo, il rapporto tra le due figure risulterebbe invertito e la colpevolezza andrebbe comunque accertata anche nei confronti di un soggetto non imputabile.

Da ultimo, la norma precisa che nelle contravvenzioni il colpevole è punito indifferentemente dal suo agire colposo o doloso (v. art. art. 39 del c.p.).

Tuttavia, bisogna rilevare come una giurisprudenza risalente ritenesse che il giudice, nel caso di contravvenzioni, sarebbe stato esentato dal compiere l'accertamento della sussistenza dell'elemento psicologico poiché sussisterebbe una "presunzione di colpa".
Tale presunzione, ritenuta priva di fondamento da attenta dottrina, è stata sconfessata anche dalla giurisprudenza più recente, la quale attualmente ritiene che l'ultimo comma della norma in esame non contenga una presunzione di colpa, affermando più semplicemente l'indifferenza rispetto all'elemento soggettivo riscontrato in capo all'autore, restando comunque necessario l'accertamento almeno della colpa.
Per quanto attiene poi al ruolo rivestito dalla buona fede, si ritiene che essa possa acquistare giuridica rilevanza solamente se derivi da un elemento estraneo all'agente che non gli permetta di avere consapevolezza intorno all'illiceità del fatto. Tale elemento deve essere provato dall'agente, che deve oltretutto dimostrare di avere tenuto una condotta diligente ai fini di una corretta informazione rispetto all'azione posta in essere.

Per esemplificare, si può pensare al caso del comportamento antigiuridico di colui che trasgredisce alla normativa in materia di rifiuti, in seguito ad un fatto positivo dell'autorità amministrativa, che sia valso in concreto a produrre un errore scusabile circa la condotta posta in essere.

Per quanto riguarda infine la possibilità di attribuire un determinato fatto al suo agente sulla base di una responsabilità "oggettiva", si è affermato come tale criterio di imputazione, previsto dal legislatore penale del 1930, contrasti oggi apertamente con il disposto di cui all'art. 27 Cost..
Il principio di personalità della responsabilità penale, infatti, vieta l'imputazione di un reato per fatto altrui o comunque non riconducibile all'imputato. La responsabilità penale, infatti, è "responsabilità per fatto proprio colpevole".

Ciononostante, residuano dei casi in cui emerge l'attribuzione di un fatto in virtù di una responsabilità di tipo oggettivo.
Si pensi al caso dell'aberratio ictus mono e plurioffensiva; all'aberratio delicti; al concorso nel reato proprio in ipotesi di mutamento del titolo del reato ex art. 117; alla finzione legale d'imputabilità sottesa all'ubriachezza non derivata da caso fortuito o forza maggiore ex art. 92.

Tuttavia, la dottrina ritiene che, anche in queste ipotesi in cui residua una forma di responsabilità oggettiva, sia necessario rivisitare le fattispecie alla luce di una responsabilità "per colpa", sanzionando il soggetto solamente se lo stesso si sia venuto a trovare in una situazione in cui non abbia utilizzato quei criteri di diligenza media che avrebbero scongiurato la realizzazione del fatto di reato.

///FINE SPIEGAZIONE ESTESA




Massime relative all'art. 42 Codice Penale

Cass. pen. n. 48944/2022

E' configurabile il dolo diretto del delitto di omicidio nella condotta del medico, non orientata da finalità terapeutiche, anche solo di natura palliativa, che somministri arbitrariamente al paziente farmaci sedativi e anestetici con esito letale, a nulla rilevando la finalità eutanasica del trattamento.

Cass. pen. n. 29611/2022

In tema di tentato omicidio, è configurabile il dolo diretto nella condotta dell'agente che, dopo aver superato la rete metallica posta a protezione di un cavalcavia autostradale, lanci in immediata successione due sassi di rilevante massa sulla carreggiata al momento del passaggio di un'autovettura, ben visibile dall'alto.

Cass. pen. n. 14795/2020

In tema di elemento soggettivo del reato, l'accertamento del dolo va tenuto distinto da quello dell'imputabilità e deve avvenire con gli stessi criteri valevoli per il soggetto pienamente capace anche nei confronti del soggetto non imputabile.

Cass. pen. n. 9311/2018

Nell'ipotesi di reato commesso da soggetto a capacità diminuita, l'indagine sulla sussistenza del dolo specifico va compiuta con gli stessi criteri utilizzabili nei confronti del soggetto pienamente capace, e cioè avvalendosi di un procedimento logico inferenziale fondato sull'esame di fatti esterni e certi, aventi un sicuro valore sintomatico del fine perseguito dall'agente.

Cass. pen. n. 13996/2018

In tema di elemento soggettivo del reato, l'indagine sulla colpevolezza di un soggetto ad imputabilità diminuita va effettuata con gli stessi criteri adottabili nei riguardi del soggetto pienamente capace, anche se la ridotta capacità di intendere e di volere può avere influenza nella ricerca del dolo specifico. (Fattispecie in cui la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza di merito per non avere svolto alcuna verifica sulla compatibilità dello stato di seminfermità dell'imputato, derivante da psicosi caratterizzata da alterazioni del pensiero ad impronta delirante persecutoria, ed il dolo specifico del reato di cui all'art. 609-quinquies cod. pen.).

Cass. pen. n. 32793/2016

L'amministratore formale di società non risponde automaticamente, per il solo fatto della carica rivestita, del reato di falso documentale commesso da altro soggetto delegato alla gestione della compagine sociale, dovendosi verificare la sua compartecipazione materiale e morale al fatto che, in quanto posto in essere in unità di tempo e di luogo, può sfuggire alla sua cognizione. (In motivazione, la Corte ha osservato che una responsabilità morale dell'amministratore di diritto può ravvisarsi, pressoché "de plano", solo per l'inosservanza di taluni obblighi connessi alla carica, come quelli relativi alla tenuta della contabilità, in considerazione della posizione di garanzia rivestita).

Cass. pen. n. 18220/2015

La regola secondo cui l'imputabilità non è esclusa né diminuita dall'ubriachezza o dall'assunzione di sostanze stupefacenti, a meno che esse non siano conseguenza di caso fortuito o forza maggiore, non esime dal dovere di accertamento della colpevolezza attraverso l'indagine sull'atteggiamento psicologico tenuto dall'agente al momento della commissione del fatto ascrittogli.

Cass. pen. n. 38343/2014

In tema di responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell'art. 5 del D.Lgs. n. 231 del 2001 all'«interesse o al vantaggio», devono essere riferiti alla condotta e non all'evento.

Cass. pen. n. 2343/2014

Il responsabile di attrezzature sportive o ricreative è titolare di una posizione di garanzia a tutela dell'incolumità di coloro che le utilizzano, anche a titolo gratuito, sia in forza del principio del "neminem laedere", sia nella sua qualità di "custode" delle stesse attrezzature, come tale civilmente responsabile, fuori dall'ipotesi del caso fortuito, dei danni provocati dalla cosa ex art. 2051 cod. civ, sia quando l'uso delle attrezzature dia luogo a un'attività da qualificarsi pericolosa ai sensi dell'art. 2050 cod. civ., rispetto alle quali egli è obbligato ad adottare tutte le misure idonee ad evitare l'evento dannoso. (Fattispecie in cui è stata affermata la colpevolezza sia del legale rappresentante della società gerente il "kartodromo" sia del responsabile della pista per il decesso di una cliente, alla quale era stato consentito di accedere al "kart" nonostante indossasse una sciarpa che le cingeva il collo, la quale, impigliandosi nei meccanismi del circuito, ne aveva provocato la morte per soffocamento).

Cass. pen. n. 4107/2009

Il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto doloso, sia nel caso in cui la condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell'evento secondo lo schema del concorso di cause indipendenti, sia in quello della cooperazione colposa purché, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella sua condotta siano presenti gli elementi della colpa, in particolare la finalizzazione della regola cautelare violata alla prevenzione del rischio dell'atto doloso del terzo e la prevedibilità per l'agente dell'atto del terzo. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto configurabile il concorso colposo dei medici che avevano consentito il rilascio del porto d'armi ad un paziente affetto da gravi problemi di ordine psichico, nei delitti dolosi di omicidio e lesioni personali commessi dal paziente il quale, dopo aver conseguito il porto d'armi, aveva con un'arma da fuoco colpito quattro passanti, ucciso la propria convivente ed una condomina, ed infine si era suicidato).

Cass. pen. n. 29968/2008

La coscienza e la volontà della condotta (cosiddetta suitas ) richiamate dall'art. 42 c.p. consistono nel dominio anche solo potenziale dell'azione o omissione, che possa essere impedita con uno sforzo del volere e sia quindi attribuibile alla volontà del soggetto. Tale requisito si distingue dalla capacità di intendere e di volere richiesta dall'art. 85 c.p., non implicando la consapevolezza di ledere o esporre a pericolo il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice.

Cass. pen. n. 13943/2008

In tema di colpa generica, nei casi in cui la res produttiva dell'evento lesivo rientri nella normale disponibilità di un soggetto, è necessario valutare con particolare attenzione l'osservanza, da parte del predetto, degli obblighi cautelari sanciti dalle comuni regole di prudenza, ma non può ritenersi operante, agli effetti penali, la regula iuris dettata dall'art. 2051 c.c. quanto alla distribuzione degli oneri probatori. (Fattispecie nella quale l'imputata è stata riconosciuta responsabile delle lesioni colpose provocate alla P.O. meccanico intento a verificare la corretta funzionalità del pedale della frizione della vettura di proprietà dell'imputata da un ago di una siringa conficcato nel tappetino posto sotto il sedile di guida ).

Cass. pen. n. 36055/2004

In tema di disciplina igienica dei prodotti destinati all'alimentazione, sulla base della disposizione di cui all'art. 5, comma primo lett. b) della legge 30 aprile 1962, n. 283, chiunque detiene per la somministrazione un prodotto non conforme alla normativa deve rispondere a titolo di colpa per non aver fatto eseguire i controlli necessari ad evitare l'avvio del prodotto al consumo; pertanto il legale rappresentante od il gestore di una società è responsabile per le deficienze della organizzazione di impresa e per la mancata vigilanza sull'operato del personale dipendente, salvo che il fatto illecito non appartenga in via esclusiva ai compiti di un preposto, appositamente delegato a tali mansioni. (Nel caso di specie la S.C. ha confermato la valutazione espressa dal giudice di merito circa la responsabilità del titolare della ditta gestoria della cucina di una mensa scolastica in relazione alla detenzione per il consumo di una quantitativo di carne in cattivo stato di conservazione per la presenza di cariche microbiche).

Cass. pen. n. 39949/2003

Il legale rappresentante di una società di capitale è responsabile del reato di cui all'art. 51, secondo comma, del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22, per avere effettuato il deposito incontrollato di rifiuti di demolizione, atteso che questi risponde, almeno per culpa in vigilando, delle operazioni di gestione dei rifiuti compiute dai dipendenti, salva la dimostrazione di una causa di esonero della responsabilità.

Cass. pen. n. 34620/2003

Nel caso di imprese gestite da società di capitali, gli obblighi concernenti l'igiene e la sicurezza del lavoro gravano su tutti i componenti del consiglio di amministrazione. La delega di gestione in proposito conferita ad uno o più amministratori, se specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega. (Fattispecie relativa ad impresa il cui processo produttivo, riguardando beni realizzati anche con amianto, aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri. La Corte ha ritenuto, pur a fronte dell'esistenza di amministratori muniti di delega per l'ordinaria amministrazione, e dunque per l'adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori od aspetti particolari dell'attività produttiva, che gravasse su tutti i componenti del consiglio di amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell'azienda, il cui radicale mutamento — per l'onerosità e la portata degli interventi necessari — sarebbe stato indispensabile per assicurare l'igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali).

Cass. pen. n. 19642/2003

Il legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni non è responsabile allorché l'azienda sia stata decentrata, mediante una suddivisione preventiva, in distinti settori, rami o servizi ed a ciascuno di questi siano stati in concreto preposti soggetti qualificati ed idonei, dovendosi presumere in re ipsa la sussistenza di una delega di responsabilità, anche organizzative e di vigilanza, per le singole sedi, anche in assenza di un atto scritto. (Nella fattispecie è stato ritenuto che il legale rappresentante di una società di gestione di autogrill lungo le autostrade non fosse responsabile di una contravvenzione relativa alla detenzione per la vendita di un rilevante numero di bottiglie di acqua minerale in cattivo stato di conservazione).

Cass. pen. n. 10671/1997

L'assunto dell'esclusione della responsabilità del titolare di un albergo e dell'individuazione della medesima nella persona del capocuoco, nel caso di rinvenimento di carne in iniziale stato di putrefazione nel frigorifero della cucina, dà luogo soltanto ad una chiamata di correo. Al predetto titolare deve essere addebitato l'illecito quanto meno a titolo di negligenza, consistente nell'avere omesso il controllo sull'operato del capocuoco, e per culpa in eligendo, rappresentata dall'avere preposto alle cucine un soggetto privo della necessaria capacità professionale.

Cass. pen. n. 9542/1996

Il concorso colposo non è configurabile rispetto al delitto doloso, richiedendo l'art. 42, comma secondo, c.p. un'espressa previsione che manca in quanto l'art. 113 c.p., che parla di cooperazione nel delitto colposo e non già di cooperazione colposa nel delitto, contempla il solo concorso colposo nel delitto colposo.

Cass. pen. n. 12710/1994

Nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare giuridica rilevanza solo a condizione che si traduca in mancanza di coscienza dell'illiceità del fatto (commissivo od omissivo) e derivi da un elemento positivo, estraneo all'agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto. La prova della sussistenza di un elemento positivo di tal genere, però, deve essere data dall'imputato, il quale ha anche l'onere di dimostrare di aver compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso, la Suprema Corte ha ritenuto che tale onere probatorio non potesse ritenersi adempiuto attraverso la mera produzione in giudizio di una fattura rilasciata da un architetto, che il ricorrente assumeva di avere incaricato di provvedere alle pratiche amministrative necessarie per l'autorizzazione dell'impianto-forno per le carrozzerie di autoveicoli da lui esercitato, allorché si consideri inoltre che il conferimento dell'incarico professionale, anche così configurato, non esonerava il ricorrente medesimo comunque dal vigilare affinché l'incaricato espletasse puntualmente l'attività affidatigli).

Cass. pen. n. 3822/1994

Nel reato contravvenzionale l'agente risponde della sua azione, sia essa dolosa o colposa, purché la medesima sia cosciente e volontaria. Detti requisiti sussistono nell'ipotesi che il reo autorizzi altra persona all'uso di cosa propria che, per le sue caratteristiche e natura, non può che essere adoperata, se non per lo scopo inerente alle medesime. In tal caso il cosciente e volontario consenso dato dall'agente al terzo per l'unico uso possibile della cosa propria implica l'adesione al comportamento illecito che della medesima farà la persona autorizzata, con ogni conseguenza in ordine al concorso nel reato da costei commesso. (Nella specie è stato ritenuto il concorso nel reato di inosservanza di provvedimento legalmente dato, a carico di persona che aveva autorizzato il figlio ad usare la propria autobotte per trasportare e vendere acqua potabile sulla pubblica via, in spregio di apposito divieto; e ciò sul rilievo che l'unico uso possibile dell'autobotte era quello che comportava la consumazione dell'illecito in questione).

Cass. pen. n. 9691/1992

La coscienza dell'antigiuridicità o dell'antisocialità della condotta non è una componente del dolo, per la cui sussistenza è necessario soltanto che l'agente abbia la coscienza e volontà di commettere una determinata azione. D'altra parte, essendo la conoscenza della legge penale presunta dall'art. 5 c.p., quando l'agente abbia posto in essere coscientemente e con volontà libera il fatto vietato dalla legge penale, il dolo deve essere ritenuto sussistente, senza che sia necessaria la consapevolezza dell'agente di compiere un'azione illegittima o antisociale sia nel senso di consapevolezza della contrarietà alla legge penale sia nel senso di contrarietà con i fini della comunità organizzata. Pertanto, anche in materia di armi e munizioni, per quanto concerne l'elemento soggettivo del reato, valgono i principi generali posti dagli artt. 42 e 43 c.p., per cui — ad eccezione di ipotesi specifiche — è richiesto il dolo generico, e cioè la coscienza e la volontà del comportamento e la previsione dell'evento da parte dell'agente quale conseguenza della sua azione od omissione, e non si richiede la coscienza dell'antigiuridicità o dell'antisocialità della condotta e tanto meno la volontà di violare una determinata norma di legge, giacché altrimenti rimarrebbe svuotato di contenuto e di efficacia il precetto della inescusabilità dell'ignoranza della legge penale contenuto nel citato art. 5 c.p.

Cass. pen. n. 2336/1992

In materia contravvenzionale è configurabile la buona fede ove la mancata coscienza della illiceità del fatto derivi non dall'ignoranza inescusabile della legge, ma da un elemento positivo, cioè da una circostanza che induce nella convinzione della sua liceità, come un comportamento dell'autorità amministrativa. (Nella specie l'imputato aveva ritenuto che l'autorizzazione di agibilità dei locali del suo insediamento produttivo rilasciatogli dal sindaco fosse comprensiva anche dell'autorizzazione allo scarico dei reflui provenienti dallo stesso insediamento, in tale erronea convinzione essendo stato indotto dal comportamento dell'autorità amministrativa).

Cass. pen. n. 5533/1991

In materia contravvenzionale — pur avendo il vigente codice penale accolto una concezione naturalistica dell'elemento soggettivo del reato, non esigendo né la coscienza dell'antigiuridicità della condotta né l'intenzione di violare la legge — non è sufficiente la semplice volontarietà dell'azione, essendo pur sempre necessaria quantomeno la colpa. In tale ambito la buona fede acquista giuridica rilevanza solo se si traduce, a causa di un elemento positivo estraneo all'agente, in uno stato soggettivo che esclude anche la colpa. Ad escludere la colpa non è sufficiente l'errore dipeso da ignoranza non scusabile, nella quale rientra l'erronea interpretazione o l'ignoranza della legge penale. Va tuttavia valutata l'attività della pubblica amministrazione, capace di determinare l'erroneo convincimento della regolarità e completezza degli adempimenti a questa spettanti, e quindi la buona fede per fatto estraneo all'agente, che incide sulle stesse condizioni sulle quali fondare la necessaria rimproverabilità della violazione ritenuta. (Fattispecie in materia di contravvenzioni di cui all'art. 663, comma terzo, TULPS per aver tenuto il registro delle pratiche non vidimato in ogni singolo foglio. Il pretore aveva ritenuto sussistente a carico dell'imputato un difetto di diligenza, sufficiente ad integrare l'elemento soggettivo del reato. La Corte di cassazione ha annullato la sentenza, rinviando al giudice di merito per nuovo giudizio, rilevando la necessità di valutare la possibile incidenza del fatto altrui [sindaco del comune a cui era stato presentato il registro per la vidimazione] nel determinare la buona fede dell'agente).

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Corrado F. chiede
domenica 25/08/2019 - Campania
“Nel mese di luglio 2019, i vigili del fuoco , a seguito di un esposto anonimo, presso il condominio dove abito, hanno effettuato un sopralluogo riscontrando l'assenza del certificato antincendio dell'autorimessa condominiale (vedasi allegato).
Ora, anche se attualmente non sono indagato, mi conviene intraprendere subito qualche iniziativa o meglio aspettare gli esiti dei vv.ff. i quali mi hanno riferito che comunque
( sia che vengano o non vengano effettuati i lavori per ottenere la SCIA antincendio) loro dovranno inviare una informativa di reato alla Procura.

Preciso che i vv.ff. già nel 2015 fecero un primo sopralluogo presso l'autorimessa in argomento ed i condomini (seppur già all'epoca 9 proprietari) non si sono mai attivati per nominare un amministratore e per fare i lavori di adeguamento antincendio. Ora sono passati quasi 4 anni e la situazione è rimasta la stessa del 2015 come si evince dal secondo sopralluogo.

Io sono diventato proprietario,con mia moglie in comunione dei beni,di uno di questi box auto, solo da pochi mesi in quanto mediante un'asta giudiziaria (avvenuta il 19.12.2018) mi sono aggiudicato un appartamento ed il pertinente box. Sono venuto in possesso del relativo decreto di trasferimento (datato 05 aprile 2019 e trascritto in conservatoria in data 12 giugno 2019) solo nel mese di giugno 2019.
Inoltre sia nella perizia del CTU che nell'avviso di vendita non è stato indicato che l'autorimessa era priva di certificato antincendio perché mai realizzato e richiesto dal costruttore come anche l'agibilita' di tutto il condominio, infatti risulta solo il collaudo statico ed una attestazione di fine lavori rilasciata dal Comune.

Preciso che io non ho mai utilizzato in alcun modo il box auto né come deposito e né come parcheggio, comunque potrei essere ritenuto responsabile del reato previsto dall'art. 20 d.lvo 139/2006?

In attesa della nomina di un amministratore e/o di un accordo con gli altri condomini proprietari per deliberare i lavori richiesti, io volevo tutelarmi dalla inerzia degli altri condomini e dal fatto che non posso essere ritenuto responsabile se altri condomini non rispettano le prescrizioni urgenti dei vv. ff. e cioè divieto di parcheggio, divieto di depositare legna e sostituire con urgenza la porta che collega i garage alla Scala che conduce agli appartamenti (tale porta era già presente nel 2015 al primo sopralluogo dei vv. ff.) probabilmente installata dal costruttore ( io non posso sostituire la porta in autonomia?).


Avv. pertanto secondo lei :

1) il costruttore ed il Comune non hanno alcuna responsabilità avendo ( nel 2009) redatto l'attestazione di fine lavori?

2) anche se il costruttore non ha mai chiesto l'agibilita' del condominio costruito ed il CPI per autorimessa?

3) se i vigili contestano solo la violazione dell'art. 20 d.lvo n. 139/2006, la Procura procederà solo nei confronti di coloro che hanno utilizzato e/o utilizzeranno l'autorimessa o anche nei confronti di coloro che risulteranno proprietari al momento della contestazione della violazione di tale articolo o anche nei confronti dei precedenti proprietari?

4) Non comporta alcuna omissione il fatto che dal primo sopralluogo dei vigili del fuoco (avvenuto nel novembre 2015) al secondo sopralluogo (avvenuto a Luglio 2019) i vigili non abbiano fatto altri controlli ed i proprietari non abbiano fatto i lavori per ottenere il CPI?

Infine, da un colloquio avuto con un responsabile vv.ff. , questi mi ha consigliato di rappresentare la mia posizione tramite una lettera da inviare a loro, alla Prefettura, al Comune ed ai Carabinieri dove ho la residenza e dove è ubicata l'autorimessa in questione (infatti i Carabinieri del mio paese già sono stati informati del secondo
sopralluogo).”
Consulenza legale i 09/09/2019
Al fine di dirimere il presente quesito pare innanzitutto opportuno riportare l'articolo 20 del D.lgs 139/2006 (funzioni del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco):

“SANZIONI PENALI E SOSPENSIONE DELL'ATTIVITÀ
1. Chiunque, in qualità di titolare di una delle attività soggette al rilascio del certificato di prevenzione incendi, ometta di richiedere il rilascio o il rinnovo del certificato medesimo è punito con l'arresto sino ad un anno o con l'ammenda da 258 euro a 2.582 euro, quando si tratta di attività che comportano la detenzione e l'impiego di prodotti infiammabili, incendiabili o esplodenti, da cui derivano in caso di incendio gravi pericoli per l'incolumità della vita e dei beni, da individuare con il decreto del Presidente della Repubblica. previsto dall'articolo 16, comma 1.
2. Chiunque, nelle certificazioni e dichiarazioni rese ai fini del rilascio o del rinnovo del certificato di prevenzione incendi, attesti fatti non rispondenti al vero è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da 103 euro a 516 euro. La stessa pena si applica a chi falsifica o altera le certificazioni e dichiarazioni medesime.
3. Ferme restando le sanzioni penali previste dalle disposizioni vigenti, il prefetto può disporre la sospensione dell'attività nelle ipotesi in cui i soggetti responsabili omettano di richiedere: il rilascio ovvero il rinnovo del certificato di prevenzione incendi; i servizi di vigilanza nei locali di pubblico spettacolo ed intrattenimento e nelle strutture caratterizzate da notevole presenza di pubblico per i quali i servizi medesimi sono obbligatori. La sospensione è disposta fino all'adempimento dell'obbligo.

Orbene , come già si evince dal nome della norma, essa presenta una natura penale, con tutte le (in questo caso favorevoli) conseguenze del caso.

Infatti, dato il richiamo ai presupposti penalistici, si applica l'articolo 42 del codice penale, il quale stabilisce che: “nessuno può essere punito per un'azione od un omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà”. Il dolo rappresenta la forma massima di colpevolezza, oltre ad essere il criterio generale di imputazione soggettiva. Infatti, tutti i reati, per essere addebitati al colpevole, devono essere stati commessi con coscienza e volontà, tranne i casi in cui la legge espressamente punisce anche chi abbia agito con colpa o con preterintenzione (oltre l'intenzione).

Fatte le necessarie premesse, è chiaro come il nuovo (e recente) proprietario non debba rispondere del reato previsto dall'articolo 20 D.lgs 139/2006, soprattutto alla luce del fatto che nel decreto di trasferimento datato 12 giugno 2019 non si fa alcun riferimento a tali irregolarità e nemmeno al precedente accertamento del 2015. Sembra potersi dunque tranquillamente affermare la mancanza di responsabilità dei nuovi proprietari. Oltretutto, è questo è assolutamente dirimente, la norma fa espresso riferimento al titolare di una delle attività soggette al rilascio del certificato in questione.

Chiariti dunque i profili strettamente penalistici, che non potranno che riguardare il titolare dell'attività soggette al rilascio del CPI (vale a dire il proprietario, o l'amministratore, per la regolarizzazione successiva all'accertamento), viene ora appunto fondamentale comprendere come si possa agire in mancanza dell'amministratore.

Per ovviare a qualsiasi futura problematica, il singolo condomino potrà fare riferimento all'articolo 1129 del codice civile, il quale conferisce a ciascun condomino di rivolgersi all'autorità giudiziaria (tramite ricorso al Tribunale competente) al fine di ottenere la nomina di un nuovo amministratore, se l'assemblea non vi provvede.

Tale norma presenta chiaramente l'utilità pratica di superare l'empasse dell'assemblea, cosicché ogni singolo condomino possa ottenere l'esercizio dei vari diritti che gli competono. Nella presente fattispecie, il nuovo amministratore, se non vuole anche lui incorrere nella violazione del succitato articolo 20, dovrà adottare gli opportuni provvedimenti “suggeriti” dai vigili del fuoco.

Per quanto concerne le responsabilità in tema di SCIA asseverata e di CPI, è chiaro come tali adempimenti sarebbero dovuti essere assolti dal proprietario del condomino, il quale ha invece omesso di procedervi. Il costruttore potrebbe semmai concorrere nel reato, ma anche qui è necessario accertare la presenza del dolo, così come sopra descritto.

Nel caso di difformità tra stato di fatto e di progetto di un immobile, la responsabilità per le violazioni della normativa urbanistica, può coinvolgere in generale il titolare del permesso a costruire, il committente, il costruttore, il direttore dei lavori e il progettista per le opere subordinate a segnalazione certificata di inizio attività (v. artt. 44 e 29 T.U.E.D.). Tutti e quattro questi soggetti, allorquando venga accertata la realizzazione di un abuso edilizio, sono chiamati a rispondere penalmente e, quindi, a pagare le relative sanzioni, nonché a sostenere in solido le spese per la demolizione dell’abuso.

Per ottenere il certificato prevenzione incendi occorre presentare apposita richiesta al comando dei Vigili del Fuoco allegando la relativa documentazione. L'iter cambia a seconda del tipo di attività:

Per le attività classificate nella Categoria A (in cui rientra l'autorimessa in questione) sarebbe stato sufficiente inviare al SUAP (Sportello Unico per le Attività Produttive, terziarie e commerciali) il progetto dell'opera e una SCIA con allegata la documentazione che attesti la conformità dell'attività realizzata alle prescrizioni vigenti in materia di sicurezza antincendio. Una volta presentata la documentazione, l'impresa ottiene la ricevuta dal SUAP e può immediatamente cominciare la sua attività. I Vigili del Fuoco effettuano controlli a campione entro 60 giorni e rilasciano, dietro richiesta, una copia del verbale della visita tecnica.

Per quanto concerne poi il quesito n. 4, gli altri condomini potrebbero rispondere delle relative omissioni, dato che non hanno provveduto alla nomina di un amministratore nel periodo intercorrente tra le due diverse contestazioni.

Da ultimo, pare opportuno segnalare che il nuovo proprietario potrebbe sicuramente citare in giudizio il venditore del box garage (i responsabili dell'asta giudiziaria in questo caso), al fine di ottenere il risarcimento del danno, data l'impossibilità di utilizzo del box, se non addirittura l'annullamento del contratto, qualora si ritengano sussistenti i presupposti di cui agli articoli 1427 e seguenti del codice civile.