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Articolo 1119 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Indivisibilità

Dispositivo dell'art. 1119 Codice Civile

Le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso(1) della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio(2).

Note

(1) La maggiore o minore comodità di uso, secondo la giurisprudenza, va valutata, oltre che con riferimento all'originaria consistenza ed estimazione della cosa comune, considerata nella sua funzionalità piuttosto che nella sua materialità, anche attraverso il raffronto fra le utilità che i singoli condomini ritraevano da esse e le utilità che ne ricaverebbero dopo la divisione.
(2) Le parole "e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio" sono state aggiunte dall’art. 4, L. 11 dicembre 2012, n. 220, in vigore dal 17 giugno 2013.
Dopo la riforma, quindi, la divisione delle cose comuni richiede sempre il consenso unanime dei condomini.

Spiegazione dell'art. 1119 Codice Civile

Indivisibilità normale delle parti comuni

La comunione delle parti dell'edificio prevista dall' art. 1117 del c.c. è determinata dall'essenza stessa delle parti o dalla loro naturale destinazione. Si comprende, quindi, come tali parti siano state dichiarate non soggette a divisione, in quanto dividendosi non assolverebbero più la loro funzione. È stata prevista una eccezione soltanto per il caso in cui la divisione possa farsi, rendendo non solo possibile l'uso della cosa a ciascun condomino, ma rendendolo ugualmente comodo come nello stato di indivisione.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

526 Le cose che, se il contrario non risulta dal titolo, formano oggetto di proprietà comune sono indicate — ma l'elenco non ha carattere tassativo — nell'art. 1117 del c.c.: esse sono dichiarate indivisibili, a meno che la divisione possa farsi senza rendere a ciascun condomino più incomodo l'uso della cosa (art. 1119 del c.c.). Il diritto di ciascun condomino sulle cose comuni, sempre che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionato al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene (art. 1118 del c.c., primo comma). Si determina in tal modo un criterio unico per tutte le cose comuni, innovando al R. decreto-legge 15 gennaio 1934, n. 56, convertito nella legge 10 gennaio 1935, n. 8, sulla disciplina, dei rapporti di condominio delle case, il quale (art. 5), relativamente al suolo, ai locali della portineria, ai cortili, alle terrazze, ai giardini e ad altre cose comuni, disponeva che si tenesse pure conto della natura e della destinazione della cosa e, sussidiariamente, perfino dell'uso: la semplificazione della disciplina offre anche il vantaggio di renderne più agevole l'applicazione. E' precluso al condomino di sottrarsi al contributo per la conservazione delle cose che sono oggetto di proprietà comune mediante rinuncia al suo diritto sulle cose stesse (art. 1118, secondo comma), salvo, naturalmente, che la rinuncia sia consentita dagli altri partecipanti.

Massime relative all'art. 1119 Codice Civile

Cass. civ. n. 1610/2021

La cessione delle singole unità immobiliari separatamente dal diritto sulle cose comuni, vietata ai sensi dell'art. 1118 c.c., è esclusa soltanto quanto le cose comuni e i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva siano, per effetto di incorporazione fisica, indissolubilmente legate le une alle altre (cd. condominialità "necessaria" o "strutturale") oppure nel caso in cui, pur essendo suscettibili di separazione senza pregiudizio reciproco, esista tra di essi un vincolo di destinazione che sia caratterizzato da indivisibilità per essere i beni condominiali essenziali per l'esistenza delle proprietà esclusive, laddove, qualora i primi siano semplicemente funzionali all'uso e al godimento delle singole unità (cd. condominialità "funzionale), queste ultime possono essere cedute anche separatamente dal diritto di condominio sui beni comuni. (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO TRIESTE, 25/09/2015).

Cass. civ. n. 4014/2020

In tema di divisione di beni comuni, gli artt. 1119 e 1112 c.c. hanno una "ratio" diversa e forniscono differenti tutele: il primo contempla una forma di protezione rafforzata dei diritti dei condomini, in omaggio al minor "favor" del legislatore per la divisione condominiale e, conseguentemente, contiene la prescrizione dell'unanimità e la tutela del mero comodo godimento del bene, in relazione alle parti di proprietà esclusiva; il secondo costituisce un'eccezione alla regola generale della divisione della comunione disposta dall'art. 1111 c.c., tutela la destinazione d'uso del bene e, per questo, ammette che la divisione sia richiedibile anche da uno solo dei comproprietari, con la sola subordinazione della stessa alla valutazione giudiziale che il bene, anche se diviso, manterrà l'idoneità all'uso cui è stato destinato.

Cass. civ. n. 26041/2019

L'art. 1119 c.c. nel nuovo testo modificato dall'art. 4 della l. n. 220 del 201, va interpretato nel senso che "le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione", a meno che - per la divisione giudiziaria - "la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino" e - per la divisione volontaria - a meno che non sia concluso contratto che riporti, in scrittura privata o atto pubblico, il "consenso di tutti i partecipanti al condominio"; quest'ultimo requisito non è richiesto per la divisione giudiziaria.

Cass. civ. n. 867/2012

In tema di condominio di edifici, poiché l'uso delle cose comuni è in funzione del godimento delle parti di proprietà esclusiva, la maggiore o minore comodità di uso, cui fa riferimento l'art. 1119 c.c. ai fini della divisibilità delle cose stesse, va valutata, oltre che con riferimento all'originaria consistenza ed estimazione della cosa comune, considerata nella sua funzionalità piuttosto che nella sua materialità, anche attraverso il raffronto fra le utilità che i singoli condomini ritraevano da esse e le utilità che ne ricaverebbero dopo la divisione. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, con motivazione ritenuta congrua, aveva disposto lo scioglimento del condominio relativamente al giardino circostante l'edificio, alla soffitta ed allo scantinato della casa, e deciso di non procedere, invece, alla divisione della terrazza comune).

Cass. civ. n. 7667/1995

In tema di condominio di edifici, poiché l'uso delle cose comuni è in funzione del godimento delle parti di proprietà esclusiva, la maggiore o minore comodità di uso cui fa riferimento l'art. 1119 c.c. ai fini della divisibilità delle cose stesse, va valutata oltre che con riferimento alla originaria consistenza ed estimazione della cosa comune, considerata nella sua funzionalità piuttosto che nella sua materialità, anche attraverso il raffronto fra le utilità che i singoli condomini ritraevano da esse e le utilità che ne ricaverebbero dopo la divisione. (Nella specie il progetto di divisione di una terrazza comune avrebbe privato il condomino assegnatario di una porzione, della veduta sul mare consentitagli nella permanenza dello stato di indivisione).

Cass. civ. n. 2257/1982

L'art. 1119 c.c. non stabilisce l'indivisibilità assoluta delle parti comuni di un edificio in condominio, ma tale indivisibilità subordina all'esigenza di non rendere più incomodo l'uso della cosa comune a ciascun condomino, cioè all'esigenza che non si alteri lo stato, e, quindi, il pacifico godimento delle parti di uso comune.

Cass. civ. n. 937/1982

Al fine di stabilire la divisibilità o meno di un'area comune a due fabbricati appartenenti a diversi proprietari e destinata all'accesso ai fabbricati stessi in due porzioni distinte da attribuire in proprietà esclusiva a ciascuna delle parti, il giudice del merito deve tenere conto della diminuzione del valore complessivo dell'area a seguito della divisione, nonché degli effetti di tale divisione sull'efficienza, funzionalità e comodità dell'accesso ai fabbricati, mentre è irrilevante ai predetti fini la deduzione di frequenti dissidi fra le parti che rendevano impossibile l'uso comune dell'area. Il giudice, poi, al fine di rendere possibile la divisione non può mai imporre a carico di uno o di entrambi i condividenti l'obbligo di procedere a modifiche o variazioni della consistenza, ubicazione o conformazione dei fabbricati, trattandosi di beni non compresi (ed insuscettibili di essere attratti) nell'oggetto della divisione, circoscritta alla sola area comune, che non può incidere sulla struttura dei fabbricati né comportare l'imposizione di oneri o limitazioni al contenuto dei diritti precedentemente esercitati o comunque spettanti sui medesimi.

Cass. civ. n. 4806/1978

Nel condominio edilizio, le parti comuni dell'edificio possono essere divise purché la divisione possa farsi senza rendere più incomodo a ciascun condomino l'uso della proprietà singola servita dalla dividenda parte comune, in quanto ne sia resa meno facile la diretta fruizione ovvero venga ridotta l'utilità ricavabile dal bene condominiale in funzione della proprietà individuale. (Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza del merito, con cui era stato dichiarato indivisibile un cortile, destinato, dopo la divisione, a fabbricarvi autorimesse, in considerazione delle limitazioni di luce e delle immissioni moleste che ne sarebbero derivate agli appartamenti dei piani inferiori nonché dell'impossibilità di destinare il cortile stesso a giardino).

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Consulenze legali
relative all'articolo 1119 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

A. T. chiede
lunedì 25/11/2024
“Sono proprietario di un'unità immobiliare adibita a studio dove esercito la mia professione. Originariamente erano costituiti da quattro piccole unità immobiliari, che in fatto, senza formalità, ho unificato, peraltro tramite modesti interventi edilizi. Dette “ex” unità danno su un corridoio che, negli atti d’acquisto, è segnalato quale parte comune del condominio come risulta dalla pianta allegata agli atti stessi. Da molti anni ormai ho stipulato con il condominio un contratto di locazione avente per oggetto dette parti comuni, per cui ho interamente il possesso di tutta la superficie. Una parte di detta “parte comune” serve, fisiologicamente ed esclusivamente, la mia proprietà, cioè le “ex” unità mobiliari. L’altra parte pur potendo avere, in tirata teoria, una modesta utilità per alcuni condomini, in fatto, prova ne sia il suo lunghissimo stato di locazione, di cui dicevo, non servirebbe a nessuno. Ho fatto più volte la proposta di acquisto di dette parti comuni, consenso di tutti i condomini, salvo il “solito…” (titolare di 40 millesimi) che non vuole sentire ragioni.
Ho fatto una ricerca e mi sembra di capire che se dovessi acquistare direttamente da tutti i condomini, tranne che dal soggetto di cui sopra, la rispettiva quota della comunione, potrei diventare comunista assieme al ripetuto soggetto, e richiedere la divisione giudiziaria, mettendo a sua disposizione, quale stupido trofeo, un pezzetto di balcone, accessibile per altra via. Riferimenti: artt. 112 e 119 cc; Cassazione 4014/2020; Cassazione 26041/2029”
Consulenza legale i 30/11/2024
È sicuramente possibile ottenere dagli altri condomini collaborativi la cessione delle loro quote di comproprietà sopra i corridoi comuni: tuttavia, se anche si riuscisse ad ottenere la quasi proprietà totalitaria di tali cespiti non è assolutamente scontato che il giudice riconosca la possibilità di chiederne la divisione ai sensi dell’art.1111 del c.c.
Da quel che pare di capire, nel caso specifico esistono diversi titoli della provenienza che qualificano come condominiale i corridoi, a differenza, ad esempio, della fattispecie oggetto della sentenza Cass.Civ. n.4014/2020 da lei citata, ove tale titolo pareva mancare. Questa circostanza inevitabilmente attrae il suo caso nel perimetro applicativo dell’art.1119 del c.c. rendendo sicuramente più arduo ottenere uno scioglimento della comunione per via giudiziaria. Il fatto poi che lei abbia la disponibilità totale della parte comune in forza di un contratto di locazione certamente non rappresenta un vantaggio, anzi tale contratto non fa altro che confermare la natura condominiale
del cespite comune.

Ciò non vuol dire che una volta ottenuta la proprietà delle quote degli altri comproprietari non si possa tentare un approccio con il condomino riottoso per ottenere la sua collaborazione, eventualmente ricorrendo all’istituto della mediazione ex. D.Lgs n.28/10, oppure anche pensare di intraprendere la via giudiziaria: certamente, in questo secondo caso, è importante tenere ben presente i rischi che si sono sopra indicati.


Franco D. chiede
venerdì 19/07/2024
“Nell’androne del condominio A c’è una nicchia con un contatore dell’acqua generale che serve i condominii A e B, il contratto della fornitura è intestata al condominio B da oltre 40 anni, poiché è subentrata scarsità di acqua per la moltiplicazione dei B&B, i condomini di A vorrebbero il condominio B facesse una nicchia con relativo contatore nel loro androne, rimanendo il contatore attuale solo a disposizione di A. Si precisa che il condominio B non ha mai pagato alcuna somma a favore dell’uso dell’androne di A e anticamente entrambi i condomini erano di un unico proprietario, i due edifici sono contigui ma hanno accesso su differenti strade, e infine il condominio B ( 18 unità immobiliari) ha la presa d’acqua più in basso di A (11 unità immobiliari), e ciò provoca cadute di pressione dell’acqua ad A, che quindi talvoltà rimane senza l’erogazione.
Quesito: alla luce dei fatti esposti il condominio A ha diritto di richiedere, anche giudizialmente, se necessario, al condominio B di lasciare libero l’androne di A e costringerlo a farsi un proprio impianto idrico nel proprio androne?”
Consulenza legale i 23/07/2024
A parere di chi scrive vi sono diversi ostacoli che si frappongono alle richieste dei condomini dell’edificio A.

Innanzitutto, la fornitura idrica pare possa considerarsi come un servizio supercondominiale tra i due edifici A e B: l’art.1119 del c.c. prevede che i beni e i servizi supercondominiali non possano essere divisi, salvo che la divisione non possa farsi senza rendere più incomodo l’uso del bene comune e in ogni caso ottenendo il consenso di tutti i partecipanti al condominio. In altre parole, ai sensi della norma in esame, per ottenere la divisione dell’impianto idrico comune ai due palazzi sarebbe necessario ottenere il consenso di tutti i proprietari che compongono i condomini A e B: certamente, quindi, un palazzo non può costringere l’altro a dividere. Se tecnicamente possibile, nulla vieta che il palazzo B decida di non utilizzare più l’impianto idrico in comune con l’edificio A e proceda ad installare un contatore autonomo all’interno del suo edificio, posando le relative tubature: questa, tuttavia, è una scelta che deve essere presa in assoluta autonomia dai proprietari del palazzo B nell’ambito della propria assemblea condominiale.

Visto che i due palazzi un tempo sono appartenuti al medesimo proprietario, in un ipotetico giudizio si potrebbe sostenere, inoltre, che tra i due edifici si sia costituita ai sensi dell’art.1062 del c.c. una servitù per destinazione del padre di famiglia, a carico del palazzo A (fondo servente) e a favore del palazzo B (fondo dominante). Orbene, ai sensi del successivo art. 1068 del c.c. il proprietario del fondo servente, quindi in questo caso i condomini dell’edificio A, non possono trasferire l’esercizio della servitù in un luogo diverso da quello originariamente stabilito, a meno che non si provi che l’esercizio della servitù sia divenuto per loro più gravoso. Tuttavia, in questo secondo caso, non possono pretendere che il condominio B si faccia il proprio contatore all’ interno del loro palazzo, ma devono offrire a tale condominio un altro luogo all’interno del palazzo A che garantisca un luogo altrettanto comodo per l’esercizio della servitù.

O. R. chiede
domenica 07/08/2022 - Piemonte
“Sono già vs. cliente. Separazione giudiziale in atto e divorzio giudiziale in discussione, situazione di alternanza della casa con due figli maggiorenni. Problema 1: lui vuole installare videosorveglianza con registrazione di immagini per controllare me e i figli nella SUA CASA quando è nei 15 gg di alternanza (così dice), chiedo ma NON E' VIOLAZIONE DELLA PRIVACY? C'è sistema di allarme rotto che lui non si è mai preoccupato di aggiustare e adesso mi avvisa via mail che installerà videosorveglianza, cosa posso fare oltre ad aver comunicato che io e i figli non siamo d'accordo e che la privacy sarebbe violata???
Problema 2 - Divisione impianti (acqua e luce int. a me) su due particelle catastali diverse - stessa casa dell'alternanza.
La legge impone che ogni proprietario debba avere un proprio contatore (così mi dice Enel) invece lui si ostina a non dividere i due impianti e a non rendermi indipendente per la mia casa per possibile futuro affitto o vendita della casa.
Contatore acqua ESTERNO - Contatore luce nel mio garage (dal 2004) puo' esserci usucapione da parte sua tra due anni?
Quindi lui deve richiedere due nuovi contatori (cosa che io non posso fare).
GAS intestato a lui e caldaia ll'interno di vano caldaia - propr.comune
Ditemi cosa posso fare e lo devo fare a breve.
Ditemi come posso agire legalmente (i lavori non porterebbero problematiche su parti comuni)
Grazie”
Consulenza legale i 20/09/2022
Gentile cliente,
all’interno della proprietà privata non si applica la disciplina in materia di trattamento dei dati personali (sul punto v. Reg. UE 679/2016 e c.d. Testo Unico Privacy) e di conseguenza non si può ipotizzare una violazione della privacy.

Ad avviso di chi scrive, pur trattandosi di un contesto non pubblico, la videosorveglianza non deve però ledere la dignità e il decoro delle persone o mettere in pericolo la loro incolumità.

In questo senso, a titolo meramente esemplificativo ma non esaustivo, si sconsiglia l’installazione di sistemi di videosorveglianza in zone dell’abitazione che possano essere definite come strettamente intime.

Per quanto ci è dato capire i due ex coniugi vivono in una unica abitazione divisa in due subalterni autonomi che di per se costituiscono due unità immobiliari distinte e separate di cui una intestata alla ex moglie e l’altra intestata all’ex marito.
Secondo le norme del codice civile nella abitazione così suddivisa si è venuto a costituire un condominio minimo composto da soli due proprietari, a cui dovranno essere applicate per quanto compatibili tutte le norme previste in materia dalla legge.
In particolare trova applicazione l’importante principio racchiuso nell art. 1119 del c.c., secondo il quale le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione a meno che ciò non possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino.
Nel condominio quindi la suddivisione delle parti comuni non è vista con favore dalla legge ma è condizionata al fatto che essa possa realizzarsi senza creare disagio ai proprietari nell’utilizzo dei beni e servizi un tempo comuni e nel godimento delle loro proprietà.
Sotto questo aspetto è molto interessante la pronuncia della Corte di Appello di Roma del 13.05.2008:” Poiché l’uso delle cose comuni è in funzione del godimento delle parti di proprietà esclusiva, la maggiore o minore comodità d’uso di cui all’art. 1119 c.c. ai fini della divisibilità delle coste stesse, va valutata, oltre che con riferimento all’originaria consistenza e destinazione della cosa comune, all’uopo considerata nella sua funzionalità più che nella sua materialità, anche attraverso il raffronto tra le utilità che i singoli condomini ritraevano da essa ai fini del godimento delle parti dell’edificio di proprietà esclusiva e le utilità che, agli stessi fini, ne ricaverebbero dopo la divisione. Occorre, cioè, che questa non incida sull’essenza e funzione delle porzioni della cosa già comune, di guisa che ciascuna di dette porzioni risulti idonea a realizzare il servizio a vantaggio dei beni di proprietà esclusiva cui era destinato, il tutto, senza che il godimento di essi ne risulti pregiudicato o diminuito.”
La suddivisione degli impianti comuni condominiali non è vietata in senso assoluto ma è necessario capire se essi una volta suddivisi conservino la loro utilità in rapporto all’utilizzo verso le singole unità immobiliari in proprietà esclusiva.
In concreto, è necessario che l’autrice del quesito dia incarico ad un perito il quale, esaminata l’abitazione, proceda a redigere un progetto di divisione degli impianti.
Tale progetto di divisione degli impianti potrà poi essere utilizzato da un legale per trovare un accordo bonario con l’ex marito e i suoi legali con ogni probabilità nell’ambito di una procedura di mediazione. Se tale procedura non sfocerà in un accordo sarà necessario incardinare innanzi al giudice un processo teso ad ottenere per via giudiziaria la suddivisione degli impianti ove l’utilizzo del progetto divisionale elaborato dal perito di parte avrà un ruolo fondamentale.
In merito alla installazione di un contatore autonomo per l’energia elettrica si fa presente che l’Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente) con delibera n.276/2017 ha precisato che è in linea di massima è illegale allacciare allo stesso contatore due unità abitative di per se autonome intestate a proprietari differenti.
Quindi in merito all’ impianto di energia elettrica sussiste un vero e proprio obbligo di distacco che sfugge al perimetro applicativo dell’art. 1119 del c.c. Ovviamente anche questo aspetto dovrà essere inserito nel contenzioso che si è tratteggiato poco sopra.

Chiara D. B. chiede
giovedì 08/10/2020 - Veneto
“spett Brocardi
volevo sapere se il condominio senza amministratore delibera a maggioranza in assemblea, convocata regolarmente con più del 75% presente, il distacco generale dell'acqua calda dalla centrale termica al fine di spegnere la caldaia in estate con posizionamento del bollitore in appartamento può essere imposto anche alla minoranza ,anche se non era presente in assemblea considerando che non ha mai impugnato tale delibera.
Faccio presente che la proprietà in questione non presente è proprietaria del 50% dell'appartamento , mentre l'altra proprietaria del 50% era presente all'assemblea ed ha deliberato a favore del distacco.
Evidenzio che l'inquilino conduttore di tale appartamento ha espresso il desiderio di avere il bollitore in appartamento.
grazie saluti
chiara”
Consulenza legale i 09/10/2020
Come è noto l’art. 1129 del c.c. rende obbligatoria la nomina di un amministratore per condomini composti da un numero di proprietari superiori ad otto. Per i piccoli condomini con meno di otto componenti, quindi, non è necessario procedere alla nomina di un amministratore, ma ciò non vuol dire che anche le altre norme del diritto condominiale rimangono inapplicate.

In particolare l’art. 1119 del c.c. dispone la indivisibilità delle parti comuni dell’edificio, salvo il caso che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa e comunque con il consenso dell’intera compagine condominiale. Da tale norma deriva che l’assemblea di condominio non può decidere a colpi di maggioranza la dismissione dell’impianto condominiale di acqua calda sanitaria, dovendo tale decisione essere raggiunta con il consenso unanime di tutti i proprietari. Una delibera di tale tenore deve considerarsi radicalmente nulla e può essere impugnata innanzi alla autorità giudiziaria in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse (quindi anche dai condomini contrari), benché siano decorsi i termini di trenta giorni previsti dall’art.1137 del c.c.

Bisogna però tener presente che nella fattispecie descritta entra in gioco anche un'altra norma molto importante che è quella prevista dal 4° co. dell’art. 1118 del c.c. Tale comma riconosce il diritto soggettivo del singolo proprietario di distaccarsi dall’impianto di riscaldamento comune, a condizione che da tale distacco non derivi squilibri di funzionamento dell’impianto e aggravi di spesa per gli altri condomini. Rimane comunque fermo, però, l’obbligo per chi si distacca di partecipare alle spese di manutenzione straordinaria dell’impianto. La norma in commento, a parere nostro, deve trovare applicazione anche nel caso di distacco della sola acqua calda sanitaria che è solitamente uno dei servizi erogati dall’impianto di riscaldamento dell’edificio.

Quindi, riassumendo, se da un lato l’assise non può a colpi maggioranza imporre la dismissione e la chiusura per tutti i proprietari dell’impianto di acqua calda sanitaria comune, dall’altro lato, sussistendone i presupposti, il singolo proprietario può chiedere ex art. 1118 co. 4° del c.c. di rendersi autonomo.
La richiesta di distacco deve essere corredata da una perizia di un termotecnico che dimostri che l’operazione non comporta squilibri termici nell’impianto comune o aggravi di spesa; i costi della perizia dovranno essere sostenuti da chi chiede il distacco.


Loris M. chiede
lunedì 27/04/2020 - Emilia-Romagna
“Il 19 Febbraio 2019 abbiamo acquistato, io e mia moglie, un appartamento al piano terra in una bifamiliare , dentro un borgo medievale, ma un edificio non vincolato da soprintendenza.
Prima del 18/09/1985 era una unica proprietà indivisa tra due fratelli che a quella data si sono divisi/assegnati ciascuno una unità immobiliare: piano terra e primo piano con corti esclusive adiacenti/aderenti (non sono state costituite servitù); al piano terra erano già esistenti reti fognarie (a mio avviso servitù non apparenti) per entrambi gli appartamenti, ciascuna con recapito esclusivo, ma con promiscuità. Pertanto da quella data il proprietario del piano terra è divenuta proprietario anche delle fogne esistenti, e noi nel 2019, dovremmo, di conseguenza , avere "ereditato" la situazione di cui sopra ...
Ora dovendo eseguire opere di restauro/risanamento conservativo (con titolo abilitativo già efficace) abbiamo necessità per obblighi imposti da regolamento urbanistico (RIS-Regolamento Igiene e Sanità del RUE) di eliminare fosse biologiche (obsolete), di cui una all'interno abitazione (caso frequente nel borgo) e di ricostruirle (con materiali adeguati tipo IMHOFF). Noi proponiamo, il 02/05/2019, alla condomina del 1°p. di ricostruirle indipendenti (dato che come detto hanno ciascuna un recapito DEDICATO o esclusivo), ognuno nella propria corte esclusiva con accollo ciascuno delle corrispondenti spese (fermo restando attraversamento condotte, che difficilmente si può evitare, su nostra area). In risposta la condomina ci invia PEC, tramite avvocato, in cui ci dice ok, poi con altro avvocato ci ripensa e dice no, si ricostruiscono le fogne comuni sulla nostra area esclusiva, e le spese sono ripartite proporzionalmente.
Il problema è che QUI è difficile realizzare ciò (oltre ad essere, per noi, un aggravio della "servitù"), mentre è più facile realizzarne DUE Indipendenti (probabilmente la condomina spenderebbe di più ma si elimina/riduce "servitù non costituita" e comunione con i conseguenti immaginabili problemi), ma la condomina insiste tramite legale. Dato che abbiamo ATP in corso (da noi invocata perché condomina NON vuole contribuire nelle spese di riparazione parti comuni - muro confine/sostegno, muri maestri ed umidità) ed a nostro avviso ci ostacola strumentalmente rallentandoci/fermando i lavori per indurci ad accettare (per potere proseguire dobbiamo staccare le condotte al 1°p. della condomina e svuotare ed eliminare fosse biologiche).
Pertanto, nella decisione di proseguire coi lavori, comunicheremo alla condomina che non accettiamo sua proposta di fogne comuni entro nostra area ed andremo a scollegare le SUE condotte di scarico, rendendo pertanto inutilizzabile il suo appartamento (ella comunque non HA MAI abitato al primo piano, ma è residente/dimora in altra limitrofa città - attualmente il suo appartamento che era affittato occasionalmente a "turisti", da Settembre 2019 NON è utilizzato) . Cosa può fare la condomina ? (con cui bonariamente non siamo arrivati ad accordarci)? Invocare "servitù per sentenza (1032 c.c. con indennizzo)/usucapione/servitù padre di famiglia" ? .
Posso invocare art.10 co.9-D.L.18.04.2019 n. 2 che in deroga agli artt.1120,1121,1136 c.c. dispone che possono essere eseguiti lavori per interventi di recupero relativi ad un unico immobile, disposti dai condomini (noi, piano terra) che rappresentino metà del valore dell'edificio? (non abbiamo regolamento condominiale poiché è condominio minimo, gli appartamenti sono stati definiti/dichiarati di pari valore nell'atto 18/09/1985, e comunque il nostro appartamento al piano terra ha valori intrinseci superiori - ad esempio l'accessibilità diretta e l'immediato utilizzo dell'area esclusiva , ecc. - che ne determinano un valore commerciale Superiore a quello del primo piano (condomina).”
Consulenza legale i 30/04/2020
Le lettrici nel quesito proposto offrono diversi spunti e diverse idee, ma è opportuno inquadrare correttamente la vicenda con la speranza che si riesca a chiarire a chi ci legge i corretti termini giuridici del problema.
L’edificio in cui è ricompresa l’unità immobiliare di proprietà delle autrici del quesito è un classico caso di condominio minimo, in quanto composto da solo due proprietari-condomini.
Il condominio è di fatto sorto nel momento in cui gli eredi dell’allora unico proprietario del piccolo edificio, con il rogito del 1985 procedono alla sua suddivisione, assegnandosi ciascuno una unità immobiliare.
Come ha chiarito a più riprese la giurisprudenza, il condominio minimo, rimane comunque un condominio, e come tale si deve applicare la relativa disciplina seppur con determinati distinguo dovuti, appunto, al fatto che vi è la presenza di sole due proprietà.

Alla luce di ciò, in merito all’impianto fognario deve trovare applicazione dal 1985 l’art. 1117 del c.c., che sia nel testo antecedente alla riforma del 2012 che in quello attualmente in vigore, qualifica le fogne e l'impianto idrico in genere come bene comune ai proprietari delle singole unità immobiliari. In forza di questo, quindi, nel momento in cui le autrici del quesito hanno acquistato la proprietà dell’appartamento, hanno acquisito automaticamente anche la comproprietà delle parti comuni del piccolo edificio, tra cui, inevitabilmente, è ricompreso ai sensi dell’art.1117 del cc. l’impianto idrico fognario. Tale comproprietà, deve essere necessariamente condivisa con l’altro condomino in quote che si presumono uguali secondo quanto dispone il 1° co. dell'art. 1101 del c.c.

Un'altra norma fondamentale nel diritto condominiale che trova sicuramente applicazione nel caso descritto è l’art. 1119 del c.c., il quale ci dice che la comunione che insiste nelle parti comuni dell’edificio, quindi nel nostro caso insistente sull’ impianto fognario, non può essere sciolta, a meno che non vi sia il consenso unanime di tutti i proprietari, e ciò non comporti un uso più incomodo della cosa.
La norma appena citata risulta essere fondamentale per dare una risposta al caso illustrato e deve essere tenuta ben presente dalle lettrici, in quanto ogni lavoro di modifica all’impianto idrico e fognario della casa deve essere fatto di comune accordo con la loro vicina di casa, e, in ogni caso, non deve andare ad arrecare pregiudizio all’efficienza del sistema fognario stesso.

L’art. 1119 del c.c. impedisce che uno dei due condomini possa procedere unilateralmente al distacco delle condotte di scarico pertinenziali all’abitazione del vicino, escludendo di fatto l’unità immobiliare dalla fruizione di un servizio comune condominiale.
Alla luce di ciò, se le lettrici volessero intraprendere questa strada, compirebbero un atto illecito, contrario ad una basilare norma di diritto condominiale, e offrirebbero la possibilità al legale che tutela gli interessi della loro controparte di adire il giudice al fine di ottenere un provvedimento di urgenza per bloccare i lavori intrapresi, chiedendo, inoltre, il ristoro di tutti i danni subiti.
L’art. 1119 del c.c. non può essere derogato dal fatto che i lavori sono stati autorizzati dal Comune da un apposito titolo edilizio. Ogni provvedimento edilizio emesso dalla autorità comunale volto ad autorizzare la realizzazione di ristrutturazione negli edifici, reca sempre una clausola molto importante: i diritti dei terzi devono essere sempre rispettati in ogni fase della esecuzione dei lavori; e il provvedimento che è stato dato in visione, ovviamente, non fa eccezione.

Non può derogare all’art. 1119 del c.c. neppure il comma 9 dell’art. 10 del D.L. n.32 del 2019, in quanto norma eccezionale che trova applicazione solo in determinati comuni interessati da eventi sismici, e il comune in cui è sito l’edificio descritto nel quesito non è ricompreso tra i comuni in cui possa trovare applicazione il provvedimento legislativo citato, e comunque il comma 9 dell’art. 10 del D.L n32/2019 non deroga espressamente all’art. 1119 del c.c.

Il consiglio, quindi, che ci si sente di dare è quello di tentare di “seppellire l’ascia di guerra” appianare il più possibile ogni divergenza insorta e cercare di trovare un accordo con la vicina, in quanto senza la sua approvazione nessuna modifica potrà essere fatta all’impianto fognario.

Gianfranco B. chiede
lunedì 11/06/2018 - Piemonte
“In seguito alla morte di una signora ereditai un alloggio al primo piano di una casa. Un altro alloggio situato al primo piano in posizione speculare al mio fu lasciato in eredità ad una cugina della defunta. I due alloggi hanno in comune la scala ed il corridoio di accesso dove sono sistemati i contatori - Inoltre in comunione risulta essere anche la caldaia del riscaldamento posta nello scantinato, la quale viene alimentata a gasolio da un serbatoio posto nel giardino presso lo scantinato .- Vi sono sempre discussioni per il pagamento delle spese - Il marito della cugina ha rivolto nei miei confronti minacce di violenza e di danni alle cose, puntualmente denunciate .- Posso chiedere lo scioglimento della comproprietà e come devo agire - Io acquisterei volentieri la sua proprietà e venderei volentieri la mia pur di togliermi da questa insostenibile situazione .-
Consulenza legale i 19/06/2018
La comunione ordinaria disciplinata dagli artt. 1100 e ss. del c.c., si verifica quando più soggetti sono contitolari della proprietà su un bene o di altri diritti reali. Il legislatore ritiene tale fattispecie come un impedimento alla normale circolazione del bene, e pertanto all’art. 1111 del c.c., dispone come principio generale che ogni partecipante possa sempre richiedere lo scioglimento della comunione.
Il condominio è una particolare forma di comunione, disciplinata dagli artt. 1117 e ss. del c.c., che viene posta in essere per il solo fatto che in un edificio, vi siano parti in proprietà esclusiva, e parti in proprietà comune a tutti i proprietari, volte a rendere più comodo e meno gravoso il godimento e l’utilizzo delle singole unità abitative.
Se la comunione ordinaria è una fattispecie che può porsi in essere anche per la volontà degli stessi partecipanti (si pensi al caso di una coppia convivente che acquista in ragione di una metà ciascuno un immobile),il condominio viene definita una comunione forzosa, che si realizza necessariamente per disposizione di legge a prescindere dalla volontà dei singoli condomini. Proprio per questo motivo i commi 2° e 3°dell’art. 1118 del c.c. dispongono che il partecipante al condominio non può rinunziare al suo diritto sulle cose comuni e sottrarsi al pagamento degli oneri condominiali.
Il successivo art. 1119 del c.c. dispone, inoltre, contrariamente a quanto disposto dall’art.1111 del c.c. per la comunione ordinaria, che le parti comuni dell’edificio non sono suscettibili di divisone.
L’ unica deroga a questo importante principio, è la possibilità di procedere alla divisione quando questa non rechi pregiudizio all’ uso delle parti comuni, e sia fatto con il consenso di tutti i condomini.
I servizi e i beni comuni elencati nel quesito (riscaldamento, scale, corridoio e contatori elettrici), non sono di certo suscettibili di divisione, in quanto il farlo comporterebbe un totale sventramento e modifica dell’intero edificio.
Motivo per cui l’unico modo per l’autore del quesito di liberarsi della comunione condominiale e dello scomodo vicino è quello di porre in vendita la propria unità abitativa e andarsene da un’altra parte. Non esistono, d’altro canto, nel nostro ordinamento degli istituti che costringano una persona a porre in vendita forzatamente il proprio immobile, per fare in modo di appianare liti condominiali; delle disposizioni di legge di tal fatta, sarebbero altamente incostituzionali. Nulla vieta che l’autore del quesito, in alternativa alla vendita della propria unità abitativa, faccia una offerta in libero mercato al suo vicino molesto per l’acquisto dell’appartamento da lui abitato.


Gian L. P. chiede
martedì 07/02/2017 - Piemonte
“COME SCIOGLIERE UN CONDOMINIO ?
Condominio costituito dai precedenti Proprietari nel 1981,
relativo a villetta di villeggiatura con TRE Condomini :
Tizio con 367 millesimi ;
Caio con 304 millesimi e coniugato con
Sempronia proprietaria titolare di 330 millesimi
ed anche nominata AMMINISTRATORE anche grazie anche ai millesimi del marito CAIO.
NB ! Situazione di predominio quasi assoluto sia di millesimi sia di “teste” dei Coniugi Caio e Sempronia , per cui Tizio si trova perennemente in minoranza e deve soggiacere alle spicciole prevaricazioni assembleari (convocazioni, o.d.g., non-accoglimento aprioristico di eccezioni e/o proposte, redazione verbali, etc. etc. )
Sia soprattutto subire delibere importanti – specie per spese straordinarie – che gravano comunque su di Lui anche se assolutamente contrario.
NB! La comunione condominiale è tranquillamente divisibile – è composta da sei unità immobiliari - ognuna con un Proprietario unico – e quindi è già divisa fra i vari Proprietari.
Si richiede se sussista la possibilità di sciogliere il Condominio e quale sia la miglior procedure percorribile.

Consulenza legale i 13/02/2017
Il codice civile si occupa della divisione del condominio (negli edifici) agli articoli 61cc e 62 delle sue disposizioni di attuazione e della divisibilità delle parti comuni all’art. 1119.
Le due problematiche vanno infatti tenute ben distinte.

Lo scioglimento del condominio, infatti, è assolutamente possibile e legittimo, ed è deciso a maggioranza dell’assemblea oppure dall’Autorità giudiziaria, come stabilisce l’art. 61 delle disposizioni attuative al codice civile: “Qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato.
Lo scioglimento è deliberato dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal secondo comma dell'articolo 1136 del codice, o è disposto dall'autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell'edificio della quale si chiede la separazione”.
Il successivo articolo 62 disp. att. cod. civ. aggiunge poi: “La disposizione del primo comma dell'articolo precedente si applica anche se restano in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall'articolo 1117 del codice.
Qualora la divisione non possa attuarsi senza modificare lo stato delle cose e occorrano opere per la sistemazione diversa dei locali o delle dipendenze tra i condomini, lo scioglimento del condominio deve essere deliberato dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal quinto comma dell'articolo 1136 del codice stesso.

Il procedimento per sciogliere il condominio è quindi semplice, poiché passa attraverso un’ordinaria assemblea (condominio) condominiale e non necessita dell’unanimità ma della sola maggioranza dei condomini. Esulando (a quel che pare dalla descrizione dello stato di fatto) l’ipotesi in esame da quella di cui all’art. 62 disp. att. cod. civ, sarà una sufficiente la maggioranza di cui al secondo e non al quinto comma del citato articolo 1136, ovvero un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell’edificio.
Qualora, come si potrebbe verificare nel caso di specie, non si riuscisse a raggiungere una maggioranza, verrebbe in soccorso l’art. 1105 cod. civ. sull’amministrazione della cosa comune “Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere alla autorità giudiziaria”.

Il problema si pone diversamente, invece, per quanto riguarda le parti comuni, sulle quali dispone il citato art. 1119 cod. civ.: “Le parti comuni, di norma, sono indivisibili a meno che tale divisione possa essere operata senza che ne consegua un uso più incomodo a ciascun condomino.”(Cassazione civile, sez. II, 28/03/2012, n. 4978).
La regola posta dalla norma è quella dell’indivisibilità, perché è escluso che una parte dei condomini possa imporre agli altri, contro la loro volontà, una divisione parziale di aree o locali comuni.
Neppure è consentito che lo faccia il Giudice, su domanda di alcuni condomini, perché si tratterebbe di indebita interferenza nella sfera di autonomia dei privati.
E’ invece possibile che tutti i condomini, all’unanimità, convengano di dividere la cosa comune anche con sacrificio di uno o più di essi.

Si riportano di seguito alcune pronunce in materia: “In materia di condominio, in deroga alla disciplina della comunione ordinaria vige la regola della indivisibilità delle parti comuni dell'edificio posta dall'art. 1119 c.c. Ad impedire la divisione è sufficiente che essa pregiudichi il godimento di alcuni condomini ovvero renda più incomodo il godimento delle cose” (Tribunale Roma, 21/03/2006, n. 6581); e “In tema di condominio di edifici, poiché l'uso delle cose comuni è in funzione del godimento delle parti di proprietà esclusiva, la maggiore o minore comodità di uso, cui fa riferimento l'art. 1119 c.c. ai fini della divisibilità delle cose stesse, va valutata, oltre che con riferimento all'originaria consistenza ed estimazione della cosa comune, considerata nella sua funzionalità piuttosto che nella sua materialità, anche attraverso il raffronto fra le utilità che i singoli condomini ritraevano da esse e le utilità che ne ricaverebbero dopo la divisione. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, con motivazione ritenuta congrua, aveva disposto lo scioglimento del condominio relativamente al giardino circostante l'edificio, alla soffitta ed allo scantinato della casa, e deciso di non procedere, invece, alla divisione della terrazza comune).” (Cassazione civile, sez. II, 23/01/2012, n. 867; conforme Tribunale Padova, sez. II, 06/09/2000, n. 1381).

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