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Articolo 903 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Luci nel muro proprio o nel muro comune

Dispositivo dell'art. 903 Codice Civile

Le luci possono essere aperte dal proprietario del muro(1) contiguo al fondo altrui.

Se il muro è comune(2), nessuno dei proprietari può aprire luci senza il consenso(3) dell'altro; ma chi ha sopraelevato il muro comune può aprirle nella maggiore altezza a cui il vicino non abbia voluto contribuire [885].

Note

(1) L'apertura di luci regolari è una facoltà che rientra nel diritto di proprietà.
Tale facoltà, dunque, si prescrive solo per rinuncia o a causa della costituzione di una servitù.
(2) Per i casi di comunione del muro si vedano gli artt. 874 e 875.
(3) Se si vuole aprire una luce sul muro comune è necessario il consenso dell'altro proprietario, perché si tratta di un'innovazione della cosa comune (art. 1108 del c.c.).

Spiegazione dell'art. 903 Codice Civile

Apertura di luci sul muro proprio. Divieto di apertura di luci sul muro comune

L'apertura di luci, munite dei requisiti di legge, costituisce per il proprietario semplice esercizio del diritto di proprietà senza menomazione del diritto di proprietà del vicino. Per l'apertura delle luci non è quindi prescritta alcuna distanza dal fondo vicino: esse possono essere aperte anche nel muro contiguo al fondo altrui (art. 903).

Ma poiché si tratta di un esercizio del diritto di proprietà, l'apertura delle luci presuppone la proprietà esclusiva del muro in cui si aprono. Se invece il muro è comune, nessuno dei condomini potrà aprire luci senza il consenso dell'altro (art. 903 capov.), costituendo ciò una innovazione che non rientra nei diritti consentiti ai condomini sui muri comuni divisori (artt. 884; 885).

Ci si è domandati se il divieto di aprire luci sul muro comune (art. 903) sia applicabile anche ai muri comuni fronteggianti una via o una piazza pubblica. La questione nasce nel caso in cui si espropri dal Comune e si abbatta l'edificio adiacente al muro comune, destinando a via o piazza pubblica lo spazio su cui esso sorgeva, e dati i grandiosi lavori di sventramento che si fanno nelle maggiori citta, la questione 6è di grande interesse pratico. Alcuni hanno ritenuto che in questo caso cessi il divieto dell'art. 903 perché le vie e le piazze pubbliche sono destinate, tra l'altro, a dare aria e luce agli edifici. L’opinione prevalente, però, è di contrario avviso: poiché l'ente espropriante è subentrato nel diritto di comunione, spettante prima al condomino espropriato, esso è in diritto di pretendere l'applicazione dell'art. 903 e di impedire quindi al vicino l'apertura di finestre. Nella maggior parte dei casi l'espropriante non si avvarrà di tale diritto, anzi, nell'interesse dell'estetica e dell'igiene, solleciterà lui stesso i lavori occorrenti per dare un'architettura di facciata a quello che prima era stato un muro divisorio interno. Ma ciò non toglie che, quando lo creda opportuno, possa riservare a suo uso la disponibilità della parete esterna del muro comune.


Apertura di luci sulla sopraelevazione del muro comune

Il vecchio codice non si limitava a vietare, senza il consenso del vicino, l'apertura di luci sul muro comune (art. 583), ma estendeva il divieto anche all'apertura di luci sulla sopraelevazione del muro comune a cui il vicino non aveva voluto contribuire (art. 586).

Questa estensione del divieto alla sopraelevazione del muro comune, che il vecchio codice aveva mutuato dal codice sardo, era stata giustificata con alcune considerazioni nel corso dei lavori preparatori di quel codice. Il Guardasigilli sardo fece rilevare che la soluzione accolta non era ingiusta verso il condomino che aveva innalzato ii muro comune a proprie spese: « la legge (egli disse) ha già beneficato colui che innalza il muro comune attribuendogliene per intero la proprietà per la maggiore altezza, benché costruito su di un muro che gli appartiene soltanto per metà; avendo già questo beneficio, non si trova giusto di aggiungervi ancora l'altro, di aprire finestre semplici con detrimento del vicino, atteso che malgrado le precauzioni indicate nei precedenti articoli (cioè i requisiti prescritti dall'art. 901 del presente codice) potrà sempre vedere il vicino dalla sua casa. Trattandosi di una proprietà data soltanto dalla legge, questa può apporvi le modificazioni che crede opportune ».

Ma nonostante queste ragioni il divieto sancito dal codice sardo, ripetuto dall'art. 586 del vecchio codice, fu fu oggetto di fondate critiche. Non sembrò giusta l'estensione del divieto perché con poco incomodo del vicino si sarebbe data al proprietario dell'edificio sopraelevato la possibilità di illuminare le sue stanze, con grande vantaggio del suo fabbricato. Si aggiungeva poi che il divieto dell'art. 586 si trovava in una contraddizione con le norme degli art. 583 e 584, in cui il divieto era riferito ai muri comuni e non a quelli di proprietà esclusiva, e l'innalzamento del muro comune era di proprietà esclusiva del condomino che l' aveva sopraelevato a proprie spese.

Queste considerazioni sembrarono di tanto peso che la Cassazione di Napoli, discostandosi dalla giurisprudenza delle altre Corti, in una serie ininterrotta di decisioni escluse dal divieto dell'art. 586 l'apertura delle luci, limitandolo all'apertura delle vedute. E la dottrina, pur non potendo approvare de iure condito tale opinione contraria, si sforzò di limitare il più possibile il divieto nell'applicazione pratica del principio, formulando voti de iure condendo per l'abolizione del divieto.

Tale voto è stato accolto dal nuovo codice, disponendosi all' art. 903 capov. che chi ha sopraelevato il muro comune può aprire luci nella maggiore altezza a cui il vicino non abbia voluto contribuire.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

426 I1 nuovo codice accoglie la distinzione tradizionale delle finestre in luci e vedute (art. 900 del c.c.). Sensibilmente attenuato è il rigoroso regime stabilito per le finestre lucifere dal codice del 1865 (art. 584), il quale consentiva bensì al proprietario del muro contiguo al fondo altrui di aprire luci di qualsiasi dimensione, ma gli imponeva di munirle di una grata di ferro, le cui maglie non avessero un'apertura maggiore di un decimetro, e di un telaio a invetriata fissa. In tal modo la difesa del fondo del vicino da eventuali immissioni o indiscrezioni era spinta fino a inibire il passaggio dell'aria attraverso le finestre lucifere. Con maggiore comprensione delle necessità della convivenza sociale e soprattutto delle esigenze igieniche, il nuovo codice (art. 901 del c.c.) abolisce l'onerosa prescrizione del telaio a invetriata fissa, sostituendola con l'altra di una grata fissa in metallo le cui maglie non siano maggiori di tre centimetri quadrati. Fa obbligo inoltre di munire le finestre lucifere di un'inferriata, ma, senza stabilire l'apertura massima delle maglie, si limita a prescrivere che l'inferriata deve essere idonea, per le sue caratteristiche, a garantire la sicurezza del vicino. Come nel codice precedente, l'apertura delle luci è subordinata all'osservanza di un'altezza minima, tanto dal pavimento o dal suolo che si vuole illuminare, quanto dal suolo del fondo vicino; senonché il nuovo codice, informandosi anche in questo punto al principio di socialità, esclude l'obbligo dell'osservanza dell'altezza minima dal suolo del fondo vicino, quando si tratta di dare luce e aria a un locale che si trovi in tutto o in parte a livello inferiore al suolo del vicino e la condizione dei luoghi non consenta di osservare la prescrizione della legge. Si favorisce così la particolare situazione dei locali seminterrati, che nella moderna tecnica edilizia hanno assunto un notevole sviluppo. Ma anche per altro verso si facilita (art. 903 del c.c.) l'apertura delle finestre lucifere. Il codice del 1865 (art. 586) esigeva per l'apertura di esse il consenso del vicino non solo nel caso in cui si volesse aprirle in un muro comune, ma anche nel caso in cui si volesse aprirle nella sopraelevazione di un muro comune alla quale il vicino non avesse contribuito. Quest'ultima limitazione è sembrata eccessiva, in quanto la parte sopraedificata del muro comune resta di proprietà esclusiva di chi l'ha costruita fino a quando il vicino non ne abbia chiesto e ottenuto la comunione. Né la soluzione accolta dal nuovo codice può pregiudicare gli interessi del vicino, poiché questi conserva la facoltà di rendere comune anche la parte sopraedificata e di chiudere le luci in essa aperte, appoggiandovi il suo edificio (art. 904 del c.c.). E' codificato il principio, già affermato dalla giurisprudenza, che un'apertura, la quale non abbia i caratteri di veduta o di prospetto, in quanto non consenta di affacciarsi e di guardare sul fondo vicino, è considerata come luce, è quindi soggetta al regime relativo, anche se non sono state osservate le prescrizioni stabilite dalla legge (grata fissa, inferriata). Il vicino può sempre chiudere tale finestra, acquistando la comunione del muro e appoggiandovi la propria fabbrica. Egli ha inoltre il diritto di esigere che l'apertura sia resa conforme alle prescrizioni dettate dalla legge per le finestre lucifere (art. 902 del c.c.).

Massime relative all'art. 903 Codice Civile

Cass. civ. n. 28804/2018

In tema di apertura di luci irregolari nel muro divisorio tra proprietà confinanti, bisogna distinguere se esse siano state realizzate sul manufatto di proprietà esclusiva di colui che compie tale attività e, quindi, "iure proprietatis", ovvero sul muro comune o di proprietà esclusiva del confinante e, pertanto, "iure servitutis", poiché solo in quest'ultima ipotesi il diritto a mantenere la relativa servitù può essere acquisito per usucapione. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione di appello che aveva affermato la non usucapibilità di una servitù di luce, prescindendo dalla concreta individuazione del regime dominicale del muro sul quale detta luce era stata aperta).

Cass. civ. n. 5594/2016

In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del D.M. 2 aprile 1968 - applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150, come modificata dalla legge 6 agosto 1967 n. 765 - stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla c.d. legge ponte (legge 6 agosto 1967 n. 765, che, con l'articolo 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150 l'articolo 41 quinquies, il cui comma non fa rinvio al D.M. 2 aprile 1968, che all'articolo 9, numero 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10).

In tema di distanze tra costruzioni, la facoltà, evincibile dall'art. 903 c.c., di trasformare una veduta illegittima in luce è esercitabile a condizione che anche quest'ultima sia aperta lungo il medesimo muro preesistente, non essendo altrimenti consentita la trasformazione dell'una apertura nell'altra. (Nella specie, la S.C. ha escluso che una veduta esercitata attraverso un balcone posto a distanza inferiore a quella ex art. 905, comma 2, c.c. potesse essere eliminata e trasformata in luce, mediante la creazione "ex novo" di muri di tamponamento sui tre lati del balcone medesimo).

Cass. civ. n. 13649/2007

In caso di apertura di luci nel muro divisorio tra proprietà confinanti, da considerarsi comune ai sensi dell'articolo 880 c.c., deve applicarsi il disposto dell'articolo 903 c.c., il quale, oltre a consentire, al primo comma, l'apertura al proprietario di luci nel muro proprio che sia contiguo al fondo altrui, stabilisce, al secondo comma, come regola di ordine generale, che «se il muro è comune, nessuno dei proprietari può aprire luci senza il consenso dell'altro». Di conseguenza, il diritto a mantenere le luci può essere in tale ipotesi diversamente acquisito solo iure servitutis.

Cass. civ. n. 2159/2002

Nel caso di apertura di veduta abusiva, l'offerta, purché seria, di sanare la violazione mediante la trasformazione della medesima in luce non può essere disattesa dal giudice, in quanto tale trasformazione, comunque sempre praticabile ai sensi dell'art. 903 c.c. e con le caratteristiche di cui al precedente art. 901 c.c., si risolve nell'eliminazione della veduta abusiva, con conseguente restaurazione del diritto del vicino da essa leso.

Cass. civ. n. 738/2000

La facoltà di apertura e mantenimento di luci in un solaio frapposto tra due unità immobiliari l'una soprastante l'altra e comprese in uno stabile condominiale resta subordinata, a mente dell'art. 903 comma secondo c.c. (norma dettata in tema di muro divisorio ed applicabile nella specie attesa l'analogia tra le funzioni del muro stesso e del solaio) al consenso di tutti i comproprietari, con la conseguenza che il diritto a mantenere le luci stesse può essere aliunde acquisito soltanto iure servitutis.

Cass. civ. n. 8611/1998

In virtù del disposto dell'art. 903 ed in applicazione dei principi generali sulla comunione, nessuno dei due proprietari può aprire luci senza il consenso dell'altro manifestato per iscritto.

Cass. civ. n. 6495/1981

Nell'ipotesi di comunione del muro divisorio fra un cortile comune ed un'area inedificata di proprietà esclusiva di uno dei comproprietari del muro, il fatto che, in prosieguo di tempo, quest'ultimo comproprietario abbia addossata al muro divisorio una sua baracca, non lo legittima, senza il consenso dell'altro comproprietario del muro, all'apertura di luci o vedute nel detto muro divisorio, stante il preciso divieto dell'art. 903 secondo comma, c.c. non essendo applicabile il regime proprio del muro perimetrale di edificio in condominio su un cortile comune, atteso che tale regime (che consente l'apertura di luci e vedute) trova la sua giustificazione nella diversa funzione del muro perimetrale di edificio in condominio, rispetto al semplice muro divisorio di due autonomi cortili e nel rapporto di complementarietà odi servizio che intercorre fra l'edificio condominiale e il cortile relativo.

Cass. civ. n. 3819/1981

Salva l'opposizione, per motivi di sicurezza o di estetica, degli altri partecipanti alla comunione, al condomino è consentito di aprire nel muro comune, sia esso maestro oppure no, luci sulla strada o sul cortile; tuttavia, qualora il muro comune assolva anche la funzione di isolare e dividere la proprietà individuale di un condomino dalla proprietà individuale di altro condomino, ricorrono anche gli estremi per l'applicabilità dell'art. 903, secondo comma, c.c., con la conseguenza che, in tal caso, l'apertura della luce resta subordinata sia alle condizioni ed alle limitazioni previste dalle norme in materia di condominio (con riguardo agli interessi riconosciuti a tutti i partecipanti alla comunione e alle regole stabilite circa l'uso delle cose comuni da parte dei singoli condomini) sia, alla stregua del secondo comma del citato art. 903 c.c., al consenso del condomino vicino, in considerazione dell'interesse del medesimo alla riservatezza della sua proprietà individuale.

Cass. civ. n. 3398/1981

Nel caso in cui si sia acquistata (nella specie, per usucapione) la comproprietà di un muro posto sul confine, la successiva sopraelevazione (muro su muro) non integra la fattispecie dell'accessione, di cui all'art. 934 c.c., a favore dell'originario unico proprietario del muro stesso, bensì quella prevista dall'art. 885, primo comma, c.c. che consente al comproprietario di innalzare il muro comune e stabilisce che la parte sopraedificata resta di sua esclusiva proprietà (fino a che il vicino non si avvalga del diritto di renderla comune), con la conseguenza che il comproprietario che ha provveduto alla sopraelevazione è facoltizzato ad aprire delle luci nella maggiore altezza del muro.

Cass. civ. n. 2732/1975

Qualora vengano aperte finestre in un incavo del muro contiguo al fondo altrui, esse debbono considerarsi — ai fini della distanza dal detto fondo — come se fossero state aperte sulla superficie del muro e non sulla parete dell'incavo: la distanza dall'altrui fondo, in altre parole, va misurata non dalla profondità dell'incavo, ma dal muro su cui l'incavo è praticato, con la conseguenza che esse finestre, ai sensi dell'art. 903 c.c., non possono avere le caratteristiche della veduta, ma debbono essere ridotte a luci.

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Consulenze legali
relative all'articolo 903 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

C. S. chiede
mercoledì 04/10/2023
“Il vicino è proprietario di due depositi adiacenti (A e B) che sono a loro volta adiacenti alla proprietà di mia madre (C). (C) e’ una costruzione in appoggio che condivide con A e B un muro di confine. A e B hanno delle luci non regolari (non hanno inferriata, grata e non sono a 2 metri e mezzo dal pavimento) che danno direttamente su C in quando C in origine (anni 30) era un fondo. Successivamente (anni 50) su C venne fatta una costruzione con due vani in appoggio su A e B, ma le luci non furono mai chiuse. Mia madre diviene proprietaria di C a fine anni 50 quando C era già un vano di un corpo di fabbrica e le luci di A e B già presenti.
Ora stiamo facendo dei lavori di ristrutturazione e C diventerà una camera da letto. Credo di poter chiedere la chiusura delle due luci in quanto la costruzione C e’ in appoggio su muro in comune. Il proprietario di A e B si rifiuta di chiuderle. Devo per forza ricorrere al giudice? Posso provvedere alla chiusura da solo? Quali opzioni ho?”
Consulenza legale i 15/10/2023
Sulla base della situazione che viene descritta nel quesito, si intuisce che le costruzioni A, B e C abbiano tutte un muro in comune, posto sul confine tra le due proprietà e nel quale sono state realizzare due aperture che consentono di dare luce, seppure in maniera irregolare, ai fabbricati A e B.

Ora, principio generale in materia di “luci”, ed a cui probabilmente ci si riferisce nel quesito, è quello dettato dall’art. 904 del c.c., rubricato proprio “Diritto di chiudere le luci”, il quale riconosce al proprietario del fondo confinante il diritto di chiudere in qualunque momento le luci appoggiando il proprio edificio a quello ove le stesse sono state realizzate (a prescindere dal periodo di tempo trascorso dalla loro apertura).

Nel caso specifico, oltretutto, le luci poste al servizio dei fabbricati A e B si presentano come “luci irregolari”, in relazione alle quali la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di pronunciarsi in diverse occasioni.
In particolare, va segnalata l’ordinanza n. 20604 del 07.08.2018, in occasione della quale la S.C., Sezione VI civile, ha affermato che il possesso di luci irregolari, sprovvisto di titolo e fondato sulla mera tolleranza del vicino, non può condurre all’acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia della relativa servitù.
In tal senso si argomenta dalla considerazione che la servitù di aria e luce, che è negativa (risolvendosi nell’obbligo del proprietario del fondo vicino di non operarne la soppressione), non è una servitù apparente, in quanto l’apparenza non può farsi consistere semplicemente nell’esistenza di segni visibili ed opere permanenti, ma esige che queste ultime, come mezzo necessario all’acquisto della servitù, siano indice non equivoco del peso imposto al fondo vicino in modo da fare presumere che il proprietario di questo ne sia a conoscenza.

Tuttavia, i suddetti principi, ovvero quello del diritto di chiudere le luci in qualunque tempo e della impossibilità di acquistare per usucapione una servitù di luce irregolare, trovano un temperamento nel disposto di cui all’ultimo comma dell’art. 903 c.c., rubricato “Luci nel muro proprio o nel muro comune”, per le ragioni che qui di seguito si vanno ad esporre.
Come si è detto all’inizio, il caso che qui si sottopone ad esame fa riferimento all’apertura di due luci su un “muro comune” posto al confine tra due fondi, ipotesi questa espressamente presa in considerazione nella parte iniziale del secondo comma dell’art. 903 c.c., ove viene precisato che se il muro è comune, nessuno dei due proprietari può aprire luci senza il consenso dell’altro.

Ebbene, in relazione a tale specifica ipotesi si è pronunciata sempre la Corte di Cassazione, Sezione seconda civile, con ordinanza n. 28804 del 09.11.2018, affermando il seguente principio di diritto:
Una servitù di luce con riguardo a un’apertura in un muro in comproprietà può essere acquistata o in virtù di convenzione fra i proprietari dei fondi finitimi ovvero per usucapione e può consistere in una “servitus luminum” che costringe il vicino a subire l’esistenza della luce nel muro divisorio comune senza poterne chiedere la rimozione o in una “servitus ne luminibus officiatur” che impedisce al comproprietario del muro di sopprimere o di oscurare la luce, obbligandolo in caso di costruzione da parte sua in appoggio o in aderenza, a osservare la distanza imposta dalle norme applicabili al caso”.

In particolare, si legge nel corpo di tale sentenza che occorre distinguere tra l’ipotesi di apertura di luci, irregolari o meno, sul proprio muro, che ex art. 901 del c.c. costituisce l’estrinsecazione di una facoltà del proprietario, dalla diversa ipotesi in cui la luce venga aperta su un muro comune oppure su un muro di proprietà esclusiva aliena, nel qual caso l’attività integra l’imposizione di un peso su fondo altrui a vantaggio dell’immobile del confinante, idonea come tale a rappresentare la manifestazione di uno ius in re aliena, suscettibile, con il maturare del tempo, di permettere anche l’acquisto di una servitù per usucapione.

Tale tesi, che trova conferma anche in precedenti pronunce della medesima S.C. (cfr. Cass. n. 13649/2007 e Cass. n. 6165/1993), si fa scaturire proprio dalla disciplina del citato art. 903 c.c., il quale, oltre a consentire al primo comma l’apertura al proprietario di luci nel muro proprio che sia contiguo al fondo altrui, stabilisce, al secondo comma, come regola di ordine generale, che “se il muro e’ comune, nessuno dei proprietari può aprire luci senza il consenso dell’altro”.
Di conseguenza, in tale ipotesi il diritto a mantenere le luci può essere diversamente acquisito solo “iure servitutis” (si vedano Cass. n. 15248/2005, con specifico riferimento all’apertura di una luce tra due vani di un medesimo edificio, realizzata allo scopo di dare aria e luce ad uno di essi attraverso l’altro, nonche’ Cass. n. 5055/2013, Cass. n. 7490/2001, Cass. n. 3789/2012).

Quanto fin qui detto induce a dover ammettere che in effetti il proprietario dei depositi A e B può legittimamente rifiutarsi di chiudere quelle luci, tenuto conto che sono state realizzate con il consenso del confinante e che sono trascorsi ben più di venti anni dalla loro apertura.
Dovendosi ritenere costituita in suo favore una cd. servitus ne luminibus officiatur, il proprietario del fondo C, nel realizzare una nuova costruzione, dovrà rispettare le distanze stabiliti dai regolamenti locali vigenti.
Non si è, invece, perso il diritto di chiedere la loro regolarizzazione, in tal senso dovendosi argomentare da quanto dispone il secondo comma dell’art. 902 del c.c., ove si riconosce al proprietario del fondo sul quale le luci si aprono il diritto di esigere in qualsiasi momento che le stesse siano rese conformi alle prescrizioni dettate dall’art. 901 c.c.
Si potrà, pertanto, pretendere, se necessario anche in via giudiziale, che quelle luci vengano munite di inferriata e che vengano sopraelevate all’altezza minima interna di due metri e mezzo dal pavimento.

P. P. chiede
venerdì 18/03/2022 - Veneto
“In un muro in comproprietà le luci aperte dal vicino, nella sopraelevazione fatta a sue spese, devono rispettare un' altezza minima dal pavimento?
Se non regolari dopo quanti anni non sono più contestabili?
Grazie.”
Consulenza legale i 23/03/2022
L'apertura di luci nel muro comune è disciplinata dal secondo comma dell’art. 903 c.c., il quale stabilisce, in primo luogo, la necessità del consenso del comproprietario.
Tuttavia, la stessa disposizione prevede, in caso di sopraelevazione, che chi ha effettuato la sopraelevazione stessa possa aprire luci "nella maggiore altezza a cui il vicino non abbia voluto contribuire”.
L’apertura di luci deve ritenersi soggetta alle prescrizioni dell’art. 901 c.c., norma che prevede, oltre all’installazione di un’inferriata e di una grata aventi determinate caratteristiche, i seguenti requisiti relativi all’altezza: “lato inferiore a un'altezza non minore di due metri e mezzo dal pavimento o dal suolo del luogo al quale si vuole dare luce e aria, se esse sono al piano terreno, e non minore di due metri se sono ai piani superiori; [...] lato inferiore a un'altezza non minore di due metri e mezzo dal suolo del fondo vicino, a meno che si tratti di locale che sia in tutto o in parte a livello inferiore al suolo del vicino e la condizione dei luoghi non consenta di osservare l'altezza stessa”.
Qualora si tratti di luce irregolare, la giurisprudenza (Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 09/11/2018, n. 28804) ha precisato che “in tema di apertura di luci irregolari nel muro divisorio tra proprietà confinanti, bisogna distinguere se esse siano state realizzate sul manufatto di proprietà esclusiva di colui che compie tale attività e, quindi, "iure proprietatis", ovvero sul muro comune o di proprietà esclusiva del confinante e, pertanto, "iure servitutis", poiché solo in quest'ultima ipotesi il diritto a mantenere la relativa servitù può essere acquisito per usucapione”.
In particolare la Cassazione ha ribadito il diverso trattamento che deve essere riservato alle luci collocate sul muro di proprietà esclusiva di colui che le ha aperte, rispetto a quello riservato, invece, alle aperture eseguite sul muro comune.
Nel primo caso, la giurisprudenza ha costantemente affermato l’impossibilità di acquisto per usucapione della servitù di luce irregolare, in quanto non apparente, anche in considerazione del disposto dell’art. 902 c.c. (secondo cui il vicino ha sempre il diritto di esigere che la luce irregolare sia resa conforme alle prescrizioni dell'art. 901 c.c.).
La situazione è, invece, diversa nel caso di luce aperta nel muro in comproprietà: la relativa servitù, infatti, può essere acquistata anche per usucapione.
Nella fattispecie descritta nel quesito risulta, quindi, in astratto ammissibile l’acquisto per usucapione di un’eventuale servitù di luce irregolare; il tempo necessario ad usucapire è di venti anni (art. 1158 c.c.).

Rosario B. chiede
mercoledì 13/05/2020 - Sicilia
“Buongiorno
Nel mese di marzo c.a. ho acquistato un appartamento sito al primo piano nel quale, sia il doppio servizio con doccia che una piccola stanzetta, sono privi di finestre.
Per poter meglio godere del nuovo acquisto, ho pensato di aprire due luci nei predetti locali.
Ho consultato un ingegnere il quale, per maggior sicurezza, si è recato presso l’ufficio tecnico del mio comune per approfondire la tematica e, in quella sede, gli è stato confermato che era possibile effettuare tali lavori e che, soprattutto, non era necessario rintracciare il proprietario del fondo per chiedere il suo permesso.
Appreso ciò ho presentato una SCIA con inizio lavori 08/05/2020 e, nella relazione tecnica descrittiva, nell’oggetto è stata inserita la seguente dicitura “apertura su muro di tamponamento ed installazione di impianti tecnologici . . “ con i dati catastali del mio immobile.
Continuando, nella Proposta di intervento, si precisa che “il primo intervento (apertura su muro di tamponamento) col quale si intende procedere è l’apertura di due finestre-luce al primo al fine di garantire un’adeguata areazione del bagno e della camera ad esso attigua. Secondo il Codice civile (art 901), le luci che si aprono sul fondo del vicino devono avere determinate caratteristiche e cioè:…”, continuando l’Ingegnere elenca i vari commi dell’art 901.
Lunedì scorso i lavori sono iniziati materialmente, oggi è stata aperta la seconda luce, domani verrà il fabbro per fissare le grate.
Intorno alle ore 17,00 di oggi si è presentata la proprietaria del fondo e mi ha comunicato che si è consultata con il suo tecnico i quale gli ha detto che non è possibile aprire delle luci senza il consenso del proprietario del fondo, che mi è permesso di utilizzare soltanto dei mattoni in vetrocemento e che, quindi, domani mattina dovrò richiudere quello che ho aperto e che sarebbe tornato nel tardi pomeriggio di domani per controllare.
Mi scuso se sono stato lungo nello spiegare ma volevo essere il più chiaro possibile, o almeno ci ho provato, la mia domanda è la seguente : chi ha ragione? Come mi devo comportare?
Ringrazio anticipatamente
Distinti saluti

Consulenza legale i 19/05/2020
L’art. 900 del c.c. dà l’esatta definizione di luci e di vedute, qualificando come luci quelle aperture che hanno la sola funzione di dare luce ed aria ad un locale, mentre come vedute o prospetti quelle che hanno anche la funzione di affacciarsi e di guardare fuori in una qualsiasi direzione.
Le luci possono avere le più svariate dimensioni, potendo consistere sia in semplici fori o feritoie che in grandi aperture; esse non presentano all’esterno alcun aggetto o sporgenza, ma devono essere a filo di parete.
Il successivo art. 901 del c.c., invece, stabilisce come devono essere conformate le luci, con la conseguenza che, l’inosservanza dei requisiti prescritti in tale norma, attribuisce al vicino, ex art. 902 del c.c., il diritto imprescrittibile di richiederne la regolarizzazione (cfr. Cass. n. 20200 del 19.10.2005, in cui si afferma che la mera tolleranza della difformità di una luce dalle prescrizioni di legge, ancorchè protratta nel tempo, non può far sorgere per usucapione un diritto a mantenerla nello stato in cui si trova).

E’ soltanto in relazione alle vedute, e non anche alle luci, che sussiste, nella disciplina legale dei rapporti di vicinato, l’obbligo di osservare determinate distanze tra le costruzioni, e ciò si spiega in considerazione del fatto che, ex art. 904 del c.c., l’eventuale presenza di luci in un muro non impedirebbe in ogni caso al vicino di acquistare la comunione del muro stesso né di costruire in aderenza.

Pertanto, non prevedendo la legge alcun obbligo di rispetto delle distanze e qualora, nel caso di specie, si stia procedendo alla realizzazione delle luci nel rispetto dei requisiti che l’art. 901 c.c. richiede, il proprietario del fondo vicino non potrà per alcuna ragione opporsi alla loro apertura, e si avrà tutto il diritto di proseguire nello svolgimento dei lavori, almeno finquando il vicino non si sarà munito di un provvedimento giurisdizionale che disponga l’immediata sospensione dei lavori.

Del resto, è molto probabile che il proprietario confinante, se ha la ferma intenzione di opporsi alla realizzazione di tali opere, soprattutto perché così consigliato dal suo tecnico, non esiterà a rivolgersi all’autorità giudiziaria, nella speranza di ottenere un provvedimento urgente di sospensione di quei lavori.
A quel punto sarà compito del giudice di merito accertare la reale natura di luce o di venduta delle aperture che si stanno per realizzare, tenendo conto delle caratteristiche oggettive che queste presentano ed essendo irrilevante l’intenzione del suo autore o la finalità dal medesimo perseguita (così Cassazione, sentenza n. 233 del 5 gennaio 2011).

E’ anche vero, però, che un’apertura che si presenti munita di inferriata e che sia tale da non consentire la prospectio nel fondo vicino, può configurarsi solo come luce e che per essa il proprietario del fondo vicino potrebbe soltanto chiedere la regolarizzazione (se irregolare), non potendosi pertanto configurare alcun interesse ad agire in capo allo stesso se sono stati rispettati i requisiti di cui all’art. 901 c.c.
Quindi, malgrado quanto possa essergli stato detto dal suo tecnico, nel momento in cui dovrà rivolgersi ad un legale per intraprendere una qualunque azione giudiziaria, ci si augura che quest’ultimo possa dargli il giusto consiglio.
A questo punto, però, occorre fare una precisazione, che può assumere un peso di rilievo nella soluzione del caso: il secondo comma dell’art. 903 c.c. dispone espressamente che se le luci devono realizzarsi su un muro comune, nessuno dei comproprietari può aprirle senza il consenso dell’altro, salvo che si intendano aprire in quella parte di muro alla cui sopraelevazione abbia provveduto uno solo dei comproprietari (nel qual caso valgono le regole ordinarie).
Ha precisato a tal proposito la giurisprudenza di legittimità (così Cass. 742/1978; Cass. N. 13649/2007) che, qualora un comproprietario abbia aperto luci nel muro da considerarsi comune in forza del disposto dell’art. 880 del c.c., il confinante, che non abbia prestato il proprio consenso, ha il diritto di chiuderle, almeno finchè non sia decorso il tempo necessario per l'usucapione della relativa servitù di luce.
Il divieto previsto dal 2° co. si spiega con il carattere di innovazione della cosa comune che l'apertura di luci realizza, ai sensi dell'art. 908 del c.c..

Leggendo il quesito, in effetti, si parla di appartamento al primo piano e di fondo del vicino, ma nulla viene detto sulla situazione proprietaria del muro nel quale dovranno realizzarsi le luci.
Pertanto, se quel muro dovesse essere in comproprietà con il proprietario del fondo vicino (ad esempio perché costruito sul confine), allora il vicino ha tutto il diritto di opporsi, il che comporta che per proseguire legittimamente nei lavori e non rischiare di essere condannati in un eventuale giudizio civile, occorrerà acquisire preventivamente il consenso scritto del confinante, magari offrendogli un indennizzo per la prestazione dello stesso.
Va infatti sottolineato come, in applicazione dei principi generali in tema di comunione su beni immobili, nessuno dei due proprietari può aprire luci senza il consenso dell'altro manifestato per iscritto, con la conseguenza che si reputa irrilevante l'eventuale consenso manifestato in forma orale (così Cass. N. 8611/1998).