Edifici non soggetti a comunione forzosa. Precedenti legislativi
L'art. 556 capov. vecchio codice disponeva che la comunione forzosa «
non si applica agli edifici destinati all'uso pubblico ». Tale disposizione, che manca nel codice francese e mancava nei codici italiani preesistenti e anche nei vari progetti governativi del codice del 1865, fu aggiunta dalla Commissione senatoria per risolvere una
questione che era stata oggetto di vive dispute nella Dottrina e nella giurisprudenza tanto in Francia che in Italia. Così si legge nella Relazione: «
essendosi dubitato se la disposizione con cui si dichiara che ogni proprietario di un fondo contiguo ad un muro ha diritto di renderlo comune, sia o no applicabile anche agli edifici destinati ad uso pubblico, come gli edifici inservienti all'uso divino, gli arsenali, le caserme per i militari, le carceri ed altri simili, la Commissione vi propone questo grave dubbio, che interessa lo Stato e tiene perplesse le pubbliche amministrazioni e i giurisperiti da esse consultati, e di aggiungere a tal fine in questo stesso articolo un capoverso, in cui si dichiari espressamente che l'anzidetta disposizione non è applicabile agli edifizi destinati ad uso pubblico ».
La questione parve in tal modo eliminata, ma basta dare uno sguardo alle disparate interpretazioni della dottrina e della giurisprudenza intorno a questo capoverso per convincersi del contrario. E la ragione di questo dissidio, che la Commissione senatoria fu certo lontana dal prevedere, deriva dalla locuzione «
destinati all'uso pubblico »: determinare esattamente che cosa dovesse intendersi per destinazione all'uso pubblico, divenne cosa di estrema difficoltà, da che sulla base di questo concetto si fondò tutta la teoria della demanialità.
Il nuovo codice ha
variato la locuzione controversa ed ha meglio specificato l'ampiezza dell'esenzione disponendo nel 1 comma dell'art. 879: «
Alla comunione forzosa non sono soggetti gli edifici appartenenti al demanio pubblico e quelli soggetti allo stesso regime, ne gli edifici che sono riconosciuti di interesse storico, archeologico od artistico, a norma delle leggi in materia ».
Circa il concetto del demanio pubblico e dei beni soggetti allo stesso regime si rimanda a quanto detto a suo luogo (art.
822 e
824). Nella Relazione della Commissione reale fu esplicitamente rilevato: «
Nella categoria degli edifici destinati all'uso pubblico i vanno comprese le chiese e tra queste, come di recente ha ritenuto la Suprema Corte, anche quelle private aperte al pubblico, esclusi invece gli oratori, compresi i templi degli altri culti ammessi, purché aperti al pubblico ».
Insieme con la comunione forzosa è esclusa altresì la costruzione in aderenza
L' esenzione dalla comunione forzosa per gli edifici appartenenti al demanio pubblico si è
giustificata con il principio della inalienabilità di detti beni (
art. 823 del c.c.) che elude la cessione coattiva della della comunione a favore dei privati. Ammettendo il nuovo codice la possibilità di costruire in aderenza muro preesistente sul confine, senza obbligo di acquistarne la comunione (
art. 877 del c.c.), sarebbe potuto ragionevolmente nascere il dubbio sulla possibilità di costruire in aderenza a preesistente muro demaniale. Infatti la costruzione per semplice aderenza non importa l'acquisto di nessun diritto a carico del demanio, né di comunione, nè di semplice appoggio, e quindi il principio della inalienabilità dei beni demaniali non avrebbe rappresentato un ostacolo a1a costruzione in aderenza. Bene quindi ha fatto il legislatore a togliere ogni dubbio con l'aggiunta dell'art. 879 primo comma: « il vicino non può neppure usare della facoltà concessa dal l'art. [n877cc]] »
.
L'esenzione dalla comunione forzosa e dalla costruzione in aderenza vale solo a favore e non contro il demanio. Si è discusso se l'esenzione dalla comunione forzosa potesse essere fatta valere, oltre che a favore, anche
contro gli edifici demaniali: il privato non può domandare la comunione del muro del contiguo edificio demaniale, ma può essere costretto a cederla a favore dell' erigendo edificio demaniale?
La questione è stata risolta in modo diverso tanto nella dottrina che nella giurisprudenza. Si ritiene che il privato possa essere costretto a cederla, perché l'esenzione dell'art. 879 è stata dettata a favore e non contro gli edifici demaniali. Il trattamento che così viene fatto al privato non è niente affatto iniquo, ma giustificato dalla diversità degli scopi a cui i due edifizi limitrofi sono destinati.
Peraltro la diversità di trattamento tra demanio e privato deve limitarsi alla cessione coattiva della comunione, che deve essere concessa al primo pur essendo negata al secondo. Ma una volta che il demanio abbia esercitato nei confronti del privato la facoltà concessa dall'art.
874 e reso comune il muro, in qualità di condomino del muro, esso deve esser posto in condizione di perfetta eguaglianza con l'altro condomino e subire da parte di questo la conseguenza dell'esercizio di tutti i diritti che la legge concede ad ogni condomino sul muro comune (artt.
884-
885). Se il demanio restasse pregiudicato dall'esercizio dei diritti che il privato condomino volesse esercitare sul muro, potrebbe impedirlo espropriando il muro. Ma fintanto che il muro resta comune, il supremo principio di eguaglianza tra i condomini, che domina tutto l'istituto della comunione, deve applicarsi anche al caso in cui uno dei condomini sia il demanio in concorrenza col privato.
Analoga questione si potrebbe ripetere per la
costruzione in aderenza: essa è vietata dall'art. 879 al privato nei confronti del demanio, ma non viceversa. Quindi è ammessa la costruzione di edifici demaniali in aderenza ad edifici privati, cosi come del resto la dottrina aveva ammesso anche sotto l'impero del codice del 1865 pur escludendo esso, per gli edifici privati, la costruzione in aderenza senza previo acquisto della comunione.
Costruzioni in confine con le piazze e le vie pubbliche. Rinvio alle leggi e regolamenti particolari
L'art. 879, riproducendo in parte l'art. 572 del codice del 1865, dispone: «
Alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano ».
Quanto alle
leggi che dettano speciali disposizioni per le costruzioni che si fanno in confine con le vie pubbliche, citiamo i1 Testo Unico delle norme per la tutela delle strade e per la circolazione approvato con R. D. 8 dicembre 1933, n. 1749, che all'art. i, n. 12, vieta di «
costruire case, altre fabbriche o muri di cinta lungo le strade fuori degli abitati, a di-stanza minore di tre metri dal confine della strada, quando manchino linee di fabbricazione determinate da piani regolatori o di ampliamento ovvero da deliberazioni delle autorità competenti ».
L'ultimo capoverso dell'articolo in esame dispone: «
è in ogni caso vietato eseguire costruzioni o piantagioni, sia pure osservando le distanze indicate nelle precedenti disposizioni, quando si tratti di costruzioni o piantagioni in corrispondenza delle curve stradali di raggio inferiore a cento metri, di incroci, biforcazioni, e ogni qualvolta sia riconosciuto, a giudizio insindacabile delle competenti autorità, che tali costruzioni o piantagioni possano ostacolare o ridurre il campo visivo necessario a salvaguardare la incolumità della circolazione del tratto pericoloso ».
Come esempio di disposizioni di
regolamenti che riguardano le costruzioni in confine con le vie e piazze pubbliche, si riportano gli articoli 25 e 26 del regolamento edilizio di Roma del 1934, che trovano riscontro in analoghe disposizioni dei regolamenti edilizi delle altre città. Art. 25. «
Norme per costruzioni arretrate dal filo stradale. — L'arretramento dei fabbricati dal filo stradale pu o essere autorizzato per un minimo di m. 2,50 purché si verifichi una delle seguenti condizioni a) quando mediante convenzione regolarmente trascritta coi proprietari delle aree confinanti, lo stesso arretramento venga assicurato per tutta la parte del lotto dei fabbricati compresi tra due vie; b) quando mediante convenzione come sopra, resti assicurata la decorazione dei muri ciechi ai lati che affacciano sulla zona arretrata; quando ai muri ciechi laterali vengono addossati, per conto del medesimo proprietario e sulla propria area, corpi di fabbrica decorati in unita architettonica col progetto arretrato. L'area libera anteriore ai fabbricati deve essere convenientemente recinta, sistemata e mantenuta a giardino o a piazzale. Il Governatore, a norma delle disposizioni vigenti, provvederà d'ufficio, salvo rivalsa delle spese, qualora il proprietario, benché diffidato, non provveda a mantenere in stato decoroso l'area libera in questione »;
Art. 26. «
Chiusura delle zone di distacco tra fabbricati. — Le fronti delle zone di distacco sulle vie pubbliche, tra due fabbricati, debbono essere chiuse con pilastri e cancelli o muri di cinta costruiti decorosamente e con criteri unitari architettonici, anche se la zona di distacco appartenga a due proprietari ».
Notevole è il
richiamo esplicito contenuto nell'art. 70 ai regolamenti: infatti, trattandosi di norme integratrici del codice civile, nel caso di violazione da parte del costruttore i vicini hanno diritto alla demolizione delle opere (vedi art.
872 c.c., capov.).
Quid iuris in mancanza di leggi e regolamenti. Inapplicabilità dell'art. 873
In mancanza di leggi e regolamenti che stabiliscano una distanza diversa da quella prescritta dall'art.
873, lo stesso resta applicabile anche ai muri confinanti le vie e le piazze pubbliche? In altri termini: la deroga dell'art. 879 alle norme relative alle distanze è condizionata all'esistenza di leggi e regolamenti prescriventi una diversa distanza, o anche in mancanza di leggi e regolamenti speciali la distanza di cui all'art.
873 è sempre inapplicabile agli edifici confinanti con le strade pubbliche? Si prenda l'ipotesi, che non è rara nei comuni di una certa antichità, di fabbricati entro il recinto delle antiche mura, che vi sia un vicoletto pubblico più stretto di tre metri: i proprietari fronteggianti sono obbligati, costruendo, ad osservare, in mancanza di regolamenti edilizi, la distanza di tre metri, prescritta dall'art.
873, o possono edificare sul limite della strada? La giurisprudenza dominante ritiene che possano farlo. Invero l'art.
873 è dettato nei rapporti tra privati, e quando in mezzo c'è una via pubblica l'art.
873 non risulta più applicabile.
L'art. 879 capov. non ripete per gli edifici demaniali ed assimilati la deroga alle norme del Codice sulle distanze legali nelle costruzioni, contenuta nel codice 1865
L'art. 879 del nuovo codice, riproducendo l'art. 57 del progetto della Commissione Reale, ha inteso compendiare insieme le disposizioni degli art. 556 capov. e 572 codice del 1865: il primo esentava gli edifici demaniali dalla cessione coattiva della comunione, e il secondo dichiarava inapplicabili agli edifici demaniali, nonché ai muri confinanti con le vie, e con le piazze o strade pubbliche le disposizioni degli articoli 570 e 571 relative alle distanze nelle costruzioni. Ma il richiamo non era completo, perché la disposizione dell'inapplicabilità delle norme sulle distanze legali nelle costruzioni fu limitata alle costruzioni confinanti con le piazze e con le vie o strade pubbliche, e non fu ripetuta nei riguardi degli edifici demaniali. L'omissione fu rilevata, nell'interesse del demanio, dall'
Avvocatura Generale dello Stato nelle Osservazioni presentate sul progetto della Commissione Reale, e tale omissione si presenta doppiamente sfavorevole agli edifici pubblici.
Anzitutto il vecchio codice, disponendo l'inapplicabilità degli art. 570 e 571 agli edifici pubblici, veniva a dettare una norma generale per limitare il diritto dei privati a costruire accanto agli edifici pubblici osservando le distanze normali, che non sempre sono sufficienti a salvaguardare le esigenze di decoro, di sicurezza, di estetica, proprie di tali edifici. Ragioni che furono avvertite fin nel diritto romano, giustificando apposite disposizioni sulla distanza che doveva osservarsi nelle costruzioni private rispetto agli edifici pubblici. È vero che particolari disposizioni in materia sono contenute in leggi speciali (L.
20 giugno 1909, n. 364 sulle antichità e belle arti e Legge modificativa 23 giugno 1912,n. 688), ma non sarebbe stata inopportuna la ripetizione della norma generale dell'art. 572 codice del 1865.
Sotto altro aspetto, poi, la mancata ripetizione della norma generale dell'art. 572 codice del 1865 si ravvisa sfavorevole nei riguardi degli edifici pubblici. L'Avvocatura Generale dello Stato nelle
Osservazioni citate rilevava: «
A garantire le finalità degli edifici pubblici costruiti e da costruire non basta escludere, come fa l'art. 57 (corrispondente all'attuale art. 879 del codice), la comunione forzosa di edifici pubblici; ma occorre sanzionare esplicitamente che la costruzione degli edifici pubblici non è soggetta all'osservanza legale dei tre metri prescritti dall'art. 51 (art. 873 del codice), e tanto meno delle maggiori distanze che sono stabilite dai regolamenti edilizi. Possono, infatti, in pratica, presentarsi dei casi in cui prevalenti ragioni di interesse pubblico non rendono possibile, nella costruzione di edifici pubblici, l'osservanza della intercapedine minima dei tre metri, nonché delle maggiori distanze prescritte dai regolamenti edilizi. Ora, mentre tali esigenze si trovano sufficientemente cautelate dalle disposizioni dell'art. 572 codice del 1865 — prima parte —che esclude l'applicabilità dell'art. 571 agli edifici pubblici, esse restano senza tutela con le disposizioni dell'art. 57 del Progetto, che riproduce l'art. 572 solo nella seconda parte, relativa alle costruzioni in confine con le piazze e le vie pubbliche. Non solo; ma nell'occasione sembrerebbe opportuno di decidere testualmente la questione, che si è ripetutamente presentata in pratica, della non obbligatorietà, per gli edifici pubblici, dell'osservanza dei limiti di altezza — altezza assoluta e altezza relativa alla larghezza delle strade imposti dai regolamenti edilizi ».
La questione — che fu in un primo tempo decisa dal Supremo Collegio contro la tesi, sostenuta dall'Avvocatura dello Stato, della non obbligatorietà per gli edifici pubblici delle norme di distanza e di altezza stabilite dai regolamenti edilizi — ebbe
soluzione favorevole in posteriori decisioni, essendo logico che le stesse ragioni che hanno spinto il legislatore a sciogliere gli edifici pubblici dall'osservanza dell'intercapedine minima di tre metri, prescritta dall'art. 571 per gli edifici privati, valgano anche ad affrancarli dall'osservanza delle maggiori distanze prescritte dai regolamenti edilizi, nonché dalle limitazioni di altezza, essendo anche queste, quasi sempre, in funzione delle distanze regolamentari e quindi, al pari di queste, non obbligatorie per gli edifici pubblici.
Nonostante le menzionate osservazioni, anche nel testo definitivo del codice, l'inapplicabilità delle norme relative alle distanze legali nelle costruzioni fu limitata alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche e non fu estesa agli edifici demaniali.
Ne consegue che nel nuovo codice gli edifici demaniali sono
equiparati, quanto alle distanze nelle costruzioni, agli edifici privati. Quindi i privati possono costruire accanto agli edifici di cui al primo comma dell'art. 879 alla normale distanza di tre metri, tranne che una maggiore distanza non sia stabilita dalle leggi speciali o dai regolamenti locali. Come pure, nella costruzione dei suddetti edifici demaniali e degli altri di cui all'art. 879, primo comma, è obbligatoria la distanza normale di tre metri dagli edifici vicini, sempre che maggiori distanze non siano stabilite dai regolamenti edilizi. Le eventuali deroghe a tali distanze, come alle limitazioni di altezza, che si rendessero necessarie nel pubblico interesse dovrebbero formare oggetto di imposizione di servitù in via di espropriazione per causa di pubblica utilità.