Con le regole contenute negli articoli
647 e
648, si è tentata una disciplina organica delle
disposizioni testamentarie sub modo. Ad esse fanno riscontro, completando le linee dell’istituto, che si colloca nella cerchia degli atti a titolo gratuito (
mortis causa o
inter vivos), le disposizioni contenute negli articoli
793 e
794, che riguardano le donazioni modali.
Sull’opportunità di un’espressa disciplina delle disposizioni testamentarie modali non si può neppure discutere, per le molteplici difficoltà che la mancanza di qualsiasi disposizione in proposito aveva creato all’interprete del vecchio codice del 1865. Ma il legislatore dell'attuale codice ha congegnato la disciplina giuridica delle disposizioni modali in maniera tale da alterare sensibilmente il concetto tradizionale dell’onere, specie con riferimento alla sua tipica funzione.
Infatti, la dottrina considerava il
modus come una condizione (risolutiva) non svolta, e trovava qualche difficoltà a distinguere il
modus dalla condizione (risolutiva), per il fatto che l’inadempimento dell’onere poteva condurre alla risoluzione (giudiziale) della disposizione testamentaria o della donazione
sub modo.
Secondo il disposto dell’art.
648 comma 2, invece,
la risoluzione può essere pronunciata soltanto in due casi: a) quando sia stata
prevista dal testatore; b) quando l’adempimento dell’onere ha costituito il
solo motivo determinante della disposizione.
Nella prima ipotesi, si rende ancora omaggio (e in un campo nel quale è necessario segnare con precisione le linee degli istituti) alla volontà del testatore; omaggio, peraltro, tutto platonico, perché si riconosce che, nella pratica, è assai improbabile che il testatore disponga espressamente la risoluzione.
Nella seconda ipotesi, si fa riferimento alle regole generali sull'efficacia dei motivi circa le disposizioni testamentarie. Il problema degli effetti propri del modus è così occultato; anzi, il legislatore lascia trapelare il proposito di sostituire all’efficacia dell’onere quella della volontà del testatore o quella del motivo che determinò il testatore a volere. Al di fuori di queste influenze aliene, sembrerebbe che il modus non avesse effetti propri: ed ecco perché è stata avanzata l’opinione secondo la quale l’inadempimento dell’onere condurrebbe al risarcimento dei danni. Ma dalle norme in commento non è dato ricavare tale conseguenza, poiché si ritenne - a quanto pare - inutile dichiarare esplicitamente tale effetto, mentre fu creduto sufficiente risultasse dal verbale (della Commissione Parlamentare) che questa sanzione possa essere desunta dall’applicazione dei princìpi. È facile intendere che i princìpi ai quali si allude si debbano ricavare dalle norme sulle obbligazioni: l’onere, infatti, si considera come un’obbligazione contratta volontariamente, e ciò autorizza a ritenere applicabile al suo inadempimento l’art. #1218# del codice del 1865.
Tuttavia, a proposito di queste conclusioni, può farsi più di una riserva. Infatti, è vero che l'
acquisto del titolo di erede presuppone l’accettazione (art.
459), ma non si può senz’altro dedurre che l’obbligo derivante dal
modus apposto all’istituzione di erede abbia radice nel negozio di accettazione; che, insomma, questo negozio sia da considerare come fonte specifica ed immediata di quella obbligazione. Esso deve, semmai, considerarsi come uno degli elementi della fattispecie acquisitiva del titolo ereditario.
Ma, anche a prescindere da ciò, poiché l’onere può essere apposto al
legato (anzi è per sua natura piuttosto compatibile col legato, anziché con l’istituzione di erede), l’appiglio rilevato viene a mancare, perché il legato si acquista senza bisogno di accettazione (art.
649). Peraltro, anche presupposta l’esistenza di un negozio unilaterale come l’accettazione, bisognerebbe dimostrare in maniera convincente che essa possa considerarsi come fonte di una determinata obbligazione: sono note, infatti, le difficoltà che si oppongono, nel nostro sistema, a considerare il negozio unilaterale come fonte generale di obbligazioni, al di fuori di situazioni specificamente determinate.
In base ai rilievi che precedono, si trae l’impressione che l’obbligazione di cui si tratta si fondi sulla volontà altrui, anziché su quella propria dell’obbligato; o piuttosto sull’efficacia che la legge attribuisce alla volontà (aliena) del testatore. Pare, dunque, si tratti di un’
obbligazione in lato senso legale; con la conseguenza che gli effetti dell’inadempimento dovrebbero essere posti dalla legge. E allora gli effetti dell’inadempimento sono quelli contemplati dall’art.
648, comma 2.
Il modus, dunque, ha un’efficacia ridotta, o meglio, produce limitati effetti pratici, laddove può essere presidiato da altre forze: l’efficacia della volontà espressa del testatore o quella del motivo che ispirò la disposizione.
C’è, però, un altro aspetto: quello, per così dire, positivo, e che, teoricamente, deve avere la precedenza logica; sotto questo aspetto, ma sempre dal punto di vista teorico, tutto è salvo. Infatti, come obbligo giuridico, il
modus ha una
forza coercitiva immediata, e il voto legislativo dovrà dirsi pienamente realizzato nell’ipotesi di
adempimento spontaneo. Questo, anzi, costituisce lo svolgimento normale della vicenda giuridica in questione, mentre l’inadempimento costituisce - com’è noto - una deviazione dalla normalità. Però, di questa deviazione, il legislatore, in tutti i campi della fenomenologia giuridica, ha sempre mostrato e mostra seriamente di preoccuparsi, poiché il fine a cui tende il diritto è quello di garantire il soddisfacimento degli interessi tutelati. Nella specie, il legislatore si è preoccupato dell’adempimento del
modus in maniera particolare: non si è limitato a stimolare indirettamente l’onerato, mediante la sanzione prevista dall’art.
648 comma 2, ma ha tentato di
predisporre dei mezzi atti a sollecitare direttamente l’adempimento. Ora, qui sembra che si sia commesso un errore nel dosaggio dei mezzi tendenti a garantire l’adempimento del
modus: si sono, cioè, limitati i mezzi indiretti (sanzioni per l’inadempimento), che potevano esplicare una certa efficacia pratica, e si è fatto ricorso ad un mezzo diretto, che sembra privo di qualsiasi efficacia.
L’art.
647 comma 1 statuisce che
per l’adempimento dell’onere può agire qualsiasi interessato. La norma ha una zona di efficacia molto ampia: la legittimazione ad agire è conferita a chiunque possa vantare un interesse, diretto o indiretto, patrimoniale o soltanto morale. Ma la legittimazione ad agire ha soltanto efficacia formale; chi è legittimato, può soltanto (e al massimo) conseguire gli effetti previsti dalle norme di diritto sostanziale: quindi, ad esempio, non può ottenere la risoluzione, in caso di inadempimento, se non nei casi previsti dall’art.
647 comma 2. E allora, fuori di questi casi, che cosa potrà ottenere? Non certo l’esecuzione specifica dell’obbligazione, qualora l’onerato si mostri riluttante, perché anche qui vige il principio:
nemo ad factum cogi potest. Non il risarcimento dei danni, per quello che si è rilevato e per quello che si dirà subito.
Ma guardiamo la posizione del legittimato ad agire da un altro punto di vista. Già in termini generali, e mantenendo la piena fedeltà al testo dell’art.
647 comma 1, pare si debba limitare la legittimazione al solo aspetto positivo del fenomeno:
agire per l’adempimento.
Ciò, del resto, è nella logica del sistema: chi agisce per ottenere l’adempimento al quale è interessato, trova nell’adempimento la soddisfazione del proprio interesse; ma chi è solo interessato all’adempimento, non può chiedere che si accerti l’inadempimento e si applichi la sanzione, se in relazione a questa non ha alcun interesse da soddisfare. Ad esempio, per chiedere il risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento, non basta essere interessati all’adempimento, ma occorre dimostrare di essere stati giuridicamente danneggiati dall’inadempimento; così potrà chiedere la risoluzione della disposizione modale non adempiuta, nelle ipotesi previste dall’art.
647 comma 2, non già colui che sia interessato all’adempimento, ma colui che è chiamato a beneficiare della risoluzione stessa (l’erede legittimo, in caso di istituzione di erede
sub modo; od anche l’erede testamentario, se l’onere sia apposto al legato); in quest’ultimo caso, anziché di un interesse all’adempimento, si dovrà parlare di un interesse all’(accertamento e alle conseguenze dell’) inadempimento.
Dunque, rispetto alla garanzia dell’adempimento dell’onere e ai mezzi a ciò predisposti, l’ingiustificata restrizione posta dall’ art.
647 comma 2, non è compensata dall'estensione di cui all’art.
647 comma 1.
Anche dal punto di vista pratico, perciò, oltre che da quello sistematico, la più rigorosa concezione dell’onere si mostra preferibile a quella che sta alla base delle nuove disposizioni legislative. L’efficacia risolutiva dell’adempimento avrebbe costituito lo stimolo più idoneo per l’adempimento; e il modo di operare della sanzione delineava la fisionomia del vinculum iuris, fondato sulla legge piuttosto che sul negozio giuridico, come un onere in senso tecnico, piuttosto che come una vera obbligazione, mettendone in evidenza la funzione necessariamente strumentale: il designato che volesse conservare i benefici della disposizione doveva adempiere al modus. Ciò che si è guadagnato formalmente, per la disciplina espressa delle disposizioni modali, si è perduto nella sostanza, per la ridotta efficienza delle sanzioni e per l’alterazione concettuale che l’istituto ha subìto.
Rimane da dire ora qualcosa circa il contenuto particolare delle disposizioni in oggetto. L’onere è - per disposizione espressa - apponibile tanto all’istituzione di erede, quanto al legato. Apposto al legato, ne riduce la portata economica; apposto all’istituzione, accresce il passivo dell’asse, e - se si tratti di hereditas damnosa - aumenta lo svantaggio dell’istituito.
Il vincolo giuridico nascente dall’onere può essere rafforzato da una cauzione, che può essere imposta dall’autorità giudiziaria, qualora essa ne ravvisi l’opportunità. Ma il testatore può svincolare l’onerato dal peso accessorio della cauzione, togliendo all’autorità giudiziaria il potere di imporla. Si capisce che l’autorità giudiziaria non imporrà la cauzione di propria iniziativa, ma agirà soltanto ove sia convenientemente sollecitata; ma si può ritenere che possa essere sollecitata da tutti coloro che possono agire per l’adempimento dell’onere. Anzi, la richiesta di cauzione può essere avanzata sia nel processo instaurato per l’adempimento, sia in un processo autonomo.
Per quanto attiene agli effetti dell’
onere impossibile o illecito, che abbia costituito il
solo motivo determinante della disposizione, l’art.
647 comma 3, riproduce la disposizione dell’art.
626. Si è, dunque, voluta un’
uguale disciplina dell’onere impossibile o illecito e della condizione impossibile o illecita (art.
634); soltanto, sono stati adottati
mezzi tecnici diversi: rispetto alla condizione, il richiamo, sottoforma di riserva, della disposizione fondamentale dell’art.
626; rispetto all’onere, la sostanziale riproduzione di quella disposizione. Un esame approfondito potrebbe rivelare capillari differenze, non prive di conseguenze pratiche: ma non è qui il luogo per tentare tale indagine.
È chiaro, intanto, che il legislatore non ha preteso che l’efficacia causale dell’onere impossibile o illecito risulti esclusivamente dal testamento, perché la disposizione sia nulla. Si capisce, però, che, dovendo il motivo risultare dal testamento, il contenuto della scheda testamentaria non potrà non costituire la base per la ricostruzione della volontà del testatore, ma non vi è motivo di vietare al giudice di prendere eventualmente in considerazione altri atti o fatti, che servono a chiarire il processo formativo della volontà del disponente.
Bisogna chiarire che
l’esistenza dell’onere non può che desumersi dal testamento, e poiché proprio l’onere viene assunto come motivo, può dirsi soddisfatta la prima delle condizioni poste dall’art.
626. Si tratterà soltanto di vedere in che senso l’onere avrà influito sulla determinazione della volontà del testatore: e qui non si possono dare regole, ma c’è solo da rinviare a quanto si è detto
sub art.
626.
A proposito dell’inadempimento dell’onere, infine, sarà il caso di rilevare che, avendo il legislatore evitato ogni qualifica limitativa, si deve ritenere che abbia voluto riferirsi tanto all’inadempimento doloso quanto a quello colposo: nella nuova disciplina della materia non dev’essere difficile scorgere - tenute ben ferme le differenze - qualche analogia con la disposizione contenuta nell’art. #1165# del codice del 1865.