Agli artt. 634,
635 e
636 sono regolati gli
effetti delle condizioni impossibili o illecite apposte alle disposizioni testamentarie.
Condizioni impossibili, com’è noto, sono quelle che hanno per oggetto un evento alla cui realizzazione si oppongono leggi naturali (condizioni fisicamente impossibili:
si caelum digito tetigeris) o leggi giuridiche (condizioni giuridicamente impossibili). La legge non ne dà la definizione, ma la nozione delineata è tradizionale.
È pure tradizionale la tripartizione delle condizioni illecite in condizioni contrarie alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume; anzi essa è consacrata più o meno letteralmente in varie disposizioni di legge. Tuttavia, così com’è formulata, la tripartizione delle condizioni illecite ha sempre dato luogo a gravi questioni, le quali si ripetono e si ripeteranno, poiché non è impresa facile determinare i concetti di “buon costume” e di “ordine pubblico”.
Per quanto attiene alle condizioni contrarie alla legge, si deve trattare di leggi (o norme giuridiche in genere) aventi carattere cogente, imperative appunto, perché quelle aventi carattere dispositivo possono essere derogate dalla volontà dei privati.
Tuttavia, qualche incertezza può rimanere in merito alla distinzione tra condizioni giuridicamente impossibili e condizioni (illecite perché) contrarie alle leggi (imperative). Ma la differenza consiste in ciò: nelle prime l’evento dovrebbe produrre un effetto valido, laddove una norma giuridica si oppone alla validità di esso; nelle seconde, invece, si mira a produrre un effetto col quale viene violata una norma di legge. Nel primo caso l’evento non si verifica, nel secondo dà luogo, verificandosi, ad una violazione di legge. Più precisamente: nel primo caso, il vigore esclusivo della norma primaria impedisce la realizzazione dell’evento dedotto in condizione; nel secondo caso l’evento non può essere impedito, ma concretando la violazione della norma primaria, richiama in applicazione la sanzione contenuta nella norma secondaria.
Sia dal punto di vista pratico come da quello sistematico, è innanzitutto da segnalare un’innovazione contenuta nell’art. 634. Mentre l’art. #849# del codice del 1865 considerava come non apposte “nel testamento” le condizioni impossibili ed illecite, l’art. 634 fa riferimento, attraverso il richiamo dell’art.
633, alle disposizioni a titolo universale o particolare. Teoricamente la formulazione è più corretta, perché, in realtà,
le condizioni si riferiscono, più che al testamento preso nel suo complesso, alle singole disposizioni in esso contenute. Ma dal punto di vista pratico l'innovazione è ancora più notevole, poiché definisce chiaramente, sotto il profilo indicato, i limiti di applicabilità della norma. Infatti, mentre l’espressione generica del testo abrogato, riferendosi al testamento, faceva sorgere il dubbio che la norma potesse applicarsi a qualsiasi clausola testamentaria (per esempio anche a quella contenente la designazione del tutore),
la formula dell'attuale testo legislativo si riferisce specificamente alle clausole contenenti disposizioni di carattere patrimoniale: istituzione di erede o costituzione di legato.
La seconda, importante innovazione introdotta dall’art. 634, consiste nel fare salvo quanto è stabilito, circa gli effetti del
motivo illecito, dall’art.
626. La coordinazione dei due articoli offre però serie difficoltà. Innanzitutto è da notare che, in un certo senso, sono opposti i punti di partenza: la disposizione dell’art.
626 attribuisce importanza persino all’antecedente psicologico (motivo) della determinazione di volontà; quella dell’art. 634 toglie valore a quella zona della manifestazione volitiva, con la quale essa delimita (autolimita) se stessa. Proprio con riferimento a quest’ultimo riflesso, si osservò che sarebbe stato più opportuno sopprimere l’art. #849# codice 1865, perché la disposizione testamentaria sottoposta a condizione impossibile o illecita si fonda su di una “volontà poco seria o poco onesta”. E, per giustificare la conservazione della disposizione di cui all’art. #849# codice 1865, si dovette prospettare l’ipotesi che il testatore non sappia che la condizione è impossibile o illecita: ipotesi perfettamente plausibile - non si nega - specie con riferimento a certi aspetti dell’illecito e a certi atteggiamenti dell’impossibilità giuridica. In questa direzione si dette adito all’unico tentativo di conciliazione tra l’art.
626 e l’art. 634, poiché si disse che,
ove il testatore ignori che la condizione sia impossibile o illecita, rimane sempre il dubbio se la condizione abbia costituito una determinante della sua volontà di testare (motivo) oppure una semplice sanzione da lui voluta per obbligare l’erede o il legatario ad adempiere alla condizione. Ciò risulta non molto chiaro: a parte il rilievo che non si riesce facilmente a intendere come la condizione possa costituire la sanzione per obbligare il designato ad adempiere la condizione (si vuol forse dire che la condizionalità della disposizione è stata adottata per assicurarsi sulla realizzazione dell’evento dedotto in condizione: ma non si dice nulla che già non si deduca dalla funzione e dalla struttura di ogni manifestazione di volontà condizionata), quel che riesce sostanzialmente incomprensibile è proprio la distinzione tra la
duplice funzione assegnata alla condizione, che sarebbe ora motivo, ora sanzione. D'altra parte, da quanto si è riferito sembrerebbe doversi dedurre che uno dei presupposti dell’applicabilità dell’art.
626 all’ipotesi di disposizione testamentaria fondata su di una condizione impossibile o illecita, fosse l’accertamento dell'ignoranza da parte del testatore della illiceità o impossibilità della condizione: il che sarebbe, senza alcun dubbio, voler aggiungere alla legge.
Piuttosto è da rilevare che la condizione è assai più che un motivo dedotto espressamente, poiché, una volta inserita nel negozio, è parte integrante della manifestazione di volontà; quindi neppure è del tutto esatto che quando un motivo viene elevato a condizione è sempre determinante, poiché il motivo elevato a condizione non resta motivo ma è, come tale, assorbito dalla determinazione di volontà. Questa, in realtà, è un'unità psicologica e giuridica. Si deve però tener presente che, nel campo strettamente giuridico, l’unità sussiste entro i limiti in cui la norma la mantiene.
Infatti, come si possono staccare i motivi che hanno determinato a volere dalla manifestazione volitiva, così si può separare una zona di volontà, considerata come accessoria, dall’altra, considerata come principale. Ora, l’unità psicologica sarebbe rimasta unità giuridica, se la legge, all’art. 634, avesse accolto il principio contrario, secondo cui le condizioni impossibili e illecite vitiantur et vitiant. Posto ciò, se la legge può scindere la volontà condizionata da quella condizionante, e considerare come nulla ed inefficace quest’ultima, e valida ed efficace l’altra, può pure limitare gli effetti di tale regola, e mantenere il legame tra volontà condizionata e volontà condizionante, nel caso in cui quest’ultima si riveli decisiva rispetto a quella. Non c’è altra spiegazione plausibile della disposizione in commento.
L’art. 634 solo in apparenza contiene una disposizione (pleonastica) che fa salvo quanto è stabilito dall’art.
626: nella sostanza, invece, estende il principio che ispirò l’art.
626 alla
disciplina dei rapporti tra volontà e motivo illecito, in modo da ricavarne una norma analoga a quella contenuta nello stesso art.
626, per la disciplina dei rapporti tra volontà condizionante e volontà condizionata, in un’ipotesi (come quella prevista dall’art. 634) nella quale esse sono considerate dalla legge come entità autonome, sia pure funzionalmente collegate. Ciò premesso, per l’applicabilità dell’art.
626 nell’ipotesi regolata dall’art. 634, non vi è da fare altro che il dosaggio dell’efficacia causativa più o meno intensa, più o meno decisiva, della volontà condizionante su quella condizionata; l’indagine, quanto mai delicata e difficile, avrà raggiunto il suo fine quando avrà messo in evidenza che la volontà condizionante sia stata (oppure no) l’unico antecedente della volontà condizionata. Non si tratta, dunque, di indagare sull’efficacia causativa di un motivo espresso, ma piuttosto di
mettere in evidenza la funzione causativa della volontà accessoria rispetto a quella principale.
L’art.
635 considera espressamente la
condizione di reciprocità, che è una condizione
illecita. Anzi, l’illiceità di essa si deduce dallo stesso art.
635, che ne dichiara la nullità: sicché, in sostanza, in virtù di questa disposizione si può identificare una particolare condizione illecita (contraria alla legge), e dedurre una regola che deroga al principio posto dall’art. 634. L’art.
635 riproduce integralmente l’art. #852# codice 1865.
La medesima funzione ha, rispetto alla
condizione che impedisce le nuove nozze o le ulteriori, l’art.
636. Anch’essa riproduce il testo dell’art. #850# del codice del 1865, salvo l’ultimo comma, che è stato soppresso.