Alla luce del fatto che l’immobile era
sprovvisto di un certificato di agibilità e che la pratica del condono edilizio relativamente ai posti auto coperti non era stata ancora completata, il promissario
acquirente aveva opposto l’
incommerciabilità dell’immobile, chiedendo il differimento della data di stipulazione del
contratto definitivo ed una riduzione di circa la metà del prezzo pattuito, sostenendo che, secondo quanto detto dal
notaio, il contratto non sarebbe stato stipulabile in assenza di tale documentazione.
Per questo motivo, il promissario acquirente non si era presentato dinanzi al notaio alla data fissata per la stipula del contratto definitivo, dimostrandosi inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte con il preliminare.
I promittenti venditori avevano così comunicato alla controparte la loro volontà di recedere dal contratto e proposto
domanda al fine di sentir dichiarare la legittimità del loro
diritto di recesso e di far ordinare la cancellazione della
trascrizione di detto contratto preliminare, con conseguente diritto a trattenere la caparra. Gli attori sostenevano che la controparte fosse già stata informata, all’atto della conclusione del preliminare, della situazione in cui versava l’immobile.
Il promissario acquirente si era costituito in
giudizio chiedendo il rigetto della domanda attorea e proponendo
domanda riconvenzionale al fine di accertare la legittimità del suo recesso e di ottenere conseguentemente la condanna dei ricorrenti al pagamento del doppio della caparra che aveva versato.
Il Tribunale di Roma aveva rigettato la
domanda principale ed accolto quella riconvenzionale, in considerazione dell’interesse del
convenuto ad acquistare un immobile che fosse dotato dei requisiti previsti dalla legge, ed aveva così condannato gli attori al pagamento del doppio della caparra.
Dopo aver proposto appello, anch'esso rigettato, i promittenti venditori avevano deciso di ricorrere in Cassazione.
La Corte di Cassazione si è pronunciata con l’
ordinanza n. 9226/2020, rigettando il
ricorso. La Suprema Corte ha osservato che la giurisprudenza ha sempre unanimemente giustificato il rifiuto del promissario acquirente di stipulare il contratto definitivo di compravendita di un immobile privo dei requisiti e dei certificati previsti dalle leggi urbanistiche, anche nel caso in cui il mancato rilascio di essi dipenda dall’inerzia del Comune, nei cui confronti, tra l’altro, è obbligato ad attivarsi il promittente venditore.
Tale giustificazione del recesso deriva dal fatto che
“l'acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene, per cui i predetti certificati devono ritenersi essenziali”.
Inoltre, ai fini della legittimità del
recesso di cui all'art.
1385 comma 2 c.c., non basta che la controparte sia inadempiente, ma occorre che tale
inadempimento sia connotato dal requisito della “
non scarsa importanza” di cui all'art.
1455 c.c. Dunque, il giudice deve tenere conto di quanto effettivamente l’inadempimento incida sul rapporto contrattuale e verificare se, alla stregua dell’economia complessiva del contratto, sia da escludere che la controparte possa ricavarne comunque utilità.
Secondo la Cassazione, i giudici di
merito avevano correttamente compiuto questa valutazione, giungendo a considerare l’inadempimento dei promittenti venditori come di “non scarsa importanza” ed a giustificare il recesso del promissario acquirente. Per queste ragioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.