La norma in esame fa chiarezza in merito al fatto che, nel nostro sistema penale,
viene punita anche la cooperazione colposa.
Per aversi cooperazione colposa è innanzitutto necessaria la
coscienza e volontà di concorrere con altri alla condotta violatrice delle regole cautelari (v. art.
43), mentre ovviamente non deve sussistere la volontà di concorrere al reato vero e proprio, ricadendosi altrimenti nella classica ipotesi di cui all'art.
110.
In secondo luogo, vi deve essere la
previsione, o quantomeno la
prevedibilità dell'evento, in ossequio al tradizionale canone di imputazione dei delitti colposi.
Va comunque evidenziato che, nonostante la norma parli di “
delitti”, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sostengono con fermezza che la cooperazione colposa possa riguardare anche i meri
illeciti contravvenzionali, dato che l'art.
42 comma 2 impone una espressa previsione normativa solamente per i delitti colposi, ma non anche per le contravvenzioni.
Venendo alle ipotesi più interessanti, è stata dichiarata ammissibile la configurabilità di una partecipazione nel
reato da parte di persone aventi
differenti atteggiamenti psicologici.
Per quanto riguarda il
concorso doloso in delitto colposo, si fa il classico esempio di chi consegni un veleno ad un'altra persona affinché commetta un omicidio e questa, conoscendo la natura della sostanza, la dimentichi in un luogo facilmente accessibile a tutti di modo che possa essere ingerita dalla vittima.
Più facile sembra essere la configurabilità di un
concorso colposo in delitto doloso, nel caso in cui la regola cautelare violata fosse posta proprio allo scopo di impedire il fatto doloso del terzo, come nel caso del medico psichiatra che sospenda in maniera imprudente il trattamento farmacologico di un paziente psicotico e quest'ultimo uccida poi qualcuno.
/// SPIEGAZIONE ESTESA
L’articolo in esame si contrappone, da un certo punto di vista, alla figura del concorso nel reato, disciplinata dall’
art. 110 del c.p.. Infatti, nella disposizione
de quo, si fa riferimento solo ed esclusivamente ad una condotta di “
cooperazione”, che è cosa ben diversa rispetto al concorso, sia con riguardo alla connotazione concreta della condotta dell’agente, sia dal punto di vista dell’elemento psicologico.
Queste differenze hanno anche condotto ad un acceso dibattito in merito alla ammissibilità di un concorso di persone che rispondano sulla base di titoli soggettivi diversi, in particolare per quanto attiene all’ipotesi del cosiddetto “concorso colposo nel delitto doloso”.
Si afferma in dottrina che le condotte che rilevano ai fini della norma in commento sono quelle che, ai sensi dell'
art. 40 del c.p., costituiscono
condicio sine qua non per la realizzazione del fatto di reato.
È molto importante distinguere, non solo a fini teorici ma anche pratici, l’ipotesi della cooperazione colposa da quella del
concorso di più cause indipendenti tra loro, disciplinata dall'
art. 41 del c.p..
Ciò che distingue nettamente le due ipotesi è il diverso elemento soggettivo rinvenibile in capo all’autore della condotta.
Solo nel caso di cooperazione, infatti, egli è consapevole della convergenza delle condotte dei vari agenti verso un risultato unitario.
Nel concorso di cause tra loro indipendenti, viceversa, le varie condotte convergono e contribuiscono tutte alla realizzazione del fatto di reato, senza tuttavia che i vari agenti siano consapevoli che la loro condotta andrà ad incrociarsi con quella degli altri, contribuendo alla realizzazione del reato.
Dal punto di vista della disciplina, tale differenza è fondamentale. Basti pensare all’
art. 114 del c.p., il quale permette al giudice di operare una
diminuzione di pena per il “contributo di minima importanza” solo con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 113 c.p., e non certo nel caso di concorso di cause tra loro indipendenti.
Tale coscienza e consapevolezza di collaborare con altri alla realizzazione di un evento, senza tuttavia volerlo direttamente (concretandosi altrimenti un’ipotesi di delitto doloso) caratterizza la cooperazione colposa ex art. 113 c.p.
In particolare, la giurisprudenza si divide in merito alla necessità che la condotta del cooperante integri, o meno, la violazione di una regola cautelare di condotta.
Ebbene, una certa parte degli interpreti ritiene che sia necessario, per integrare la figura della cooperazione colposa, che ci sia, da parte dell’autore, la violazione di una regola cautelare di condotta, unita alla prevedibilità, e quindi alla evitabilità, dell’evento. Altra parte della giurisprudenza, viceversa, ritiene che sia sufficiente che la condotta del cooperante assuma dei tratti giuridicamente apprezzabili, anche senza integrare una vera e propria violazione di regole cautelari, limitandosi ad accentuare o aggravare il rischio della realizzabilità dell’evento.
Il nodo problematico più complicato riguarda senza dubbio la funzione rivestita dalla norma di cui all’art. 113 c.p.
Innanzitutto, è opportuno distinguere tra ruolo ricoperto dalla norma de quo nell'ambito dei reati a forma libera e in quello dei reati vincolati.
Nel primo caso, infatti, la tesi tradizionale sostiene che l’art. 113 svolga una “funzione di disciplina”, estendendo le norme sul concorso a fattispecie già tipiche. Tuttavia, così ragionando, si opererebbe in definitiva una interpretatio abrogans del disposto di cui all’art. 113 c.p., il quale non rivestirebbe alcuna utilità concreta.
Per questo motivo, altra parte della dottrina sostiene che la norma in commento sia finalizzata a dare rilevanza penale alla combinazione delle condotte colpose, accedendo al concetto della cosiddetta “colpa di cooperazione”. Secondo tale tesi, la norma di cui all’art. 113 integrerebbe una sorta di deroga al principio dell’affidamento, sulla base del quale ognuno deve ritenersi, salvo eccezioni, esclusivamente responsabile della propria condotta, potendo confidare sul fatto che gli altri facciano altrettanto.
Nel caso della cooperazione colposa, invece, si viene a creare un coordinamento di ruoli in virtù del quale ognuno deve comportarsi tenendo conto di quello che farà l’altro, dovendosi altrimenti ritenere responsabile, in quanto cooperante, ai sensi dell’art. 113 c.p.
Diverso è il discorso allorquando ci si trovi al cospetto di reati a forma vincolata. In tal caso, infatti, la norma di cui all’art. 113 c.p. riveste pacificamente un ruolo di incriminazione. Le condotte collaterali che non rientrano nella forma “vincolata” contemplata dal legislatore, invero, rischierebbero di restare impunite, nonostante la loro accertata efficacia causale in riferimento alla realizzazione del fatto di reato.
Discorso analogo vale per i reati omissivi, propri e impropri, nel momento in cui la condotta dell’agente si riveli eziologicamente rilevante ai fini della consumazione del reato pur non avendo l’autore, nel primo caso, l’obbligo di attivarsi e, nel secondo, una posizione di garanzia (necessaria per configurare il reato omissivo improprio, ai sensi del secondo comma dell’art.
40 c.p.).
Infine, come accennato, grande rilevanza teorica e pratica riveste la questione dell’ammissibilità di un concorso tra condotte di soggetti che versino in situazioni soggettive eterogenee.
Tale problema risulta strettamente collegato con l’istituto della cooperazione colposa, soprattutto per quanto riguarda l’ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso.
Tale figura è tradizionalmente osteggiata in dottrina, proprio sulla base di un’analisi letterale e sistematica della disposizione di cui all’art. 113 c.p. la quale, nel riferirsi esclusivamente alla condotta di “cooperazione”, sembra escludere, in linea di principio, la possibilità di un concorso colposo.
Tuttavia, di diverso avviso è la giurisprudenza più recente, la quale tende ad ammettere la configurabilità di tale istituto, sulla base della considerazione per cui tale figura potrebbe assumere rilevanza in quei casi in cui la regola cautelare violata dall’agente sia volta a reprimere, e ad evitare, la condotta dolosa di un terzo.
La vicenda che meglio esprime tale problematica è quella affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 22042 del 26 maggio 2015, relativa al caso di un medico psichiatra il quale, interrompendo il trattamento farmacologico a cui era sottoposto il paziente, ha permesso allo stesso di adottare condotte pericolose, sfociate infine nell’omicidio di un operatore sanitario.
In casi del genere, si afferma, la condotta del medico psichiatra rischierebbe di rimanere impunita, in quanto lo stesso ha violato una regola cautelare che non ha provocato direttamente l’evento lesivo, ma ha in qualche modo permesso l'esecuzione della condotta dolosa del terzo.
È in casi come questi che assume rilevanza la funzione incriminatrice del concorso colposo nel delitto doloso, in assenza della quale rischierebbero di crearsi degli ingiustificati vuoti di tutela.
///FINE SPIEGAZIONE ESTESA