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Articolo 1221 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Effetti della mora sul rischio

Dispositivo dell'art. 1221 Codice Civile

Il debitore che è in mora non è liberato per la sopravvenuta impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, se non prova [2697] che l'oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore [1805](1).

In qualunque modo sia perita o smarrita [1257] una cosa illecitamente sottratta, la perdita di essa non libera chi l'ha sottratta dall'obbligo di restituirne il valore(2).

Note

(1) Se però il bene perisce per colpa del creditore, è questi a sopportarne le conseguenze.
(2) Nel caso di sottrazione illecita, il perimento o lo smarrimento del bene non possono fungere da scappatoia per liberare il debitore.

Ratio Legis

La giustificazione della norma, che prevede il principio della perpetuatio obligationis, è la seguente: se il debitore in mora avesse adempiuto a tempo debito, il bene non sarebbe perito e il creditore avrebbe potuto utilizzare la prestazione. Ecco perché il debitore può liberarsi dimostrando che, anche adempiendo in tempo, il creditore non avrebbe comunque potuto usufruire della prestazione.

Brocardi

Mora debitoris perpetuat obligationem
Perpetuatio obligationis
Qui in re illicita versatur, tenetur etiam pro casu
Qui suscepit aut ipsam rem debebit incorruptam reddere, aut aestimationem de qua convenit
Res perit debitori
Si post moram res interierit, aestimatio eius praestatur

Spiegazione dell'art. 1221 Codice Civile

Perpetuatio obbligationis

L'articolo in commento disciplina uno degli effetti della mora: quello della c.d. perpetuatio obligationis, o del persistere del rischio e pericolo nella persona del debitore. Esso però non è esclusivo
giacchè lo accompagna anche l'obbligo del risarcimento del danno; ma di questo si dirà commentando gli articoli 1223-1225 e successivi, senza criterio separati, dall’art. 1222, nella loro logica e sistematica connessione con l'art. 1221.

Perpetuatio obligationis vuol dire, in sostanza, e che il creditore è sempre in diritto di domandare l'adempimento dell'obbligo primario e che il debitore continua ad essere tenuto ad adempierlo anche se la cosa si sia distrutta o deteriorata per fortuito quantunque questo fosse stato, per l'innanzi, a carico del creditore. I1 fortuito ormai più non lo libera, come lo avrebbe liberato se non fosse stato in mora. Ma non del fortuito il debitore rispende, giacché è sempre la inadempienza colposa che lo chiama a render conto al creditore; di qui l'interprete può desumere due presupposti, rispettivamente uno per il persistere nel debitore dei pericula rei interitus et deterioris condicionis; l'altro per il cessare di quell'obbligo. Il primo: che tra la successiva impossibilità o modificazione della prestazione e la mora sussista un nesso causale cronologico, nel senso che l'interitus e la deterior condicio rei debbono essersi verificati in quanto e nello stesso periodo in cui si è verificata la mora. Il secondo: che ove si dimostri l'inesistenza di quel nesso, i1 debitore deve essere liberato, applicandosi, di nuovo, il principio res perit creditori. La fondatezza del primo degli anzidetti principi è evidente; ma non meno evidente e ragionevole è l'altro che vuole il debitore liberato da ogni responsabilità per l'interitus e la deterior condicio rei se dimostra che, pur quando avesse tempestivamente e regolarmente adempiuto la prestazione, consegnando, cioè la cosa al creditore, questa si sarebbe egualmente distrutta o deteriorata presso lui; se il fortuito che, post moram, colpisce la cosa ancora presso il debitore inadempiente, avrebbe colpito la stessa cosa ove si fosse trovata presso il creditore, non è lecito a costui chiedere al debitore un risarcimento di danni che mai avrebbe potuto ottenere qualora l'obbligato avesse tempestivamente adempiuto la sua prestazione.

Una condizione necessaria - sebbene non indicata dal codice — perché possa applicarsi il principio ora enunciato è che l'obbligazione abbia per oggetto una cosa certa e determinata; poiché genus numquam perit, da tale specie di prestazione il debitore non potrebbe mai essere liberato neppure provando che la cosa si sarebbe distrutta presso il creditore.


Prova liberatoria

L’onere di questa prova ricade sul debitore; prova senza dubbio grave e che può viepiù aggravarsi se, per escludere ogni sua responsabilità determinata dalla perpetuatio obligationis, il debitore debba dimostrare che il creditore, contrariamente al suo assunto, non avrebbe convertito o non avrebbe potuto convertire nel corrispondente valore la cosa (ad es. alienandola) e che perciò, il casus la avrebbe sempre colpita presso di lui. La difficoltà di una prova siffatta ha indotto taluni a sostenere che il creditore, per conseguire un risarcimento, sia tenuto a provare che egli avrebbe alienato la cosa prima del fortuito se in tempo l’avesse ricevuta dal debitore. Non vediamo però in base a quale motivo può accogliersi questa teoria; anche se al debitore si domanda una prova di indole negativa, qual è quella dianzi specificata, ciò risponde pienamente alle regole sull’onere della prova; poiché è il debitore che vuole allontanare da sé le conseguenze della mora, a lui deve far carico la prova di ogni fatto idoneo a distruggere il nesso tra mora e fortuito.


Casi di esclusione di questa prova

Dalla perpetuatio obligationis propter moram vi è chi non può mai liberarsi anche se la distruzione della cosa, per fortuito, verificatasi presso di lui, si fosse egualmente avverata presso il proprietario; infatti: chiunque abbia illecitamente sottratto una cosa altrui, non è liberato dall'obbligo di restituire il valore (non si tratta perciò di risarcire il danno) in qualunque modo la cosa si sia distrutta o smarrita; così il 2° comma dell'articolo in commento, nel quale si ripete l'identico principio enunciato dall'ultimo cpv. dell'art. 1298 che una dottrina difficilmente era riuscita a spiegare, mentre altri lo giustificavano ora riflettendo sulla perfidia che è nell'atto di chi illegittimamente si impossessa della cosa altrui, ora affermando sussistere sempre in chi ha sottratto la cosa una mora che lo fa obbligato in ogni momento a rispondere. In verità anche a chi scrive sembra che nessuna di queste due argomentazioni sia tale da persuadere della fondatezza della norma in esame; non la prima perché all'effetto della perfidia o dell'illiceità dell'atto si contrappone — senza poterlo seriamente giustificare l'arricchimento indebito che il proprietario della cosa sottratta verrebbe a conseguire nonostante la dimostrazione che questa si sarebbe distrutta pur se fosse rimasta presso di lui; non la seconda che si limita solo a precisare in quale momento si iniziano gli effetti della mora, ma non dice perché essi devono persistere od essere più gravi di quelli che si producono in casi simili.

La norma in esame, che razionalmente non si spiega, può comprendersi solo se ricondotta alla sovrana volontà del legislatore il quale ha inteso, con discutibile rigore, rendere più gravoso l'obbligo di restituire la cosa e per chi l'ha illecitamente sottratta e per i suoi eredi giacché versandosi in tema di obbligazione civile, e quindi trasmissibile ai successori a titolo universale, non v'è motivo di liberare costoro dal dover rispondere d'un debito del defunto.

La formula del cpv. induce a ritenere che — diversamente da quanto si pensava per l'ultimo cpv. dell'abrogato art. #1298# - non possa restringersene l'applicazione al solo furto e che, di conseguenza vi debbano rientrare quante altre figure di reati attuino un'illecita sottrazione della cosa a chi legittimamente la detiene (appropriazione indebita, truffa).

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

101 
Gli effetti della mora sul rischio della prestazione sono regolati nell'art. 120 generalizzandosi il principio dell'art. 1298 cod. civ. (art. 89 progetto della Commissione reale), che era mantenuto in formula molto ristretta, perché si riferiva alle sole obbligazioni di dare una cosa determinata.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

570 La mora del creditore e quella del debitore mantengono la tipica differenziazione di presupposti e di effetti, che era nello spirito e nella lettera del codice del 1865. La mora accipiendi deriva da un ostacolo per l'adempimento, ricollegato al creditore e prescindente da una colpa di lui (art. 1206 del c.c.); la mora debendi ha origine da un ritardo di cui il debitore debba rispondere secondo i principii dell'inadempimento che saranno più avanti illustrati (n. 571). La mora accipiendi pone a carico del creditore l'impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore (art. 1207 del c.c., primo comma e, in applicazione, art. 1673 del c.c. e art. 1805 del c.c., secondo comma); non sono più dovuti gli interessi nè i frutti della cosa, salvo che il debitore li abbia effettivamente percepiti (art. 1207 del c.c., primo comma); il creditore deve sostenere le spese per la custodia e la conservazione della cosa dovuta (art. 1207 del c.c., secondo cornma). La mora debendi pone a carico del debitore il rischio dell'impossibilità della prestazione, se egli non dimostri che l'oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore (art. 1221 del c.c., primo comma), la perdita o lo smarrimento di una cosa illecitamente sottratta, comunque avvenuta, non libera chi l'ha sottratta dall'obbligo di restituirne il valore (art. 1221 del c.c., secondo comma). Mora accipiendi e mora debendi hanno comune l'effetto del risarcimento del danno (art. 1207 del c.c., secondo comma, e art. 1218 del c.c.); ma la mora del debitore riacquista caratteri autonomi nel caso di obbligazioni pecuniarie, perchè il danno che produce l'inadempimento di queste consiste, di regola, nel pagamento degli interessi (art. 1224 del c.c., primo comma). In tal caso un maggior danno può essere risarcito (ad esempio, differenza di cambio nei debiti di moneta estera); ma solo quando non vi è convenzione sulla misura degli interessi moratori, perchè, se esiste tale convenzione, deve presumersi che le parti hanno inteso liquidare preventivamente ogni conseguenza patrimoniale dell'inadempimento (art. 1224 del c.c., secondo comma). Si può parlare ancora di interessi moratori non ostante, come si vedrà (n. 593), sia stato accolto il principio secondo cui gli interessi decorrono di diritto in ogni caso di credito esigibile (art. 1282 del c.c., primo comma); e infatti, a seguito della mora, la prestazione di interessi assume il carattere di compenso per il ritardo, e non per l'uso legittimo del danaro, come è nell'essenza della corrispettività. Non si tratta di un semplice mutamento di terminologia, perchè è possibile che l'interesse moratorio sia superiore a quello (corrispettivo) decorrente per il solo fatto dell'esigibilità, del credito (art. 1224 del c.c., primo comma), e perchè è possibile, per legge o per convenzione, che gli interessi decorrano solo dopo la mora. Gli interessi compensativi, i quali prescindono dalla mora del debitore (interessi moratori) ed anche dalla semplice scadenza del debito (interessi corrispettivi) appaiono in taluni casi specificatamente previsti (art. 1499 del c.c., art. 1815 del c.c., art. 1825 del c.c.).

Massime relative all'art. 1221 Codice Civile

Cass. civ. n. 5385/2018

In tema di azione di regresso, il datore di lavoro è obbligato nei confronti dell'INAIL nei limiti dei principi che informano la responsabilità per il danno civilistico subito dal lavoratore; ne consegue che il giudice del merito, senza considerare l'ammontare dell'indennizzo previdenziale, deve calcolare il danno civilistico (ex artt. 1221 e 2056 c.c.), quale limite massimo del diritto di regresso dell'INAIL, stabilendo, quindi, se l'importo richiesto dall'istituto rientri o meno nel predetto limite.

Cass. civ. n. 9374/2006

Il principio della perpetuatio obligationis di cui all'art. 1221 c.c. riguarda solo la prestazione dedotta nel rapporto, nei limiti di quanto maturato e dovuto nel tempo di vigenza dell'obbligazione e non quest'ultima in quanto tale, poiché la responsabilità prevista nella suddetta norma è disposta per l'ipotesi dell'impossibilità della prestazione e presuppone che l'impossibilità sia sopravvenuta avuto riguardo al tempo in cui l'obbligazione è sorta. Conseguentemente, tale norma non è applicabile nell'ipotesi in cui fin dal tempo della sua nascita era prevista per l'obbligazione una sua durata con la fissazione di un termine finale. (Nella specie, enunciando il riportato principio, la S.C. ha accolto il relativo motivo di ricorso e cassato con rinvio la sentenza impugnata, con la quale era stata ritenuta — sulla scorta dell'art. 1221 c.c. — la protrazione del diritto al risarcimento del danno, conseguente all'omessa assunzione di un funzionario da parte di una società concessionaria del servizio di esattoria, in misura pari alle retribuzioni anche per il periodo successivo al 31 dicembre 1990, nel mentre l'obbligazione della predetta società aveva, fin dalla sua origine, il suo termine finale coincidente con la scadenza del medesimo conferito dalla Regione Sicilia per la gestione del servizio di riscossione dei tributi nella stessa Regione, fissato per la menzionata data del 31 dicembre 1990).

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