Ciò posto, nonostante i primi due gradi di giudizio avessero respinto le richieste della donna sul generico presupposto che l’accettazione dell’intervento manifestava implicitamente il desiderio di essere curata e quindi accettare tutte le fasi dell’intervento, la Cassazione con una sorprendente sentenza ha accolto il ricorso della donna sulla base dell’interpretazione dei principi costituzionali che vengono in gioco in materia. Segnatamente, dato che all’epoca dei fatti non era ancora entrata in vigore la legge sul consenso informato e sulle D.A.T., la Cassazione ha rilevato che la disciplina della fattispecie resta affidata ai principi costituzionali relativi al diritto di autodeterminazione sanitaria ex art. 2 Cost., art. 13 Cost. e art. 32 Cost. e di libertà religiosa ex art. 19 Cost.. Il primo rappresenta un diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute; il secondo, invece, un diritto inviolabile tutelato al massimo grado poiché il principio di laicità è da intendersi non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità. Da ciò ne deriva a detta degli Ermellini una vera e propria osmosi tra tali diritti che comporta il definitivo abbandono dell’abusato concetto di intervento per stato di necessità, usato in passato per giustificare una visione paternalistica del rapporto medico-paziente, a favore di una visione cooperativa fondata su uno specifico rapporto giuridico contrassegnato dall’obbligazione negativa del sanitario di non ledere la sfera giuridica vantata dal paziente, cui spetta la titolarità attiva del rapporto. Al centro di tale rapporto, dunque, viene posto l'individuo, con le sue scelte di vita e soprattutto i valori che caratterizzano ciascuno di noi, fra cui i propri convincimenti religiosi.
La regola di giudizio enunciata permette a questo punto di rilevare l’erroneità delle motivazioni dei precedenti gradi di giudizio secondo cui l’accettazione dell’intervento chirurgico equivaleva ad un consenso implicito al trattamento trasfusionale. Secondo la Corte, infatti, la dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione è insuperabile non contando che questa possa essere ritenuta opportuna dai medici a seguito di una eventuale emorragia causata dall’intervento e dunque giustificata dal rischio di pericolo di vita. L’attualità del dissenso non è poi da riferirsi al momento del peggioramento della situazione clinica o del sorgere del pericolo di vita, ma alla volontà manifestata inizialmente. Dissenso che, tra l'altro, non perde valore qualora sopraggiunga un successivo stato di incapacità del soggetto o una situazione di pericolo.
In conclusione, può dirsi il principio enunciato dalla sentenza rappresenta uno strumento di tutela non solo per il paziente, ma anche e soprattutto per gli operatori sanitari che hanno bisogno di certezze di fronte a situazioni simili. L’opzione era: o da un lato rispettare la volontà del paziente ed in caso di esito infausto subire eventuali azioni penali, ovvero non rispettare la volontà del paziente ma esponendosi parimenti possibili azioni da parte sua o dei suoi congiunti, sia in sede civile che in sede penale. L’evoluzione giurisprudenziale, anche con la sentenza in commento, e indubbiamente la l. n. 219/2017, sembrano aver messo finalmente a tacere questi dubbi.