Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Roma aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni lamentati da una paziente in conseguenza di un intervento chirurgico effettuato “oltre che, come convenuto, al ginocchio destro lesionato in conseguenza di caduta su pista da sci, anche a quello sinistro, non lesionato e per il quale non aveva prestato consenso”.
Avverso tale pronuncia, la paziente procedeva a proporre ricorso per Cassazione, evidenziando come il Tribunale avesse posto a fondamento della propria decisione delle “prove testimoniali erroneamente assunte, in quanto volte a provare patti aggiunti o contrari a quelli in precedenza concordati in ordine all'intervento chirurgico da effettuarsi”.
Secondo la ricorrente, inoltre, il Tribunale avrebbe “erroneamente negato natura negoziale all'atto contenuto nel documento scritto predisposto dal F. e da lei sottoscritto relativo all'intervento chirurgico da eseguirsi al (solo) ginocchio destro”.
La ricorrente, inoltre, evidenziava come il Tribunale avesse “erroneamente riconosciuto valore al consenso asseritamente prestato verbalmente nel corso dell'intervento chirurgico per l'operazione anche del ginocchio sinistro, laddove tale consenso non poteva essere stato da lei comunque validamente prestato, essendo sotto narcosi e non conoscendo l'italiano”.
Ebbene, la Corte di Cassazione evidenziava come, in caso di violazione dell’ obbligo di consenso informato, l’intervento chirurgico deve considerarsi sicuramente illecito, anche quanto l’intervento corrisponda all’interesse del paziente e salvo ci si trovi di fronte ad un caso di “trattamento per legge obbligatorio” o di “stato di necessità”.
Infatti, osserva la Corte come, l'art. 32, 2 co., Costituzione, prevede che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, l’art. 13 Cost. garantisce “l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica” e l’art. 33 L. n. 833 del 1978, “esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.”.
Pertanto, in base a tali disposizioni, il sanitario ha “il dovere di informare il paziente in ordine alla natura dell'intervento, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili e delle implicazioni verificabili”.
Inoltre, “l'acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell'intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell'eventuale responsabilità risarcitoria in caso di relativa mancata prestazione da parte del paziente”.
Dunque, secondo la Cassazione, si tratta di “due distinti diritti”, in quanto, “il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all'espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico (…), e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente (…), atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (…). Il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del (diverso) diritto fondamentale alla salute (…)”.
Di conseguenza, “l'autonoma rilevanza della condotta di adempimento della dovuta prestazione medica” deve essere valutata autonomamente “rispetto alla vicenda dell'acquisizione del consenso informato”.
In particolare, sarà il medico a dover “provare l'adempimento dell'obbligazione di fornire un'informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze (v. Cass., 9/2/2010, n. 2847), senza che sia dato presumere il rilascio del consenso informato sulla base delle qualità personali del paziente, potendo esse incidere unicamente sulle modalità dell'informazione, la quale deve sostanziarsi in spiegazioni dettagliate ed adeguate al livello culturale del paziente, con l'adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone”.
Secondo la Cassazione, inoltre, il medico non ottempera all’obbligo di fornire idonea informazione al paziente, non solo “quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso”.
Così, ad esempio, non è sufficiente un modulo del tutto generico, così come non è idoneo un consenso “prestato oralmente”, come nel caso di specie.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione annullava la sentenza, rinviando la causa alla Corte d’Appello, affinchè la medesima procedesse ad una nuova valutazione dei fatti, in base ai principi sopra enunciati.