Nel caso esaminato dalla Cassazione, un militare, in servizio nel 1980, era stato gravemente ferito con un colpo d’arma da fuoco accidentalmente partito dal fucile di un commilitone.
Trasportato e operato d’urgenza all’ospedale, l'uomo veniva sottoposto a diverse trasfusioni di sangue; a seguito di tali interventi gli venivano diagnosticate un’epatite acuta e, successivamente, una cirrosi epatica.
Le condizioni del soggetto peggioravano ulteriormente, tanto che nel 2001 veniva inserito in lista d’attesa per un trapianto di fegato.
Nel corso del medesimo anno, il soggetto notificava al Ministero della Salute, al Ministero della Difesa e all’Assessorato alla Sanità della Regione un atto di intimazione volto ad ottenere il risarcimento dei danni patiti a seguito dell’intervenuto chirurgico e delle trasfusioni di sangue subite.
Nel 2002 veniva avviato un procedimento dinanzi al Tribunale nei confronti del Ministero della Salute e dell’ospedale; tale causa, tuttavia, proseguiva nella persona degli eredi del militare, nel frattempo deceduto.
Il Tribunale dichiarava l’intervenuta prescrizione dell’azione risarcitoria nei confronti del Ministero della Difesa, mentre rigettava l’azione esercitata contro l’ospedale.
Gli eredi proponevano, dunque, appello, che veniva ugualmente rigettato, in quanto i giudici di secondo grado ritenevano che il controllo del sangue infetto spettasse al Ministero e non alla struttura ospedaliera che riceveva le sacche di sangue già controllate.
Inoltre, secondo la Corte d'appello, l’intervento chirurgico a suo tempo effettuato era stato eseguito “con la massima urgenza in stato di necessità”, in considerazione del rischio concreto che il paziente potesse morire nell'immediatezza.
Pertanto, ai sanitari non sarebbe stato consentito di “indugiare per verificare la corretta provenienza del sangue la cui trasfusione era necessaria per tenere in vita il paziente”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, riteneva di dover annullare tale sentenza, con riferimento all’esclusione della responsabilità della struttura ospedaliera, accogliendo parzialmente il ricorso presentato dagli eredi del defunto.
Secondo la Corte, infatti, non si può correttamente sostenere che “una struttura ospedaliera, allorchè effettui una operazione d’urgenza, operi in stato di necessità, e pertanto sia sciolta da ogni obbligo di rispetto delle ordinarie regole di prudenza, canalizzate all’interno delle strutture ospedaliere in dettagliati protocolli medico chirurgici ai quali i sanitari operanti nella struttura si devono attenere”.
In particolare, “perché sia ravvisabile lo stato di necessità, previsto dall’art. 2045 del c.c. come causa di esclusione della responsabilità civile, è richiesta la sussistenza della necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”.
Pertanto, secondo la Cassazione, “la norma implica che un soggetto si venga a trovare fortuitamente, a prescindere dalla sua volontà e dalla sua possibilità di esercitare un controllo sulla situazione in atto, in questa imprevista ed imprevedibile situazione, all’interno della quale soltanto si giustifica il compimento da parte sua di scelte, altrimenti sanzionate dai canoni della responsabilità civile, purchè finalizzate alla necessità di salvare sé od altri dalla imprevista e imprevedibile situazione di pericolo”.
Per quanto concerne l’ipotesi di un intervento chirurgico urgente, dunque, secondo la Corte, “lo stato di necessità può sussistere (…) quando il soggetto che si trovi costretto ad effettuare l’intervento chirurgico, si trova fuori da una adeguata struttura sanitaria e non sia in grado di raggiungerla, mettendo altrimenti a repentaglio la vita della persona in pericolo”.
Solo in questo caso, infatti, “chi interviene non potrà usufruire dei controlli preventivi e degli standard di sicurezza e di igiene che sono imposti all’ospedale per il suo ordinario funzionamento”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, nel caso di specie andavano applicate le “ordinarie regole di ripartizione dell’onere probatorio in materia di responsabilità della struttura sanitaria”.
Dunque, “a fronte della contrazione da parte di un paziente di epatite post trasfusionale, grava sulla struttura ospedaliera l’onere di provare di aver eseguito, sul sangue somministrato, tutti i controlli all’epoca del fatto previsti”.
La sentenza impugnata andava, per questi motivi, annullata, rinviando la causa alla Corte d’Appello, affinchè la medesima decidesse alla luce dei principi sopra enunciati.