La questione sottoposta all’esame degli Ermellini nasceva dalla vicenda che aveva visto come protagonista una donna, la quale, in sede di giudizio d’appello, aveva impugnato la sentenza con cui il Tribunale aveva disposto la divisione ereditaria dei beni del defunto marito, lamentando come la stessa non avesse tenuto conto del fatto che essa fosse titolare di un diritto di abitazione su un immobile facente parte della comunione, in qualità di coniuge del de cuius.
Rimasta soccombente all’esito del giudizio di secondo grado, la donna ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione eccependo, in particolare, una violazione, da parte dei giudici d’appello, dell’art. 1022 del c.c. Secondo la ricorrente, infatti, i giudici di merito avevano errato nel non tener conto dell’esistenza del suo diritto di abitazione su uno dei cespiti oggetto di divisione.
Si eccepiva, poi, la violazione e falsa applicazione dell’art. 728 del c.c., in quanto, secondo la ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe, comunque, potuto disporre l’assegnazione dell’immobile in suo favore, imponendole di versare un conguaglio agli altri condividenti.
La Suprema Corte ha, tuttavia, rigettato il ricorso.
Quanto, innanzitutto, all’asserita violazione dell’art. 1022 del c.c., gli Ermellini si sono dimostrati concordi con i giudici di merito e, richiamando un loro precedente orientamento, hanno precisato che l’esistenza del diritto di abitazione di uno dei condividenti su uno dei beni comuni, non costituisce criterio di preferenza ai fini dell'eventuale attribuzione (Cass. Civ., n. 6601/2000). Ciò significa che la divisione si potrà concludere con l’attribuzione del bene ad un altro condividente, ferma restando, in ogni caso, la persistenza del diritto di abitazione riconosciuto, ex art. 540 del c.c., al coniuge superstite, qualora, però, tale diritto gravasse sulla cosa prima della divisione.
Per quanto riguarda, poi, la lamentata violazione dell’art. 728 del c.c., i giudici di legittimità, nel dichiarare infondato il relativo motivo di ricorso, hanno evidenziato come il giudice, nell’operare una divisione, debba attenersi ai criteri indicati dall’art. 727 del c.c., imponendo, qualora lo ritenga opportuno, dei correttivi in denaro.
L’art. 728 del c.c., richiamato dalla ricorrente, dispone, infatti, che, nell’operare una divisione, il giudice non debba ricercare una perfetta corrispondenza fra quota astratta e porzioni in natura, potendo compensare con versamenti in denaro le eventuali differenze.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente, dunque, detta norma non prevede che il giudice debba attribuire un determinato cespite a chi ne abbia fatto richiesta, solo perché il richiedente abbia manifestato la propria disponibilità a versare il conguaglio.