A causa della sempre maggiore diffusione del COVID-19 in Italia, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2020 ha allargato a tutto il territorio nazionale le misure varate con il precedente DPCM dell’8 marzo, stabilendo misure molto restrittive per quanto riguarda gli spostamenti dei cittadini all’interno del territorio italiano.
Con il DPCM dell’11 marzo, poi, è stato azionato il cosiddetto lockdown, al fine di restringere il numero di attività che possono continuare ad essere legittimamente esercitate.
A scopo di chiarificazione, il Ministro dell’Interno ha inoltre diffuso delle direttive alle Prefetture per l’attuazione dei controlli.
Le norme contenute in tali decreti impongono di evitare ogni spostamento, salvo quelli motivati da: a) comprovate esigenze lavorative; b) situazioni di necessità; c) motivi di salute. È inoltre consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza.
Tali circostanze devono essere attestate attraverso un’autodichiarazione, il cui modulo compilabile è disponibile sul sito del Ministero dell’Interno.
Bisogna considerare che, se nei primi giorni è stato possibile interpretare queste restrizioni con maggiore elasticità perché, anche sociologicamente, non si può immediatamente pretenderne un’applicazione troppo rigida, è anche vero che, con il tempo, si è andati verso una sempre maggiore rigorosità.
Date le possibili incertezze nell’interpretazione delle disposizioni contenute nei decreti, sembra opportuno doversi fare riferimento al principio generale di buona fede: sarà quindi possibile uscire di casa per fare la spesa, per andare dal tabaccaio o per portare fuori il cane, purché lo si faccia senza malizia e nel sostanziale rispetto delle regole. Ad esempio, è conforme al principio di buona fede la condotta di colui che vada a fare la spesa al supermercato vicino a casa, senza andarci in gruppo e senza approfittarne per fare altri giri.
Tutte le misure adottate vanno ad incidere in modo profondo sulla libertà individuale dei cittadini, i quali sono chiamati ad attenersi alle disposizioni del decreto, pena l’applicazione delle sanzioni ivi indicate. In linea generale, poi, è possibile, per il cittadino che violi le restrizioni imposte, incorrere anche in altre fattispecie di reato, che è opportuno passare in rassegna ed analizzare.
Art. 650 c.p.: Inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità
L’articolo 4, comma 2, del DPCM 8 marzo recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell'articolo 650 del codice penale”. Questa sanzione è stata poi confermata anche in relazione alle violazioni delle misure imposte nei successivi decreti.
L’articolo
650 c.p. stabilisce:
“Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordine pubblico o d'igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a 206 euro”.
Si tratta di un
reato contravvenzionale, per il quale sono previste la pena detentiva dell’
arresto e la pena pecuniaria dell’
ammenda, oltre che specifiche pene accessorie (art.
19 c.p.). Le contravvenzioni di distinguono dai delitti, per i quali sono invece previste le pene detentive dell’ergastolo e della reclusione e la pena pecuniaria della multa.
A differenza dei delitti, è possibile estinguere le contravvenzioni mediante
oblazione, ossia tramite il pagamento di una determinata somma di denaro prima del giudizio (artt.
162 e
162 bis c.p.) e non si applica l’istituto della recidiva.
L’art.
650 c.p. rientra tra le norme penali c.d. “in bianco”, cioè quelle norme il cui precetto è indeterminato e va individuato facendo riferimento ad una norma di rango inferiore alla legge. Nel nostro caso, il “provvedimento legalmente dato dall'Autorità” di cui si sanziona la violazione è un DPCM.
Si tratta di un reato comune: chiunque si trovi sul territorio italiano e non rispetti le misure contenute nei decreti è passibile di denuncia, e lo stesso vale per i legali rappresentanti delle persone giuridiche, tra cui i proprietari degli esercizi commerciali aperti al pubblico.
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, l'art.
42, comma 4 c.p., dispone che
"Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa"; dunque, come per tutte le contravvenzioni,
è sufficiente la mera colpa, anche se bisogna evidenziare che la giurisprudenza ha ritenuto necessario pure un requisito di intenzionalità alla base della condotta dell’agente, che sia idoneo a rendere evidente la sua intenzione di non osservare l’ordine impostogli (Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 2398/1995).
Tale condotta si ritiene permanente e la consumazione inizia a decorrere dal momento in cui il soggetto sarebbe stato in grado di obbedire e non lo ha fatto.
Come sopra accennato, nel DPCM dell’8 marzo è prevista una
clausola di sussidiarietà, data dalla locuzione
“salvo che il fatto costituisca un più grave reato”: possono infatti realizzarsi, nella situazione odierna,
altre fattispecie di reato, diverse da quella prevista dall’art.
650 c.p. e considerate dal nostro ordinamento più gravi, delle quali si farà ora un’analisi.
Art. 495 c.p.: Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sull’identità o su qualità personali proprie o di altri (falsa autocertificazione)
È importante innanzitutto sottolineare che, anche se non si fosse in possesso del modulo dell’autocertificazione compilato a cui si è accennato sopra, questo potrà essere fornito dagli stessi agenti di polizia che operano il controllo e potrà essere compilato alla loro presenza.
Detto ciò, è fondamentale tenere conto che la Corte di Cassazione, proprio di recente (Cass. Pen. Sez. V, n. 32859/2019), ha affermato che la presentazione di una dichiarazione sostitutiva avente un contenuto ideologicamente falso, in forza dell'obbligo di dichiarare il vero sancito dall’art. 76 d.P.R. n. 445/2000, integra in ogni caso il reato di cui all’art.
483 c.p.
L’art.
483 c.p., rubricato
“Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”, prevede la reclusione fino a due anni per colui che attesti falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità.
Tuttavia,
l’autocertificazione non può considerarsi un atto pubblico finalizzato a provare la verità dei fatti esposti e, proprio per questo, la norma che trova applicazione nel caso concreto, richiamata dallo stesso modulo fornito dal Ministero, è l’art.
495 c.p., e non l’art.
483 c.p.
L’art.
495 c.p., posto a tutela della pubblica fede, dispone:
“Chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione da uno a sei anni”.
Colui che riceve la dichiarazione deve essere un
pubblico ufficiale, pertanto il reato in esame non potrà essere contestato in caso di false dichiarazioni rilasciate al personale della protezione civile. Il pubblico ufficiale potrà poi verificare il contenuto della dichiarazione e, in caso di non veridicità delle informazioni, denunciare il reato di cui all’art.
495 c.p.
Bisogna inoltre tenere presente che, come affermato dalla Cassazione, per “altre qualità proprie o dell’altrui persona” devono intendersi solamente “quelle che servono a completare lo stato e l’identità della persona, ai fini della sua identificazione” (Cass. Pen. n. 10342/1996). Pertanto, in caso di false dichiarazioni su altre qualità personali non dirette a definire l’identità o lo stato della persona, la tutela penale è esclusa.
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, è richiesto il dolo generico, bastando la conoscenza e volontà del fatto, e la consumazione avviene al momento in cui viene resa la falsa dichiarazione.
Art. 337 c.p.: Resistenza a un pubblico ufficiale
Può accadere che un soggetto, sorpreso dalle forze di sicurezza al di fuori della propria abitazione senza un giustificato motivo, risponda ad esse usando
violenza o
minacce: in questi casi sarà configurabile il reato di
resistenza a pubblico ufficiale ex art.
337 c.p.
La norma stabilisce che: “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.
Si tratta di un reato comune, di mera condotta e a forma libera. Per la sua configurazione non è necessario che la condotta violenta ponga in pericolo l'integrità fisica del pubblico ufficiale o dell’incaricato ad un pubblico servizio, ma è sufficiente che essa impedisca l’espletamento, da parte sua, dell’atto di ufficio. Si tratta, perciò, di una violenza c.d. impropria, configurabile quando, pur non incidendo direttamente sul soggetto passivo, si ripercuote negativamente sull’adempimento della sua funzione pubblica, andandola ad impedire od ostacolare.
Come affermato anche dalla Cassazione (Cass. Pen., sez V, sent. n. 4325/1986), è richiesto il dolo specifico, ossia la coscienza e volontà dell’agente di usare minaccia o violenza per opporsi al pubblico ufficiale mentre sta compiendo il proprio atto d’ufficio o di servizio, essendo indifferente il fatto che tale violenza o minaccia sia esercitata nei confronti di cose anziché sulle persone, quando la condotta sia comunque idonea ad impedire od ostacolare l’attività del pubblico ufficiale.
Ad esempio, potrebbero incorrere nel reato di resistenza a pubblico ufficiale i cittadini che si rifiutino con violenza di consegnare i propri documenti agli ufficiali di polizia preposti al controllo, oppure che non si fermino all’alt imposto da un posto di blocco alla propria automobile.
Soggetto passivo del reato può essere anche il personale della protezione civile, in quanto la norma fa riferimento anche agli incaricati di un pubblico servizio.
Bisogna considerare, comunque, che la condotta di violenza o minaccia, per essere punibile, deve essere compiuta con la finalità di opporsi all’adempimento del servizio e dunque la mera resistenza passiva (come, ad esempio, il rifiutarsi di obbedire) non è idonea a configurare il reato in esame.
Art. 438 c.p.: Reato di epidemia
Nel DPCM dell’8 marzo si raccomanda fortemente, a coloro che presentino sintomi e febbre superiore a 37,5° C, di rimanere presso il proprio domicilio e di limitare al massimo i contatti sociali. Per i soggetti sottoposti alla misura della quarantena ovvero risultati positivi al coronavirus a seguito del tampone, invece, si prevede il divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora e, dunque, l’isolamento domiciliare.
Quest’ultima restrizione è chiaramente la più forte, e lo denota il fatto che, mentre per i soggetti non positivi si utilizza il verbo “evitare”, in questo caso si parla proprio di “divieto assoluto”. Da ciò è intuibile che, se già i non positivi sono passibili di responsabilità penale qualora non rispettino le direttive imposte dai DPCM, a maggior ragione lo saranno i soggetti positivi, e a loro carico potranno configurarsi reati ben più gravi.
Stiamo parlando, in particolare, del reato di
epidemia ex art.
438 c.p., il quale prevede che
“Chiunque cagiona un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l'ergastolo”.
La norma è posta a tutela dell’incolumità pubblica e della collettività; il bene giuridico tutelato è quello della
salute, diritto fondamentale costituzionalmente garantito dall’art.
32 Cost.
Si tratta di un reato comune ed in giurisprudenza si discute se si tratti di un reato di pericolo o di danno, in quanto, nel primo caso, la consumazione, e quindi la punibilità, andrebbe anticipata alla mera circolazione del soggetto positivo al virus, mentre, nel secondo caso, risulterebbero punibili solo coloro che in concreto provocano almeno un contagio.
Secondo la tesi preferibile, per integrare la fattispecie in esame occorre che la condotta del soggetto agente sia tale da cagionare un evento definito come la manifestazione collettiva di una malattia infettiva che si diffonde rapidamente tra le persone in un dato territorio e nel medesimo contesto di tempo, colpendo un numero rilevante di soggetti. Ne deriva, quindi, un evento che è, al contempo, di danno e di pericolo, costituendo la malattia (danno) il fatto iniziale di ulteriori possibili danni (pericolo).
Secondo un recente orientamento della Cassazione, la condotta non può essere altro che commissiva e a forma vincolata, non essendo possibile interpretare la lettera della legge - che parla di “diffusione di germi patogeni” - in modo tale da ricomprendere anche una condotta omissiva.
Art. 452 c.p.: Delitti colposi contro la salute pubblica
L’art.
452 c.p. prevede che chiunque commette,
per colpa, uno dei fatti previsti dagli articoli
438 e
439 è punito con la reclusione, la durata della quale varia in base alla pena stabilita per il reato compiuto a titolo di dolo e può arrivare fino a dodici anni.
Per l’epidemia colposa, è necessario stabilire se vi sia stata una diffusione imprudente, negligente, imperita ecc. di germi patogeni idonei a cagionarla. Nel nostro caso, si potrebbe ipotizzare tale circostanza qualora non siano state osservate le disposizioni per la prevenzione del coronavirus, ma ciò non basta: perché vi sia colpa, secondo i principi generali, oltre alla violazione della regola precauzionale occorre anche la prevedibilità dell’evento (l’agente, quindi, deve sapere di essere affetto dal virus).
La norma poi, al secondo comma, si preoccupa di punire, sempre a titolo di colpa, tutta un’altra serie di reati previsti da norme poste a tutela della salute pubblica, considerando quest’ultima come l’insieme delle condizioni di igiene e sicurezza idonee a garantire la vita e la salute della collettività. Essendo la salute pubblica un bene giuridico fondamentale nel nostro ordinamento, è certamente possibile anticipare la punibilità al mero pericolo astratto.
Altri reati astrattamente configurabili (lesioni personali e omicidio)
In assenza, o quasi, di qualsiasi giurisprudenza di merito, è possibile solamente ipotizzare quali siano le altre fattispecie di reato configurabili nella situazione attuale.
Sicuramente è possibile che si configuri il reato di
lesioni personali (ex art.
582 c.p.) qualora un soggetto che risulti positivo al virus non si ponga in isolamento e contagi altre persone. Allo stesso tempo, è possibile che, qualora ne causi la morte, l’imputazione si converta in
omicidio doloso (ex art.
575 c.p.), in quanto il soggetto era pienamente consapevole della possibilità di contagiare altre persone ed, eventualmente, provocarne la morte. Tale accettazione del rischio è tipica, del resto, del
dolo eventuale, elemento soggettivo richiesto per la configurazione del reato di omicidio doloso.
La configurabilità di queste ultime ipotesi è stata sostenuta avendo come punto di riferimento la giurisprudenza maturata nell’ambito delle cause in materia di reati da diffusione dell’AIDS; per questo tipo di reati, l’elemento soggettivo richiesto è anche quello della colpa cosciente, pertanto, se si dovesse continuare a seguire questo parallelismo, sarebbero punibili anche coloro i quali, nelle condizioni attuali di diffusione del COVID-19, continuino a lavorare o ad avere rapporti sociali senza prendere alcun tipo di precauzioni e senza avvertire i soggetti con i quali hanno avuto contatto, causando il rischio di contagiarli.
Conclusione
L’eccezionalità della situazione in cui ci troviamo ha fatto emergere problemi interpretativi di non poco conto, tali da portare il Ministero dell’Interno a diffondere ulteriori informazioni al riguardo, in modo da stabilire con più precisione quali siano le attività che è ancora permesso svolgere all’aperto ed entro quali limiti.
A fronte di quanto detto, si può concludere che,
dal punto di vista pratico, mentre è più difficile pensare di sostenere in giudizio reati come quello di epidemia o di lesioni gravissime, è invece più plausibile immaginare un considerevole aumento di contravvenzioni ex art.
650 c.p. e di reati di false dichiarazioni o attestazioni ex art.
495 c.p.
Per evitare di incorrere in qualsiasi tipo di reato si consiglia, in ogni caso, di tenersi informati e di agire secondo buona fede.