Nel caso esaminato dalla Corte, un dipendente pubblico era stato licenziato dopo aver subito una condanna penale, a quattro anni di reclusione, per il reato di tentato omicidio.
L’uomo decideva di impugnare il licenziamento, ma la domanda veniva rigettata dal Tribunale di primo grado con sentenza che veniva confermata, in secondo grado, dalla Corte d’appello.
Il giudice di secondo grado, in particolare, rilevava che “dalla lettura della sentenza penale di condanna emergeva la gravità del fatto commesso, poiché il ricorrente sferrò una coltellata al fianco della ex fidanzata, la colpì al volto con un pugno e, solo a seguito della decisa reazione della vittima che riuscì a disarmarlo, desistette dall’intento omicida”.
Secondo la Corte, dunque, “a una persona inserita in un ufficio pubblico, con mansioni che prevedono anche il contatto con gli utenti, si pretende che la condotta extralavorativa sia improntata almeno al rispetto dei valori fondamenti dell’integrità fisica e della vita altrui”.
Pertanto, secondo i giudici, “l’accertamento in via definitiva dei reato commesso aveva comportato un giudizio di inidoneità del lavoratore alla prosecuzione del rapporto, perché è assolutamente esigibile, anche (ma non solo) in ragione dell’inserimento del soggetto in un ufficio pubblico la serietà dei comportamenti privati”.
Il lavoratore licenziato, ritenendo la sentenza ingiusta, proponeva ricorso in Cassazione.
Secondo il ricorrente, infatti, non poteva ritenersi integrata la fattispecie prevista dall’art. 25 del contratto collettivo nazionale del lavoro, ai sensi del quale il licenziamento è legittimo in caso di “condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità”.
Nel caso di specie, infatti, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva adeguatamente motivato la propria decisione di ritenere integrata “una specifica fattispecie contrattuale di recesso per giusta causa”, ai sensi dell’art. 2119 del c.c., ritenendo sussistente il “nesso causale tra il fatto per il quale era intervenuta la condanna in sede penale, ancorché commesso al di fuori della prestazione lavorativa, e il dovere di integrità morale del pubblico dipendente”.
Precisava la Cassazione, in particolare, come l’art. 2119 del c.c., che richiama il concetto di “giusta causa”, abbia la natura di una “norma elastica”.
Pertanto, anche secondo la Corte, “da una persona inserita in un ufficio pubblico, con mansioni che prevedono anche il contatto con gli utenti, si pretende che la condotta extralavorativa sia improntata almeno al rispetto dei valori fondamenti dell’integrità fisica e della vita altrui”.
Nel caso in esame, infatti, il reato commesso dal dipendente pubblico “aveva fatto emergere la violazione di tali valori, oltre che l’incapacità del soggetto di frenare i propri impulsi e di controllarsi, elemento anch’esso atto a giustificare il venir meno dei vincolo fiduciario”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, confermando la sentenza resa dalla Corte d’appello.