Questi i fatti di causa.
Un soggetto si era rivolto a un commercialista, chiedendo un parere sulla maniera fiscalmente più conveniente per uscire da una
società di cui era socio lavoratore.
Il professionista gli avrebbe consigliato di recedere dalla società facendosi liquidare la quota, anziché cederla ad altri soci, e che, così facendo, su un realizzo di 775.000,00 euro, avrebbe pagato tasse per circa 85 mila.
Il cliente aveva seguito il consiglio, comportandosi come suggerito dal consulente; tuttavia, poco dopo la conclusione dell’operazione, aveva appreso dal commercialista stesso che l’imposizione fiscale avrebbe dovuto essere di 117 mila, e solo pochi mesi dopo ancora, aveva ricevuto un accertamento da parte del Fisco recante una pretesa tributaria di oltre 190 mila euro.
Di conseguenza, il costo fiscale dell’operazione risultava essere molto superiore rispetto a quello prospettato dal consulente.
Pertanto il cliente citava in giudizio il professionista, imputandogli di avergli dato un parere sbagliato sulla convenienza fiscale del
recesso e dunque di avergli provocato un
danno pari alla somma che aveva dovuto versare al Fisco.
La domanda veniva accolta in
primo grado (previo espletamento di una
consulenza tecnica), ma la decisione del
Tribunale veniva riformata in grado di
appello. Infatti i giudici di secondo grado ritenevano non sussistenti gli estremi di una responsabilità professionale nella
condotta del commercialista.
Nel decidere sull’
impugnazione, la Suprema Corte spiega che la
ratio della decisione di secondo grado può così essere riassunta: non può addebitarsi alcuna responsabilità al commercialista in quanto il recesso era l’unica strada possibile, come emerso dalle deposizioni testimoniali, e il cliente avrebbe dunque scelto tale soluzione liberamente, fuori da ogni consiglio del consulente.
I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso, affermando che
il commercialista, qualunque sia l’oggetto specifico della sua prestazione, ha l’obbligo di completa informazione del cliente, e dunque ha l’obbligo di prospettargli sia le soluzioni praticabili che, tra quelle dal cliente eventualmente desiderate, anche quelle non praticabili o non convenienti, così da porlo nelle condizioni di scegliere secondo il migliore interesse.
Ora, dagli atti era emerso che, d’accordo con il consulente dell’altro socio, il commercialista
convenuto aveva deciso di proporre al cliente la sola ipotesi del recesso, senza informarlo della difficoltà eventuale che si poneva nel praticare l’altra strada, quella della cessione.
Né questa informazione poteva dirsi superflua, ai fini di quanto detto sopra, ossia ai fini di consentire al cliente di decidere autonomamente, sul presupposto che egli aveva manifestato comunque al professionista la propria intenzione di lasciare la società.
Ai fini della rilevanza dell’informazione che andava fornita al cliente, per metterlo in condizione di scegliere, ed eventualmente anche di non scegliere alcunché, attesi i costi della soluzione praticabile e, per contro, la non praticabilità della
cessione, vi erano le risultanze della C.T.U. espletata in primo grado.
Sul punto la Corte rammenta che il mancato esame delle risultanze della C.T.U. integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
La pronuncia in commento fornisce poi alcune indicazioni in materia di
onere della prova.
In particolare, secondo il
Collegio, la semplice divergenza tra il costo fiscale inizialmente indicato dal commercialista e quello emerso successivamente “
può dirsi frutto di un errore del consulente e quindi costituisce inadempimento al suo obbligo di valutare il costo fiscale della uscita dalla società, a prescindere dalle valutazioni sull’esistenza di alternative”.
Nel caso in esame, pertanto, il creditore aveva assolto al proprio onere probatorio, consistente nell’allegazione che il calcolo fatto dal consulente era errato; gravava, invece, sul consulente il compito di dimostrare che la maggiore somma (il doppio) pagata dal cliente era frutto di vicende e fatti a lui non imputabili, in quanto imprevedibili. Tale prova liberatoria però non era stata fornita.
La causa è stata pertanto rinviata alla Corte d’Appello di provenienza, in diversa composizione.