La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini era nata all’interno del procedimento che aveva visto come protagonista un uomo affetto da disabilità, il quale, pur essendo risultato vincitore di un concorso riservato alle categorie protette ex art. 8 l. n. 68/1999, era stato, poi, escluso dall’assunzione per carenza del requisito della disoccupazione al momento dell’assunzione, come previsto dal relativo bando di concorso, il quale prevedeva, quale requisito necessario, il permanere dello stato di disoccupazione, in capo al portatore di disabilità, sia al momento della domanda che all’atto dell’assunzione. Di fronte a ciò, l’uomo decideva di agire in giudizio nei confronti dell’Azienda Ospedaliera che avrebbe dovuto assumerlo, deducendo come il suo comportamento avesse costituito una discriminazione diretta dei disabili, tenuto conto del fatto che nei concorsi relativi a soggetti non affetti da disabilità, la sussistenza dello stato di disoccupazione al momento dell’assunzione non veniva richiesta e che, in altri analoghi concorsi riservati ai disabili, tale requisito non era previsto.
Nonostante l’iniziale rigetto delle istanze attoree, da parte del Tribunale, le stesse venivano, poi, accolte dalla Corte d’Appello, la quale dichiarava illegittima l’esclusione dall’assunzione del ricorrente, quale vincitore del concorso pubblico per titoli ed esami, ordinando, altresì, la rimozione di ogni atto discriminatorio pregiudizievole. Nel prendere tale decisione, la Corte territoriale evidenziava, in particolare, come l’art. 16 della l. n. 68/1999 prevedesse la possibilità di partecipazione dei disabili ai pubblici concorsi “Anche se non versino in stato di disoccupazione”, nonché come tale inciso fosse, poi, stato eliminato ad opera della l. n. 114/2014.
Rimasta soccombente all’esito del giudizio di secondo grado, l’Azienda Ospedaliera decideva di ricorrere dinanzi alla Corte di Cassazione, denunciando, innanzitutto, la violazione del combinato disposto del bando di concorso con l’art. 8 della l. n. 68/1999, gli artt. 1 e 3 della l. n. 216/2003 e l’art. 28 del d.lgs. 150/2011. A suo avviso, infatti, contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici di merito, nel caso di specie tali norme erano state correttamente applicate, avendo previsto il requisito della sussistenza dello stato di disoccupazione al momento dell’assunzione al fine di garantire la tutela del disabile non occupato rispetto a quello occupato, in ossequio al principio di parità di trattamento, il quale doveva essere valutato con riferimento alla posizione di chi permaneva nello stato di disoccupazione anche all’atto dell’assunzione, oltre che al momento della partecipazione al concorso.
Nel censurare, poi, la sentenza impugnata per aver omesso di valutare la posizione del soggetto disabile ancora disoccupato al momento dell’assunzione, nonché di operare il necessario bilanciamento delle posizioni contrapposte, la ricorrente ha richiamato i principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in ordine alla discriminazione indiretta, riconducibile alla condizione di discriminazione subita da un soggetto per effetto di un medesimo trattamento riservato a persone che si trovino in situazioni diverse.
Secondo la ricorrente, inoltre, la Corte di merito aveva, altresì, omesso di esaminare il fatto che l’Amministrazione avesse scelto di tutelare in via prioritaria, in termini antidiscriminatori, la condizione dei disabili che permanevano nello stato di disoccupazione al momento dell’assunzione.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso.
Gli Ermellini hanno, innanzitutto, ritenuto opportuno chiarire l’ambito di operatività della tutela antidiscriminatoria reclamata dal cittadino affetto da disabilità. Il diritto di tutte le persone, comprese, quindi, quelle affette da disabilità, all'uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni, costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e dai trattati a cui tutti gli Stati membri dell'Unione Europea hanno aderito, relativi, rispettivamente, ai diritti civili e politici, ai diritti economici, sociali e culturali, nonché dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, di cui tutti gli Stati membri sono firmatari.
Sono, peraltro, varie, le fonti internazionali che regolano la materia lavoristica, affrontando anche il problema delle discriminazioni, quali, ad esempio, la Convenzione dell’organizzazione internazionale del lavoro del 28 giugno 1958, che proibisce la discriminazione in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, oppure, le regole per le pari opportunità dei disabili adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 1993, nonché la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, ratificata in Italia con l. n. 18/2009 e dall’Unione Europea nel dicembre 2010, avendo, così, essa assunto rilievo vincolante per le istituzione europee e per gli Stati membri.
Nell'ambito del Diritto dell'Unione Europea assume, poi, una significativa rilevanza la direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, la quale stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, indipendentemente dalla religione o dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età o dalle tendenze sessuali. Tale Direttiva fissa, peraltro, degli standard minimi comuni nelle leggi in vigore negli Stati membri contro la discriminazione fondata sulla razza, l'origine etnica, la religione, le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale, con l’obiettivo di creare un quadro giuridico generale volto a combattere queste forme di discriminazione e tradurre, così, nella pratica, il principio della parità di trattamento.
Nel diritto sovranazionale il principio di non discriminazione è, altresì, enunciato dai trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Dagli artt. 2, 3 e 6 del Trattato sull’Unione Europea si evince, infatti, che l’Unione è fondata sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e che essa combatte ogni forma di discriminazione. Gli artt. 10 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea ribadiscono, poi, che l’Unione, nella definizione ed attuazione delle sue politiche, mira a combattere ogni forma di discriminazione fondata sul sesso, sulla razza, sull’origine etnica, sulla religione, sulle convinzioni personali, sulla disabilità, sull’età o sull’orientamento sessuale.
Assume, altresì, rilievo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la quale, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha il medesimo valore giuridico dei trattati, essendo, dunque, pienamente vincolante sia per le istituzioni europee che per gli Stati membri. Essa proclama la centralità della persona, fondata su valori indivisibili ed universali quali la libertà umana, l’uguaglianza e la solidarietà. L’art. 21 della CEDU vieta, poi, qualsiasi forma di discriminazione.
Sempre nell’ambito del diritto antidiscriminatorio dell’Unione, assume, inoltre, un importante rilievo anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale ha, peraltro, fornito una nozione di “handicap”, quale “limitazione di capacità, risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”.
Sempre secondo quanto stabilito dalla Corte di Giustizia, affinché si possa configurare una discriminazione “diretta”, deve sussistere “una differenza nel trattamento riservato a persone che si trovano in situazioni analoghe o significativamente simili, basata su una caratteristica identificabile”.
Nell'ordinamento interno italiano, il principio di non discriminazione trova il suo fondamento negli artt. 2 e 3 della Costituzione e, dunque, nel riconoscimento e nella garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità, oltre che nel principio di uguaglianza formale, il quale impone di trattare situazioni uguali in modo uguale e situazioni diverse in modo diverso, espresso attraverso una serie di divieti specifici di discriminazione per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali; nonché nel principio di uguaglianza sostanziale, che attribuisce allo Stato il compito di porre in essere delle azioni positive per rimuovere quelle barriere, di ordine sociale ed economico, che, di fatto, limitano la libertà e l'uguaglianza dei cittadini.
L’inclusione sociale delle persone disabili si collega, poi, necessariamente, al tema del diritto al lavoro, sancito dall’art. 4 Cost. come espressione di una partecipazione operosa alla vita collettiva, di contributo alla crescita generale ed economica del Paese, nonché di realizzazione di sé e dei propri desideri, di soddisfacimento delle aspettative e dei bisogni personali. Infatti, l'inserimento nel mondo del lavoro è occasione di frequenti ed intensi rapporti sociali, di scambio e confronto, nonché il modo più diretto per combattere la discriminazione culturale e sociale ancora persistente nei confronti della disabilità.
Tra i vari interventi normativi realizzati, in quest’ottica, dal legislatore italiano, assume particolare rilievo, in relazione al caso di specie, la l. n. 68/1999, recante le “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, la quale ha specificamente inteso soddisfare la necessità di venire incontro, da un lato, al bisogno di inclusione ed integrazione effettiva delle persone affette da disabilità e, dall’altro, alle esigenze produttive degli operatori economici.
L'art. 16 della l. n. 68/1999 disciplina, in particolare, l'assunzione delle persone disabili mediante concorso pubblico, prevedendo, al riguardo, che “Ferme restando le disposizioni di cui agli articoli 3, comma 4, e 5, comma 1, i disabili possono partecipare a tutti i concorsi per il pubblico impiego, da qualsiasi amministrazione pubblica siano banditi. A tal fine i bandi di concorso prevedono speciali modalità di svolgimento delle prove di esame per consentire ai soggetti suddetti di concorrere in effettive condizioni di parità con gli altri”. La medesima disposizione al comma 2, stabiliva, altresì, che “I disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici possono essere assunti, ai fini dell'adempimento dell'obbligo di cui all'articolo 3, anche se non versino in stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso”, ma l’inciso “anche se non versino in stato di disoccupazione” è stato eliminato dall'art. 25, comma 9 bis, della l. n. 114/2014.
Come evidenziato dai Giudici di legittimità, l’ordinamento italiano prevede, quindi, oggi, tre diverse modalità di assunzione dei soggetti affetti da disabilità nel settore pubblico: la chiamata numerica per le categorie ed i profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo, ai sensi dell’art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001; il concorso con riserva di posti per le altre qualifiche, ai sensi della l. n. 68/1999; le convenzioni, ai sensi della stessa l. n. 68/1999.
Nel caso in esame, l'Azienda Ospedaliera, con il bando di concorso in questione, si è avvalsa della seconda modalità di assunzione indicata, prevedendo non un concorso aperto a tutti e con riserva di posti, bensì un concorso interamente riservato alle categorie ex art. 8 della l. n. 68/1999.
Si trattava, dunque, di un concorso non aperto ai normodotati e, pertanto, la discriminazione andava valutata con riferimento ai soggetti nella medesima situazione o condizione e, cioè, con riferimento agli altri appartenenti alle categorie protette ex art. 8 della l. n. 68/1999. Ed infatti, sulla base delle previsioni di cui alla l. n. 68/1999 e, in particolare, delle previsioni speciali riservate ai disabili e concernenti le differenti modalità di assunzione, non si può ragionare in termini di rapporto con il normodotato avendo il legislatore previsto, per facilitare il disabile nel reperimento della prima occupazione, un iter particolarmente agevolato, con modalità diverse rispetto a quelle previste per il lavoratore abile.
Era solo con riguardo agli altri appartenenti alle categorie protette che andavano, quindi, verificate l'eventuale carenza di un’adeguata e ragionevole giustificazione della verificatasi differenziazione, nonché la sproporzione tra la giustificazione stessa e i mezzi utilizzati. Non vi è dubbio, allora, che la scelta operata dalla ricorrente, di richiedere la sussistenza dello stato di disoccupazione non solo al momento della presentazione della domanda, ma anche al momento dell'assunzione, fosse una misura idonea a tutelare il disabile che, all'atto dell'assunzione, permanesse nello stato di disoccupazione.
Su tali premesse, la Cassazione ha, perciò, ritenuto opportuno enunciare il principio di diritto per cui “non costituisce comportamento discriminatorio la previsione, in sede di bando di concorso riservato alle categorie ex art. 8 della l. n. 68 del 1999, del requisito della sussistenza dello stato di disoccupazione anche al momento dell'assunzione trattandosi di previsione avente la finalità di tutelare, in conformità con il dettato legislativo e con i principi affermati dalla Corte di Giustizia UE, il disabile disoccupato rispetto ad altro soggetto, egualmente disabile, ma nelle more fuoriuscito dalla categoria dei disoccupati”.