La questione sottoposta al vaglio dei Giudici di legittimità era nata in seguito al giudizio proposto dai genitori di una bambina, nei confronti del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti dalla figlia durante l’orario scolastico, a causa del sinistro provocato da un altro alunno della stessa scuola.
Rimasti, però, soccombenti, all’esito di entrambi i gradi del giudizio di merito, i genitori della minore ricorrevano dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando, in primo luogo, una violazione dell’art. 112 del c.p.c., in quanto, a loro avviso, i giudici di merito non si erano pronunciati in ordine alla loro iniziale domanda di risarcimento formulata ai sensi dell’art. 1218 del c.c., essendo stato inadempiuto, da parte del personale scolastico ed extrascolastico, l’obbligo di vigilanza, protezione e cura dei minori affidatigli. Tale responsabilità, peraltro, secondo i ricorrenti, si doveva applicare anche agli educatori con cui l’istituto frequentato dalla figlia aveva un rapporto contrattuale.
La coppia eccepiva, poi, la violazione e la falsa applicazione degli articoli 2048, 2049 e 2697 del c.c., nonché degli articoli 115 e 116 del c.p.c., deducendo il fatto che la Corte territoriale avesse errato nel rigettare la propria domanda affermando che non era stata lamentata l’adozione di un sistema non adeguato di vigilanza degli allievi. Secondo i ricorrenti, infatti, i Giudici di merito, in questo modo, avevano realizzato un’immotivata inversione dell’onere della prova, in quanto sarebbe dovuto gravare in capo al Ministero convenuto l’onere di provare quali misure di sorveglianza avesse concretamente adottato l’istituto scolastico.
I ricorrenti lamentavano, infine, una violazione e falsa applicazione degli articoli 2051, 2697, 2727 e 2729 del c.c., nonché degli articoli 40 e 41 del c.p. e degli articoli 115 e 116 del c.p.c. A loro avviso, infatti, i Giudici di merito avevano errato nel non aver considerato che, stante l’imprevedibilità della condotta del minore, essa era stata soltanto una concausa dell’evento dannoso, la quale si era affiancata all’altra causa rappresentata dall’omessa predisposizione, da parte del personale scolastico dirigente o del responsabile della sicurezza, di misure organizzative idonee a prevenire che un qualche oggetto pericoloso anche se inerte potesse essere mal utilizzato dagli alunni, arrecando danno agli stessi o agli altri, nonché dall'omessa idonea sorveglianza, da parte dell'educatore, sul comportamento dei minori proprio durante l'ora riservata al loro svago.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, giudicando fondati i motivi di doglianza proposti.
Gli Ermellini hanno, innanzitutto, ribadito come, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, “l'ammissione dell'allievo a scuola determina l'instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge a carico dell'istituto l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni e, quindi, di predisporre gli accorgimenti necessari affinché non venga arrecato danno agli alunni in relazione alle circostanze del caso concreto: da quelle ordinarie, tra le quali l'età degli alunni, che impone una vigilanza crescente con la diminuzione dell'età anagrafica; a quelle eccezionali, che implicano la prevedibilità di pericoli derivanti dalle cose e da persone, anche estranee alla scuola e non conosciute dalla direzione didattica, ma autorizzate a circolare liberamente per il compimento della loro attività” (Cass. Civ., n. 22752/2013; Cass. Civ., n. 3680/2011).
Quanto, poi, all’onere della prova, la Cassazione ha precisato come, contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici di merito, incomba sull’amministrazione scolastica il dovere di rispondere del fatto illecito commesso dagli allievi minori sottoposti alla sua vigilanza. La scuola, peraltro, ai sensi del comma 3 dell’art. 2048 del c.c., si può liberare di tale responsabilità soltanto fornendo la prova di non aver potuto impedire il fatto, con la conseguenza che, sulla stessa, grava, quindi, una responsabilità aggravata.
Come più volte sancito dalla stessa Cassazione, infatti, “incombe sull'allievo l'onere della prova dell'illecito commesso da altro allievo, quale fatto costitutivo della sua pretesa, mentre è a carico della scuola la prova del fatto impeditivo, e cioè dell'inevitabilità del danno nonostante la predisposizione, in relazione al caso concreto, di tutte le cautele idonee a evitare il fatto” (Cass. Civ., n. 9983/2019; Cass. Civ., n. 6444/2016; Cass. Civ., n. 15321/2003).
Facendo eccezione alla regola generale sancita dal combinato disposto degli articoli 2043 e 2697 del c.c., l’art. 2051 del c.c. integra, dunque, un’ipotesi di responsabilità aggravata caratterizzata da un criterio di inversione dell’onere della prova, imponendo al custode, presunto responsabile, di dare, eventualmente, la prova liberatoria del caso fortuito (cfr. Cass. Civ., n. 13222/2016).
Il custode è cioè tenuto a dimostrare che il danno si è verificato in modo non prevedibile, né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce, a cui fanno riscontro i corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza, in base ai quali è tenuto ad adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto, nonché in ossequio al principio di cosiddetta vicinanza alla prova.
Sempre secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, qualora, poi, come nel caso de quo, la scuola si avvalga anche dell’opera di terzi, la stessa amministrazione si assume il rischio connaturato alla relativa utilizzazione nell'attuazione della propria obbligazione e, pertanto, risponde direttamente di tutte le ingerenze dannose, dolose o colpose, che a costoro, sulla base di un nesso di occasionalità necessaria, siano state rese possibili in virtù della posizione conferita nell'adempimento dell'obbligazione medesima rispetto al danneggiato e che integrano il rischio specifico assunto dal debitore, fondando tale responsabilità sul principio “cuius commoda eius et incommoda” (Cass. Civ., n. 4298/2019).
Come già precisato dalla stessa Corte di legittimità, peraltro, la responsabilità del preponente non viene, in tal caso, meno neanche qualora i preposti non siano alle sue dipendenze (Cass. Civ., n. 25373/2018), essendo sufficiente che il fatto illecito sia commesso da un soggetto legato da un rapporto di preposizione con il responsabile, ipotesi che ricorre, non solo in caso di lavoro subordinato, ma anche quando, per volontà di un soggetto, un altro esplichi un'attività per suo conto (Cass. Civ., n. 12283/2016).