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Articolo 145 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Intervento del giudice

Dispositivo dell'art. 145 Codice Civile

In caso di disaccordo ciascuno dei coniugi può chiedere, senza formalità, l'intervento del giudice il quale, sentite le opinioni espresse dai coniugi e, dai figli conviventi che abbiano compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore ove capaci di discernimento, tenta di raggiungere una soluzione concordata.

Ove questa non sia possibile e il disaccordo concerna la fissazione della residenza o altri affari essenziali, il giudice, qualora ne sia richiesto espressamente da uno o entrambi i coniugi, adotta la soluzione che ritiene più adeguata all'interesse dei figli e alle esigenze dell'unità e della vita della famiglia.

In caso di inadempimento all'obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia previsto dall'articolo 143, il giudice, su istanza di chiunque vi ha interesse, provvede ai sensi dell'articolo 316 bis(3).

Note

(1) Il procedimento è di giurisdizione volontaria, e termina con l'emissione di un decreto.
(2) La disposizione è stata così modificata dalla L. 19 maggio 1975, n. 151.
(3) Disposizione riformulata dal D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (c.d. "Riforma Cartabia"), come modificato dalla L. 29 dicembre 2022, n. 197, il quale ha disposto (con l'art. 35, comma 1) che "Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti".

Ratio Legis

La disposizione in esame mira a risolvere i frequenti casi di disaccordo tra i coniugi relativamente alle problematiche di gestione della vita familiare: essa opera in via sussidiaria, poiché la fisiologia del rapporto prevede che l'accordo interno prevalga sempre rispetto all'ausilio di organi terzi, e si ricorra al giudice (co. I) per un confronto tra gli stessi coniugi, ed all'occorrenza - se opportuno - dei figli conviventi, solo nel caso di disaccordo, onde ottenere dapprima una soluzione concordata; in seguito (co. II: qualora persistessero le frizioni con conseguente paralisi della gestione degli affari essenziali) si perverrà ad una soluzione giudiziale.

Spiegazione dell'art. 145 Codice Civile

La "Riforma Cartabia" ha profondamente innovato la disciplina in materia di famiglia e minori.
In particolare, dal presente articolo emerge l’importanza attribuita all’ascolto del minore, nell’ottica del "best interest of the child", anche in aderenza ai principi sovranazionali. Infatti, i diritti del fanciullo son stati espressamente contemplati già dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989, siglata a New York (art. 12: "Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità"). Successivamente, anche la Convenzione Europea di Strasburgo sull'esercizio dei diritti del minore del 25 gennaio 1996 ha recepito tale diritto all'ascolto, che viene definito "informato", al fine di tenere conto delle preferenze del minore, cercando di fargli comprendere le possibili conseguenze delle sue scelte all'interno del procedimento a cui prende indirettamente parte.
Infine, il nuovo Regolamento UE n. 1111/2019 (in vigore dal 1 agosto 2022) prevede come possibile motivo di rifiuto del riconoscimento delle decisioni in materia di responsabilità genitoriale la mancata concessione al minore della possibilità di essere ascoltato.

L’interesse superiore del minore costituisce oggi - all'interno dell'Ordinamento civile - una regola generale, predisposta al fine di consentire al giudice di valutare in concreto le peculiarità delle situazioni sottoposte al suo esame. L’ascolto del minore, insomma, è diventato un vero e proprio diritto.
L’attuale primo comma dell’articolo 145 c.c. prevede che, in caso di disaccordo sull’indirizzo della vita familiare o sulla fissazione della residenza, ciascuno dei coniugi possa rivolgersi al giudice che tenta di raggiungere una soluzione concordata. La modifica precisa, in armonia con tutta la disciplina dell’ascolto del minore e con il disposto dell’art. 315 bis c.c., che il minore, che abbia compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore, se capace di discernimento, debba essere ascoltato dal giudice.
Cosa si intende per “capacità di discernimento”?
A tal riguardo, i primi commentatori hanno affermato che - con tale espressione - il legislatore abbia voluto intendere la capacità del minore di comprendere ciò che è migliore per lui, operando financo delle scelte autonome, senza che la volontà dei genitori possa esercitare sulle stesse un’influenza diretta.
Le modifiche apportate al secondo comma, poi, prevedono che il giudice, quando gliene viene fatta richiesta, anche da una sola delle parti, possa assumere con provvedimento non impugnabile la soluzione più adeguata all'interesse dei figli e alle esigenze della famiglia.
Il terzo comma, in attuazione del principio di delega, prevede che - in caso di inadempimento agli obblighi di mantenimento di cui all’art. 143 c.c. - si applichi quanto previsto dall’articolo 316 bis c.c.

Il nuovo articolo 473 bis 4 c.p.c., in combinato disposto con il quale deve essere letta la disposizione qui commentata, prevede che: “il minore che ha compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento è ascoltato dal giudice nei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano. Le opinioni del minore devono essere tenute in considerazione avuto riguardo alla sua età e al suo grado di maturità. Il giudice non procede all’ascolto, dandone atto con provvedimento motivato, se esso è in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo, in caso di impossibilità fisica o psichica del minore o se quest’ultimo manifesta la volontà di non essere ascoltato. Nei procedimenti in cui si prende atto di un accordo dei genitori relativo alle condizioni di affidamento dei figli, il giudice procede all’ascolto soltanto se necessario”.
Il successivo art. 473 bis 5 c.p.c. prevede - poi - che: “L’ascolto del minore è condotto dal giudice, il quale può farsi assistere da esperti e altri ausiliari. Se il procedimento riguarda più minori, di regola il giudice li ascolta separatamente. L’udienza è fissata in orari compatibili con gli impegni scolastici del minore, ove possibile in locali idonei e adeguati alla sua età, anche in luoghi diversi dal tribunale. Prima di procedere all’ascolto, il giudice indica i temi oggetto dell’adempimento ai genitori, agli esercenti la responsabilità genitoriale, ai rispettivi difensori e al curatore speciale, i quali possono proporre argomenti e temi di approfondimento e, su autorizzazione del giudice, partecipare all’ascolto. Il giudice, tenuto conto dell’età e del grado di maturità del minore, lo informa della natura del procedimento e degli effetti dell’ascolto, e procede all’adempimento con modalità che ne garantiscono la serenità e la riservatezza. Il minore che ha compiuto quattordici anni è informato altresì della possibilità di chiedere la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’articolo 473-bis.8. Dell’ascolto del minore è effettuata registrazione audiovisiva. Se per motivi tecnici non è possibile procedere alla registrazione, il processo verbale descrive dettagliatamente il contegno del minore”.
Nella disciplina attualmente in vigore i genitori, anche se parti del procedimento ex art. 336 bis c.c., i difensori, il curatore speciale del minore se già nominato e il pubblico ministero sono ammessi a partecipare all'ascolto e possono proporre argomenti e temi di approfondimento prima dell'inizio dell'incombente.
La legge delega, al riguardo, conferisce al giudice un ampio potere, esteso a tutti i mezzi istruttori che egli, anche d'ufficio, intenda ammettere o disporre a tutela della posizione del minore, "anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile", purché in contraddittorio.

Deve osservarsi che tanto la Legge delega quanto il D. Lgs. n. 149 del 2022 non specificano quale sia la conseguenza del mancato adempimento all'onere di ascolto del minore da parte del giudice (ipotesi alla quale va equiparata l'omissione sulla scorta di motivazione apparente o palesemente incongrua, ed ancora il caso in cui il giudice abbia proceduto all'ascolto ma in modo del tutto approssimativo ed insoddisfacente, procedendo con metodo di indagine totalmente inadeguato, come nel caso di "ascolto tramite delega").
Come osservato dai primi commentatori, deve propendersi per la soluzione che l'omissione ingiustificata di tale incombenza importi nullità del procedimento, dovendosi valorizzare il fatto che, pur non essendo il minore parte del processo, lo stesso è pur sempre portatore di un interesse contrapposto a quello dei genitori, per cui la sua mancata partecipazione alla formazione del provvedimento decisorio che lo riguarda rappresenta violazione del contraddittorio, nonché dei principi del giusto processo. La nullità di cui trattasi avrebbe carattere assoluto, e trattandosi di nullità posta nell'interesse dei figli minori, sarebbe rilevabile d'ufficio, in qualsiasi stato e grado del procedimento e convertibile in motivo di gravame. La conseguenza del rilievo di nullità dovrebbe essere quella della rinnovazione dell'incombente da parte del giudice che effettua il rilievo di nullità; dunque, all'audizione dovrebbe provvedere la Corte d'Appello, ove si avveda, o sia eccepita, la mancata effettuazione dell'ascolto in primo grado.
È evidente come il principio motore della "Riforma Cartabia" sia stato quello di una nuova idea di rispetto delle persone, e del minore in particolare, reso infatti (s)oggetto di particolari e specifiche tutele in quanto titolare di diritti soggettivi perfetti e autonomamente azionabili, soprattutto in ordine alla valorizzazione della sua volontà, seppure non compiutamente formata.

Si segnala, in tal senso, come l'ascolto del minore sia divenuto, dopo la Riforma, una regola generale in tutti i procedimenti che lo riguardano. Infatti, il presidente del Tribunale è tenuto a valutare l'opportunità di procedere all'ascolto del minore anche nell'ambito dei procedimenti di negoziazione assistita in materia familiare, allorquando il procuratore della Repubblica, al quale è affidato il controllo sugli accordi di negoziazione ex art. 6, comma 2, della L. 162/2014, abbia ritenuto di non concedere l'autorizzazione e abbia trasmesso l'accordo de quo al presidente del Tribunale.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

103 Nel capoverso dell'art. 145 del c.c. non si è fatto cenno dell'obbligo della moglie di contribuire al buon andamento della famiglia, come era stato proposto, poiché questa disposizione contempla i doveri della moglie verso il marito, mentre i doveri dei coniugi verso la famiglia sono disciplinati nell'art. 147 del c.c..

Massime relative all'art. 145 Codice Civile

Cass. civ. n. 8816/2020

La decisione del Tribunale per i minorenni relativa all'obbligo di mantenimento a carico del genitore non affidatario o collocatario non ha effetti costitutivi, bensė meramente dichiarativi di un diritto che, nell'an, č direttamente connesso allo status genitoriale. Tale pronuncia, pertanto, retroagisce naturalmente al momento della domanda, senza necessitā di apposita statuizione sul punto.

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Consulenze legali
relative all'articolo 145 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Luigi Z. chiede
sabato 10/08/2019 - Friuli-Venezia
“Buona sera. Espongo brevemente il mio quesito. Mia moglie ha il diritto di invitare, contro la mia volontà, nella casa coniugale alcuni suoi lontani parenti coi quali ho rotto i rapporti da anni (fra l'altro per una grossa scorrettezza nei confronti di mia moglie) e coi quali non ho nessunissima intenzione di riallacciarli? Se ciò dovesse accadere, posso fare qualcosa per impedirlo, o devo limitarmi a uscire di casa?”
Consulenza legale i 19/08/2019
La soluzione al presente quesito va ricercata nelle norme del codice civile che disciplinano diritti e doveri reciproci dei coniugi durante il matrimonio.
In particolare, l’art. 143 del c.c. stabilisce che, con il matrimonio, il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri.
Tra gli obblighi nascenti dal matrimonio vi è quello alla “collaborazione nell'interesse della famiglia”.
Inoltre, l’art. 144 del c.c. dispone che “i coniugi concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa”.

Dal quadro normativo appena descritto, si ricava che, in primo luogo, all’interno del matrimonio i coniugi si trovano in una posizione di parità reciproca; in secondo luogo, che le decisioni riguardanti la vita familiare devono essere adottate sull’accordo dei coniugi.
Anzi secondo la dottrina, vi sarebbe un ulteriore dovere rispetto a quelli espressamente previsti dall'art. 143 c.c.: quello di ricercare l'accordo nello svolgimento della vita comune. Il suo raggiungimento, anzi, costituirebbe un vero e proprio obbligo giuridico per ciascun coniuge, anche se non suscettibile di esecuzione in forma specifica.

Pertanto, ad avviso di chi scrive, la decisione di ospitare nella casa familiare altre persone, oltretutto non gradite all’altro coniuge, dovrà essere concordata tra i coniugi.
Peraltro il codice civile fornisce anche uno strumento per il caso in cui l’auspicabile accordo non venga raggiunto: infatti l’art. 145 del c.c. prevede che, in caso di disaccordo, ciascuno dei coniugi può chiedere, senza formalità, l'intervento del giudice.
Naturalmente, è preferibile che si riesca a trovare un punto d’incontro senza dover ricorrere al magistrato, tenendo presenti non solo le ragioni del diritto ma anche quelle del buonsenso, e cercando un punto di equilibrio tra le due contrapposte esigenze: da un lato, quella del marito a non dover “subire” la presenza nella propria abitazione di soggetti con i quali è entrato in conflitto; dall’altro, quello della moglie ad ospitare persone con cui invece, evidentemente, ha un qualche legame affettivo.

Anonima chiede
mercoledė 13/03/2024
“Salve vorrei esporvi un problema tra me e mio marito circa la nostra residenza. Facendo riferimento all’ art. 144 del c.c. “La residenza della famiglia va concordata tra i coniugi”. Ebbene, noi da ormai 10 anni viviamo nella casa di proprietà di mio marito che gli è stata donata tramite donazione indiretta, in pratica suo padre all’atto di acquisto ha intestato la casa al figlio pagando l’intera somma. Questo è successo molti anni prima che io e mio marito ci conoscessimo.
Negli ultimi 4 anni sono nate anche le nostre 2 figlie. Il problema è che i miei suoceri vivono nello stesso pianerottolo, la porta accanto, e le nostre camere sono confinanti, come i nostri balconi che addirittura sono uniti senza separazione. Io vivo un profondo disagio dovuto alla mancanza di privacy e alle continue ingerenze (seppur operate in maniera affettuosa), tanto da sentirmi continuamente condizionata all’interno della casa. I suoceri bussano alla porta a qualsiasi ora del giorno, rompendo spesso l’equilibrio familiare, e monitorano ogni nostra uscita ed entrata dall’abitazione, affacciandosi sul pianerottolo, cercando quotidianamente di interessarsi ai nostri movimenti. Da dentro casa posso chiaramente udire i loro discorsi, e mi aspetto che loro facciano lo stesso. Soprattutto le due camere da letto delle abitazioni hanno i muri confinanti, e d’estate siamo costretti a dormire con le finestre chiuse e il condizionatore accesso, senza che l’utilizzo di quest’ultimo sia necessario, proprio per non sentire le loro voci.
Da ormai 4 anni chiedo a mio marito di cambiare casa, per avere finalmente un nido nostro dove realizzare la serenità e l’indipendenza della nostra famiglia, ma lui si rifiuta categoricamente, totalmente sordo alle mie esigenze, e sminuendo il mio malessere. Le sue motivazioni sono che non vuole accendere un mutuo visto che la casa (gratis) ce l’abbiamo già, e che un mutuo cambierebbe le abitudini della nostra vita, e poi perché non vuole allontanarsi dai genitori. Piange quando entriamo nel discorso casa, e si rifiuta di parlarne.
Oltre al discorso privacy c’è il problema zona della casa.
Io lavoro a circa 10 km, e per raggiungere il posto di lavoro devo percorrere una statale super trafficata nelle ore di punta (orario in cui tutti vanno a lavorare), e impiego circa 45 minuti la mattina per arrivare in ufficio. Quando non c’erano le bimbe ci davo meno peso, ma adesso devo pensare a loro, prepararle e portare ognuna nel proprio asilo. Allo stesso tempo mio marito lavora fuori provincia, e va via la mattina e torna la sera non prima delle 19:00. Delegando totalmente a me la gestione quotidiana delle figlie, e per fare tutto ciò ho dovuto chiedere la trasformazione del mio contratto di lavoro che adesso è part time. Ho espresso a mio marito più volte anche questo concetto della scomodità della zona, che richiede sempre l’utilizzo della macchina per le più svariate attività. Lui lavora fuori provincia, a 40 km, vive poco la casa e praticamente nulla la città, e dovrei essere agevolata io come mamma che lavoro invece nella città dove risediamo. Ritengo che anche a me spetti scegliere il luogo dove dobbiamo vivere, in quanto tutti gli impegni di danza e scuola delle figlie li gestisco io.
Ho affrontato con lui mille volte il discorso del cambio casa, gli ho fatto vedere più volte immobili che potevano essere giusti per noi, senza pretendere nessun lusso, case normali con gli spazi giusti per una famiglia di 4 persone.
Mio marito dice che non può affittare la casa dove viviamo (se lo facesse potremmo abbattere del tutto la rata del mutuo), perché non vuole mettere estranei vicino ai genitori, e nemmeno vuole venderla, perché i suoi genitori non sarebbero d’accordo. Pur che tecnicamente potrebbe fare tutto in quanto la casa è intestata a lui.
Tra l’altro dice che anche se trovassimo una casa quella sarebbe fiscalmente una seconda casa, in quanto questa in cui viviamo, che è stata donata in via indiretta dai suoi genitori, risulta prima casa. E siccome non vuole alienarla, la nostra futura casa sarebbe comunque una seconda casa, con tutti gli oneri che comporta. E’ davvero così?
Come posso far valere i miei diritti? Può mio marito decidere unilateralmente dove vivere e come vivere, alle condizioni che vi ho descritto? Io non voglio arrivare alla separazione, vorrei superare nel modo più giusto questo grande problema. Grazie per l’attenzione.”
Consulenza legale i 21/03/2024
Iniziamo col rispondere alla parte del quesito di carattere civilistico, osservando che l’art. 143 c.c. stabilisce che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”.
La stessa norma elenca, subito dopo, una serie di obblighi reciproci dei coniugi.
La posizione di sostanziale parità tra i coniugi all’interno del matrimonio è ribadita, per quanto qui specificamente interessa, dall’art. 144 c.c., ai sensi del quale “i coniugi concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa. A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato”.
È dunque evidente - per rispondere alle domande formulate nel quesito - che il marito non può decidere unilateralmente dove e come debba svolgersi la vita familiare.
Da ciò discende anche, tra l’altro, che non possono essere riversati esclusivamente sulla moglie i compiti di cura della casa e accudimento dei figli, così come non deve necessariamente essere la moglie a sacrificare le proprie aspettative professionali ed esigenze lavorative in funzione di quelle del marito.

Per quanto riguarda lo strumento per far valere i propri diritti, da un punto di vista giuridico possiamo dire che sempre il codice civile, all’art. 145, prevede la possibilità di rivolgersi a un giudice per tentare di comporre - cioè di risolvere - proprio questo tipo di contrasti, senza però arrivare a una separazione (cui si arriva, invece, in caso di rottura insanabile di quella che viene chiamata “affectio coniugalis”).
In particolare, l’art. 145 c.c., nel testo risultante a seguito delle recenti modifiche legislative (c.d. riforma Cartabia), stabilisce che, in caso di disaccordo, ciascuno dei coniugi può chiedere, senza formalità, l'intervento del giudice.
Il giudice, sentite le opinioni espresse dai coniugi e dai figli conviventi che abbiano compiuto gli anni dodici (o anche di età inferiore ove “capaci di discernimento”), tenterà di raggiungere una soluzione concordata.
Laddove, invece, non sia possibile raggiungere un compromesso e il disaccordo riguardi “la fissazione della residenza o altri affari essenziali”, il giudice potrà adottare la soluzione ritenuta “più adeguata all'interesse dei figli e alle esigenze dell'unità e della vita della famiglia”. Tuttavia, ciò potrà avvenire solo se uno o entrambi i coniugi richiedano espressamente che sia il giudice a decidere in tal senso.

Passiamo ora alla parte della consulenza di rilievo fiscale. Circa gli oneri sulla seconda casa si specifica quanto segue.
Il principale riflesso del possedere più di un immobile lo si ha in termini di versamento IMU, oltre che di Irpef in capo al soggetto proprietario che dovrà dichiarare l’immobile nella propria dichiarazione dei redditi.
Ai fini IMU l’imposta è dovuta sul possesso di immobili, ad eccezione dell’abitazione principale alla condizione che la stessa non rientri tra le categorie catastali A/1, A/8, A/9 (rispettivamente abitazioni di tipo signorile, abitazione in villa e castelli, palazzi di eminenti pregi).
Il tema centrale è quindi quello di individuare quale deve essere considerata l’abitazione principale, posto che solo su quest’ultima non è dovuta l’IMU.
Ai fini IMU, secondo l’art. 1, comma 741 della L. 160/2019, l’abitazione principale è “l’immobile nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”. Per l’esenzione IMU è pertanto necessario che il possessore trasferisca nell’immobile la residenza anagrafica (requisito formale) e che vi dimori abitualmente (il possessore deve abitare effettivamente nell’immobile per la maggior parte dell’anno).
Ai fini IMU, quindi, qualora si dovesse acquistare un altro immobile, trasferirci la residenza e abitarlo, la nuova abitazione non sconterebbe l’imposta. A questo punto il marito, se risulta titolare di altri immobili, dovrà corrispondere l’IMU su tali immobili (casa donata dai genitori, che a quel punto non sarebbe più né la residenza né il luogo di dimora abituale). Tecnicamente pertanto sarebbe la “vecchia” abitazione a divenire ai fini fiscali “seconda casa”.
Qualora ci si accingesse all’acquisto di una nuova abitazione, si dovrebbe inoltre valutare se sia possibile acquistarla usufruendo dei benefici prima casa, con un abbattimento delle imposte di registro, ipotecaria e catastale. In questa sede, infatti, non si hanno gli elementi per verificarne in concreto la spettanza.