1. Presupposto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell'articolo 6.
1. Presupposto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell'articolo 6.
Cass. civ. n. 26414/2018
In caso di contestazione di interposizione, i maggiori redditi devono essere attribuiti solamente al soggetto interponente, in qualità di titolare del reddito, e non al soggetto interposto, in quanto l'art. 37, commi 3 e 4, del D.P.R. n. 600/1973 non prevede, in capo a quest'ultimo, una responsabilità sussidiaria.Cass. civ. n. 1980/2006
In tema d'imposte sul reddito dei fabbricati, qualora l'immobile sia stato concesso in locazione, la distruzione dello stesso determina la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione facendo venir meno il diritto del locatore alla controprestazione, e comportando altresì l'obbligo di restituire la prestazione eventualmente già ricevuta. Viene in tal modo a mancare lo stesso presupposto dell'imposizione fiscale, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che la somma corrisposta dal conduttore resti ugualmente dovuta (ad esempio, a titolo di risarcimento del danno per omessa custodia da parte del conduttore), trattandosi di un diverso titolo, dal quale non può scaturire l'obbligo tributario. (rigetta, Comm. Trib. Reg. Bari, 18 Febbraio 1999).Cass. civ. n. 373/2006
In tema di contenzioso tributario, il giudizio che si svolge davanti alla Commissione tributaria centrale non è, ai sensi dell'art. 26 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, un giudizio di annullamento e di pura legittimità, ma un giudizio di merito a cognizione piena, con esclusione soltanto delle questioni relative alla valutazione estimativa ed alla misura delle pene pecuniarie. Pertanto, la Commissione tributaria centrale, ancorché non competente in ordine alla misura delle pene pecuniarie, è tenuta a prendere in esame la richiesta, formulata dal contribuente con il ricorso, di dichiarare non dovute le sanzioni a norma dell'art. 55 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per l'obiettiva incertezza delle norme di diritto sostanziale violate. (cassa con rinvio, Comm. Trib. Centrale Roma, 21 Luglio 1999)Cass. civ. n. 20398/2005
Nella disciplina anteriore all'entrata in vigore dell'art. 37 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall'art. 7 del D.L.vo 8 ottobre 1997, n. 358, pur non esistendo nell'ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l'emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. In riferimento all'ipotesi in cui l'acquirente di azioni da un fondo comune d'investimento, dopo averne percepito i dividendi, abbia rivenduto i titoli al fondo stesso al fine di consentire l'elusione del regime fiscale previsto dall'art. 9 della legge n. 77 del 1983 (come sostituito dal D.L.vo 25 gennaio 1992, n. 83) (c.d. dividend washing), l'applicazione del predetto principio si traduce nella individuazione di un difetto di causa che dà luogo alla nullità dei contratti collegati di acquisto e di rivendita delle azioni, non conseguendo dagli stessi alcun vantaggio economico per le parti, all'infuori del risparmio fiscale. Tale mancanza di ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali attuato attraverso il collegamento negoziale, comporta l'inefficacia dei contratti nei confronti del fisco, con conseguente esclusione del credito d'imposta previsto per l'acquirente dei titoli dall'art. 14 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo anteriore all'integrazione apportatavi dall'art. 7 bis del decreto-legge 9 settembre 1992, n. 372, conte con modificazioni nella legge 5 novembre 1992, n. 429).Cass. civ. n. 12782/1995
L'art. 12 del D.L. 10 luglio 1982 n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982 n. 516, il quale dispone che - in deroga a quanto stabilito dall'art. 3 del codice di procedura penale del 1930 - il processo tributario non può essere sospeso, è norma di carattere processuale e, pertanto, applicabile ai processi tributari in corso a momento della sua entrata in vigore. (rigetta, App. Firenze, 26 aprile 1991).Cass. civ. n. 4381/1995
In tema di imposte sui redditi, l'art. 14 quarto comma della legge 24 dicembre 1993 n. 537, il quale, in via d'interpretazione autentica dell'art. 6 del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, considera tassabili anche i proventi derivanti da illecito penale, se non già sottoposti a confisca, comprende tanto le ipotesi di confisca facoltativa, quanto quelle di confisca obbligatoria (art. 240 c.p.), e, quindi, include nel reddito imponibile pure il prezzo del reato, obbligatoriamente soggetto a tale misura (quando essa non sia stata adottata). Tale disposizione interpretativa, ancorché non vincolante rispetto alla precedente disciplina (artt. 1 e 6 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 597 ed art. 1 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 599), integra criterio ermeneutico influente, alla stregua della sostanziale identità della stessa in ordine alla determinazione dei presupposti della tassazione, e, pertanto, impone di considerare parte di detto imponibile il pretium sceleris anche nel vigore della normativa previgente al citato D.P.R. n. 917 del 1986. (cassa con rinvio, App. Milano, 8 gennaio 1993).
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La genericità della domanda, tenuto conto del particolare tecnicismo della materia tributaria e soprattutto della disciplina penale sul tema, impone, prima di rispondere al quesito, una breve ricognizione del fatto.
Da quanto rappresentato sembra che i due amministratori siano stati incaricati personalmente della gestione degli immobili interessati in virtù di un contratto di mandato con rappresentanza. Sembra altresì che il compenso dell’attività a loro spettante non venga accreditato sui conti personali ma su quelli di società facenti capo agli stessi e sconosciute dal rapporto di mandato alla gestione immobiliare.
Per risolvere la questione tributaria connessa, e partendo dal presupposto che il contratto di mandato abbia come parte effettiva gli amministratori quali persone fisiche e non quali società (cosa che di frequente accade) dovrebbe innanzi tutto essere chiarito su quale dichiarazione vengono annotati gli emolumenti percepiti in seguito all’attività di rappresentanza svolta.
Qualora infatti gli emolumenti del contratto di mandato siano correttamente dichiarati dalla persona fisica, allora dovremmo concludere che gli stessi vengono fatti confluire sui conti della società per pura comodità e, soprattutto qualora si tratti di società unipersonali, la condotta non integrerebbe alcun illecito tributario.
V’è poi l’ipotesi in cui gli emolumenti concorrano a formare l’attivo delle sole società, siano correttamente dichiarati e vengano di contro estromessi dalla dichiarazione della persona fisica. Ciò effettivamente potrebbe creare problemi fiscali ma solo laddove si ipotizzi che il contratto di mandato non sia mai stato speso dagli amministratori in modo tale da essere anche ignorato dall’agenzia delle entrate. Diversamente ragionando si creerebbe l’assurdo caso che gli amministratori siano assoggettati ad una doppia imposizione per la medesima attività, quali persone fisiche e titolari delle società.
Dal punto di vista strettamente penale, sembra comunque estremamente improbabile che si configuri uno dei reati previsti dal DPR 74 del 2000 mediante frode consistenti nell’emissione di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti e/o soggettivamente inesistenti. In tal caso infatti l’obiettivo della condotta criminosa è quello di aumentare il passivo proprio tramite le fatture inesistenti, non già, come sembra essere nel caso di specie, “spostando” le voci di reddito.
Quanto invece ai reati di dichiarazione infedele, sembra estremamente complesso ipotizzare una responsabilità penale stante la necessità di conoscere il quantum ipoteticamente evaso. In ogni caso, a meno che non si tratti di una corposissima gestione immobiliare, sembra comunque difficile ipotizzare che le presunte omesse dichiarazioni superino le soglie di rilevanza penale (ovvero la somma evasa sopra la quale il legislatore ritiene opportuno censurare sotto il profilo penale la condotta evasiva) dei reati tributari, di per sé abbastanza alte. Basti pensare infatti che l’art. 5 del DPR 74/2000 che punisce l’omessa dichiarazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto si configura solo allorché l’imposta evasa sia superiore, per un’annualità fiscale, ad euro 50.000.