(massima n. 1)
Nella disciplina anteriore all'entrata in vigore dell'art. 37 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall'art. 7 del D.L.vo 8 ottobre 1997, n. 358, pur non esistendo nell'ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l'emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. In riferimento all'ipotesi in cui l'acquirente di azioni da un fondo comune d'investimento, dopo averne percepito i dividendi, abbia rivenduto i titoli al fondo stesso al fine di consentire l'elusione del regime fiscale previsto dall'art. 9 della legge n. 77 del 1983 (come sostituito dal D.L.vo 25 gennaio 1992, n. 83) (c.d. dividend washing), l'applicazione del predetto principio si traduce nella individuazione di un difetto di causa che dà luogo alla nullità dei contratti collegati di acquisto e di rivendita delle azioni, non conseguendo dagli stessi alcun vantaggio economico per le parti, all'infuori del risparmio fiscale. Tale mancanza di ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali attuato attraverso il collegamento negoziale, comporta l'inefficacia dei contratti nei confronti del fisco, con conseguente esclusione del credito d'imposta previsto per l'acquirente dei titoli dall'art. 14 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo anteriore all'integrazione apportatavi dall'art. 7 bis del decreto-legge 9 settembre 1992, n. 372, conte con modificazioni nella legge 5 novembre 1992, n. 429).