Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello aveva rigettato l’impugnazione proposta dagli eredi di una donna, deceduta in corso di giudizio, avverso la sentenza che aveva escluso il diritto della donna al “risarcimento dei danni sofferti in conseguenza di tardiva diagnosi (…), di carcinoma all'utero”.
Gli eredi decidevano, dunque, di proporre ricorso per Cassazione, cui resistevano gli eredi del medico defunto.
Secondo i ricorrenti, in particolare, il giudice di secondo grado avrebbe errato nel motivare la propria decisione, con violazione degli artt. 1681 e 2054 codice civile.
La Corte d’appello, inoltre, secondo i ricorrenti, avrebbe errato nel non dare applicazione agli artt. 2055, 1292 e 1294 c.c.
Evidenziavano i ricorrenti che doveva ritenersi sussistente il “nesso causale tra il ritardo diagnostico della malattia e la morte della signora D.", come confermato anche dalla consulenza tecnica disposta in sede di appello.
La Corte di Cassazione riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dai ricorrenti, evidenziando come il debitore di una prestazione sia “di regola tenuto ad una normale perizia, commisurata alla natura dell'attività esercitata”, mentre “una diversa misura di perizia è dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore, in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore di attività”.
Dunque, la Cassazione chiariva che la diligenza deve essere valutata con riferimento “alla natura dell'attività esercitata (art. 1176 c.c., comma 2), al professionista (e a fortiori allo specialista) è richiesta una diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare (cfr. Cass., 31/5/2006, n. 12995) e allo standard professionale della sua categoria”.
Specificava la Corte, inoltre, che “nell'adempimento delle obbligazioni (e dei comuni rapporti della vita di relazione) il soggetto deve osservare altresì gli obblighi di buona fede oggettiva o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale la cui violazione comporta l'insorgenza di responsabilità (anche extracontrattuale)”.
Per quanto riguarda, poi, il tema relativo al “danno alla persona conseguente a responsabilità medica”, la Cassazione evidenziava che “l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in relazione al quale sia manifesti la possibilità di effettuare solo un intervento c.d. palliativo, determinando un ritardo della relativa esecuzione cagiona al paziente un danno già in ragione della circostanza che nelle more egli non ha potuto fruirne, dovendo conseguentemente sopportare tutte le conseguenze di quel processo morboso, e in particolare il dolore (…), che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto alleviargli, sia pure senza la risoluzione del processo morboso”,
In altri termini, secondo la Cassazione, ai fini del risarcimento del danno, è irrilevante il fatto che la morte si sarebbe verificata anche in caso di diagnosi tempestiva, dal momento che il paziente ha diritto ad essere risarcito anche per il danno conseguente all’impossibilità di fruire di trattamente palliativi, idonei, comunque, ad alleviare il dolore.
Nel caso di specie, la Corte d’appello non aveva dato corretta applicazione ai principi sopra esposti, in quanto il giudice, dopo avere correttamente affermato che il medico non aveva agito con la dovuta diligenza, aveva escluso la responsabilità del medesimo, “argomentando dal rilievo che (…) poco o nulla sarebbe cambiato circa il decorso clinico, con specifico riferimento alla forma tumorale, particolarmente maligna e aggressiva”, concludendo nel senso della “insussistenza del nesso causale tra l'aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, annullando la sentenza di secondo grado e rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse in base ai principi sopra enunciate.