Nel caso esaminato dalla Cassazione, un soggetto aveva agito in giudizio nei confronti dell’ospedale, chiedendo il risarcimento dei danni subiti a seguito di un intervento chirurgico, in quanto, a dire dell’attore, all’atto di somministrare l’anestesia, la siringa avrebbe causato una “lesioni nervosa con esiti permanenti di menomazione dell’arto inferiore”.
Il giudizio di primo grado si concludeva con la condanna della struttura sanitaria al risarcimento dei danni ma la danneggiata proponeva impugnazione, lamentando il mancato riconoscimento del danno esistenziale.
Il giudice di primo grado, infatti, aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno esistenziale, avanzata dall’attrice, in quanto “la danneggiata non aveva altrimenti precisato nell’atto di citazione la domanda di danni a titolo di danno esistenziale, limitandosi a dedurre in sede di comparsa conclusionale la perdita della possibilità di vita che l’attrice non potrà più avere”.
In sede di ricorso per Cassazione, in particolare, il danneggiato lamentava il fatto che la Corte d’appello non avrebbe tenuto in adeguata considerazione il profilo relativo “alla condotta dei medici nell’utilizzo della canula”.
Secondo la ricorrente, inoltre, la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 2043 codice civile, “per omessa liquidazione del danno esistenziale”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter accogliere il ricorso proposto, in quanto inammissibile e infondato.
In particolare, la ricorrente riteneva che la Corte d’appello fosse caduta in contraddizione nel momento in cui, dopo aver “riconosciuto la necessità di tener conto di tutte le circostanze del caso concreto comprensive di quelle qualificate come danno esistenziale”, ha “ritenuto che tali circostanze fossero state considerate, mentre, invece, non si era tenuto conto dell’impatto che il danno aveva avuto nella vita della danneggiata.
Ebbene, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva del tutto adeguatamente confermato la sentenza di primo grado, rigettando la domanda di risarcimento del danno esistenziale, in quanto “nell’ambito dell’onnicomprensivo danno non patrimoniale, le varie voci, tra le quali quella del danno esistenziale, non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili, ma svolgono un ruolo in sede di risarcimento nel caso concreto, a condizione che il danneggiato abbia dedotto e allegato aspetti ulteriori rispetto a quelli tipici”.
Il giudice di secondo grado, dunque, aveva correttamente applicato il principio secondo cui “il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 codice civile, preclude la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (nella specie: danno esistenziale), che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie”.
Nel caso di specie, pertanto, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva correttamente rilevato che il giudice di primo grado aveva tenuto conto “di tutte le circostanze del caso concreto, sul presupposto che (…) nell’atto di citazione la voce del danno esistenziale non era stata altrimenti precisata”.
Allo stesso modo, peraltro, la stessa Corte di Cassazione non era stata posta nelle condizioni di verificare la fondatezza della domanda, dal momento che la ricorrente si era limitata a far riferimento a “numerosi scritti difensivi” per “illustrare i danni di natura esistenziale incidenti sulle abitudini di vita, al di là di quelli ricollegabili alla lesione del diritto alla salute”.