La questione sottoposta all’esame dei Giudici di legittimità era nata in seguito alla decisione con cui la Corte d’Appello, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva deciso di accogliere la domanda di annullamento, presentata da un lavoratore, avverso il licenziamento per giusta causa intimatogli per aver contravvenuto al divieto di fumo durante l’orario di lavoro. La Corte territoriale, infatti, dopo aver circoscritto l’oggetto del licenziamento alla mera contravvenzione del divieto di fumare, aveva escluso che il fatto addebitato al lavoratore, pur essendo stato provato, rientrasse nella previsione di cui all’art. 48, lett. b), del CCNL di settore, il quale ricollegava il licenziamento ai soli casi in cui il lavoratore fosse trovato “a fumare dove può provocare un pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti”.
Secondo il parere dei Giudici di secondo grado, pertanto, il caso di specie poteva integrare soltanto la previsione collegata al mero divieto di fumare, di cui all’art. 47 del medesimo CCNL, il quale disponeva, in tali ipotesi, l’applicazione della sanzione conservativa dell’ammonizione o della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, con la conseguente illegittimità del licenziamento e la necessaria reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ai sensi del comma 4 dell’art. 18 dello st. lav., come modificato dalla l. n. 92/2012.
Avverso tale decisione, la società datrice di lavoro decideva di ricorrere dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 51, nn. 1 e 2 della l. n. 3/2003 e degli artt. 48, lett. f), e 47, lett. h), del CCNL di settore. A suo avviso, infatti, la Corte d’Appello aveva trascurato il fatto che il divieto di fumare fosse, ex lege, inderogabile, e che la clausola contenuta nel contratto collettivo di lavoro richiedesse la sussistenza di un pregiudizio all’incolumità delle persone e alla sicurezza degli impianti anche solo potenziale.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, giudicando privo di fondamento il suddetto motivo di doglianza.
I Giudici di legittimità hanno, innanzitutto, evidenziato come, in tema di licenziamento per giusta causa, in ossequio al canone di proporzionalità, rilevi ogni condotta che, per la sua gravità, possa minare la fiducia del datore di lavoro, facendogli ritenere che la continuazione del rapporto lavorativo possa essere pregiudizievole per gli scopi aziendali, essendo, dunque, determinante, in tal senso, l’influenza che su ciò possa avere il comportamento del lavoratore, che, per le sue concrete modalità, denoti una scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi lavorativi, in conformità ai principi di diligenza, buona fede e correttezza.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, spetta, peraltro, al giudice di merito, valutare la congruità della sanzione espulsiva comminata ad un lavoratore, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, bensì tenendo conto di ogni circostanza concreta, alla luce di una valutazione unitaria e sistematica della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, dando rilievo, in particolare, “alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata di quest’ultimo, all’assenza di pregresse sanzioni, nonché alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo” (cfr. ex multis Cass. Lav., n. 2013/2012; Cass. Lav., n. 13574/2011).
La stessa Cassazione ha, peraltro, già avuto modo di precisare che “la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludersi altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato” (Cass. Lav., n. 4060/2011).
Secondo gli stessi Ermellini, la scala valoriale espressa dal contratto collettivo, deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire il contenuto della clausola generale di cui all’art. 2119 del c.c., considerato che la l’art. 30, comma 3, della l. n. 183/2010, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro” (Cass. Lav., n. 32500/2018; Cass. Lav., n. 28492/2018).
Tale principio generale subisce, però, un’eccezione, ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante una sola sanzione conservativa. In questi casi, infatti, il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore, ai sensi dell’art. 12 della l. n. 604/1966.
Qualora, dunque, alla condotta di un lavoratore sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti, a meno che non si accerti che le parti stesse abbiano inteso prevedere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di applicare una sanzione espulsiva (cfr. ex multis Cass. Lav., n. 17337/2016; Cass. Lav., n. 11860/2016).
Secondo la Cassazione risulta, dunque, conforme ai suddetti principi di diritto, la decisione della Corte territoriale, la quale ha accertato che, in relazione al caso di specie, non si potesse ritenere sussistente la nozione legale di giusta causa di licenziamento, anche alla luce delle fattispecie previste dal CCNL di settore, nonché sulla base della scala valoriale in esso contenuta, pervenendo così, all’esclusione della sussistenza di una giustificazione della sanzione espulsiva intimata al lavoratore.