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GPS sulle auto aziendali

Lavoro - -
GPS sulle auto aziendali
Il datore di lavoro non può utilizzare le rilevazioni del gps per giustificare il licenziamento.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19922 del 5 ottobre 2016, si è occupata di un interessante caso in materia di diritto del lavoro.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello aveva confermato la condanna di una società datrice di lavoro a reintegrare nel posto di lavoro un lavoratore licenziato.

In particolare, al lavoratore era stato addebitato “di avere registrato nel rapporto di giro alcune ispezioni che in realtà non erano state effettuate perché il veicolo risultava altrove nell'orario indicato come rilevato dal sistema satellitare gps installato nella vettura; in altri casi era stato 'punzonata' una sola posizione mentre i punti da controllare erano più di uno”.

La Corte d’appello, in particolare, evidenziava come il gps costituisse un mezzo di controllo a distanza del lavoratore e come lo stesso rientrasse nell’ambito di applicabilità dell’art. 4 della legge n. 300 del 1970.

Inoltre, “gli accordi sindacali del 2009 prevedevano espressamente la non utilizzabilità di tali sistemi per il controllo a distanza dei lavoratori” e “neppure si poteva ritenere che i controlli potessero essere considerati legittimi come ‘difensivi’”, in quanto non erano mai stati segnalati dei comportamenti illegittimi del lavoratore, “tali da giustificare un controllo così pervasivo e sistematico”.

La società datrice di lavoro, ritenendo la sentenza ingiusta, proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando la violazione, da parte del giudice di secondo grado, dell’art. 4 della legge n. 300/1970, nonché la sproporzionalità della sanzione.

Secondo i ricorrenti, inoltre, il controllo tramite gps era “diretto ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori o lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale”, con la conseguenza che “sussistevano tutti gli elementi per ritenere il controllo attraverso il sistema satellitare GPS un controllo difensivo”.

La Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla società datrice di lavoro, escludendo che “si possano ritenere legittimi i controlli effettuati in quanto ‘a carattere difensivo’”.

In primo luogo, osservava la Corte, “il sistema di controllo attraverso gps istallato sulle vetture in uso ai dipendenti” era stato predisposto “ben prima che si potessero avere sospetti su una eventuale violazione da parte del lavoratore”.

Inoltre, i giudici di terzo grado, evidenziavano che “i sindacati avevano autorizzato tale sistema per ragioni di sicurezza in quanto richiesto dalla Questura (…), presumibilmente anche nell'Interesse dell'incolumità dei lavoratori, ma si era escluso che lo stesso potesse essere utilizzato per controllare la loro attività lavorativa”.

Peraltro, secondo la Corte, “l'effettività del divieto di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori richiede che anche per i cosiddetti controlli difensivi trovino applicazione le garanzie della L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2; ne consegue che, se per l'esigenza di evitare attività illecite o per motivi organizzativi o produttivi, il datore di lavoro può installare impianti o apparecchi di controllo che rilevino anche dati relativi alla attività lavorativa dei dipendenti, tali dati non possono essere utilizzati per provare l'inadempimento contrattuale del lavoratori medesimi”.

Infine, appariva “evidente che il controllo permesso dal sistema gps sulle autovetture della società permetteva un controllo a distanza dell'ordinaria prestazione lavorativa, non la tutela di beni estranei al rapporto di lavoro; non si può, infatti accedere, alla tesi per cui fossero in gioco il patrimonio e l'immagine dell'azienda posto che eventuali pregiudizi agli stessi sarebbero in realtà derivati solo dalla non corretta esecuzione degli obblighi contrattuali e non già da una condotta specifica quale appropriazioni indebite del patrimonio aziendale, furti lesione della riservatezza di dati societari etc.”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, condannando la medesima al pagamento delle spese processuali.


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