Nel caso esaminato dalla Cassazione, un lavoratore era stato licenziato dopo essere stato sorpreso a fumare sul luogo di lavoro.
Il lavoratore aveva provveduto ad impugnare il licenziamento, ritenendolo illegittimo, ma il suo ricorso veniva rigettato sia in primo grado che in grado d’appello.
La Corte d’appello, in particolare, sottolineava che il codice disciplinare, affisso in azienda, sanciva il divieto di fumare. Il lavoratore, inoltre, poteva considerarsi recidivo dal momento che era stato sorpreso più volte a fumare nello stabilimento presso cui era adibito, creando, oltretutto, delle situazioni di pericolo, dal momento che nello stabilimento erano presenti materiali infiammabili.
Di conseguenza, secondo la Corte d’appello, la sanzione espulsiva doveva ritenersi legittimamente applicata, essendo anche prevista dal Contratto collettivo di categoria applicabile alla fattispecie (R.G. 5178/2014).
Il Contratto collettivo, in particolare, prevede che “il licenziamento(…) può essere inflitto, con la perdita dell’indennità di preavviso, all’operaio che commetta gravi infrazioni alla disciplina ed alla diligenza del lavoro o che provochi all’azienda grave nocumento morale o materiale o che compia azioni delittuose in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro. In via esemplificativa ricadono sotto questo provvedimento le seguenti infrazioni: …. m) fumare nell’ambito dello stabilimento in quei luoghi dove tale divieto è espressamente stabilito o comunque dove ciò può provocare pregiudizio all’incolumità delle persone od alla sicurezza degli impianti o dei materiali”.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, vedendolo rigettato.
Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello non avrebbe correttamente applicato l’art. 7 della legge n. 300/1970, l’art. 2106 del c.c. e l’art. 81 del Contratto collettivo di categoria, in quanto la sanzione appariva sproporzionata rispetto alla condotta contestata, se si considera che, dalle risultanze istruttorie, era emersa una certa tolleranza del datore di lavoro nei confronti di altri lavoratori che erano stati sorpresi a fumare.
Il ricorrente, in particolare, esponeva di aver prodotto, in secondo grado, delle riproduzioni video che attestavano che altri lavoratori fumavano; inoltre, erano stati sentiti anche dei testimoni. Tuttavia, di tali circostanze la Corte d’appello non aveva tenuto conto.
La Corte di Cassazione non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, evidenziando come il medesimo si fosse limitato a mettere in discussione il criterio di valutazione delle prove adottato dalla Corte d’appello, che rappresenta un aspetto che non può essere oggetto di censura in sede di giudizio di Cassazione (si ricorda, infatti, che in tale grado di giudizio, la Corte di Cassazione non procede ad un nuovo esame nel merito della causa, provvedendo la stessa unicamente ad un controllo di legittimità della decisione adottata).
Nel caso di specie, dunque, poiché la Corte d’appello aveva adeguatamente motivato la propria decisione, precisando, altresì, che la condotta del lavoratore aveva comportato un serio pericolo per la sicurezza nel luogo di lavoro, la decisione di conferma della legittimità del licenziamento non poteva in alcun modo considerarsi ingiusta.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.