La Corte di
Cassazione, con la
sentenza n. 6764 del 2016, ha fornito alcune interessanti precisazioni in tema di
licenziamento per giusta causa (art.
18 Statuto dei lavoratori).
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la
Corte d’appello aveva confermato la
sentenza di primo grado che aveva accolto l’impugnazione del licenziamento intimato da una società ad un proprio dipendente, per aver il medesimo “
riposto furtivamente nella tasca del giubotto due delle tre confezioni di minuteria prelevate dagli scaffali non pagandole poi quando si era recato alla cassa selfservice, dove invece aveva pagato l'altra merce prelevata”.
Il
tribunale, in particolare, aveva ritenuto
non provata la “giusta causa” del licenziamento, dal momento che la condotta addebitata al lavoratore doveva essere considerata come una mera dimenticanza.
La società
datrice di lavoro, ritenendo la sentenza ingiusta, provvedeva, dunque, a proporre appello, il quale, tuttavia, non veniva ritenuto fondato.
Secondo l’appellante, infatti, il giudice di primo grado avrebbe errato nel ritenere non dimostrata la giusta causa del licenziamento, mentre avrebbe dovuto considerare “presunta” la “volontà appropriativa” del lavoratore, sul quale incombeva l’onere di dimostrare il contrario; inoltre, avrebbe erroneamente ritenuto sproporzionata la sanzione del licenziamento, “trattandosi invece di sanzione adeguata alla compromissione del vincolo di fiducia”.
La Corte d’appello, tuttavia, non riteneva fondata nessuna di tali censure, confermando integralmente la sentenza di primo grado.
Secondo la Corte, infatti, doveva condividersi “il percorso logico-giuridico seguito dal giudice di primo grado”.
Precisava la Corte, in particolare, che il lavoratore non aveva “mai negato di aver effettivamente riposto le due scatoline di minuteria nelle tasche sostenendo di essersi dimenticato di pagarle”, anche se, al momento del controllo, aveva “mostrato spontaneamente le scatoline affermando di avere fatto ‘una stupidata’".
Con riferimento a quest’ultima circostanza, la Corte d’appello rilevava che “il ricorrente dopo aver spontaneamente mostrato le scatoline ha effettivamente detto di aver fatto "una stupidata" ma nel senso di aver fatto una stupidata a mettere nella tasca della giacca le scatoline”.
Pertanto, secondo il giudice di secondo grado, il Tribunale aveva correttamente “ridimensionato tale affermazione e escludendo nella suddetta espressione il carattere confessorio del gesto furtivo”.
Secondo la Corte d’appello, dunque, doveva escludersi “la condotta dolosa della appropriazione, ancorchè quest'ultima si dovesse ritenere presunta fino a prova contraria: infatti è pacifico che il lavoratore, che stava facendo la spesa a fine turno, avesse prelevato anche altra merce ma senza utilizzare il cestino: è dunque assai verosimile che non potesse portare tutto in mano e quindi senza dolo si fosse risolto a riporre qualcosa in tasca cominciando dagli oggetti più piccoli”.
Peraltro, evidenziava il giudice di secondo grado che “il valore della merce apparentemente nascosta nelle tasche” aveva “complessivamente un valore modestissimo di euro 2,90, inferiore al valore della restante spesa regolarmente pagata alla cassa per un totale poco più di euro 11”, con la conseguenza che “un intento doloso credibile avrebbe condotto il lavoratore a non pagare merce di maggior valore”.
Inoltre, “lo stato di disattenzione” del lavoratore appariva “avvalorato dal dato pacifico che il ricorrente aveva lasciato sul banco della cassa anche lo scontrino”, dimenticando anche una parte del resto del conto.
Del tutto correttamente, dunque, secondo la Corte d’appello, il Tribunale aveva “ritenuto sproporzionata la sanzione del licenziamento in quanto, pur trattandosi di comportamento disdicevole, il gesto non aveva compromesso irrimediabilmente la fiducia riposta nel dipendente in un contesto del tutto privo di precedenti disciplinari”.
A seguito della conferma della pronuncia di primo grado, la società datrice di lavoro proponeva ricorso in Cassazione, il quale, tuttavia, veniva parimenti rigettato.
La Corte di Cassazione, infatti, riteneva di dover integralmente aderire alle argomentazioni svolte dal lavoratore, confermando la sproporzionalità della sanzione del licenziamento rispetto al tenore della condotta posta in essere dal dipendente, la quale non poteva in alcun modo considerarsi dolosa.
In conclusione, dunque, la Cassazione
rigettava il ricorso proposto dalla società ricorrente, condannando la medesima al pagamento delle
spese processuali.