Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Brescia, confermando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Mantova, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore, ordinandone la reintegra nel posto di lavoro.
Nel caso di specie, in particolare, la Corte d’appello aveva ritenuto che il licenziamento, intimato “per inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni per le sue sopravvenute condizioni di salute”, fosse illegittimo, in quanto, da un lato era stato “disposto dopo la visita del medico competente e prima che la commissione sanitaria si fosse pronunciata” e, dall'altro lato, in quanto il lavoratore risultava comunque idoneo a svolgere altre mansioni compatibili, come accertato anche dalla commissione medica.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro, evidenziando la violazione degli artt. 1, 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, “per avere la sentenza impugnata fatto riferimento a mansioni mai svolte dal lavoratore, occupate da altri lavoratori e non equivalenti a quelle già a lui assegnate, trascurando che il lavoratore, pur in possesso del titolo di geometra, non era stato assunto come tale ma come magazziniere”.
Secondo la ricorrente, inoltre, la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 41 Cost. e l’art. 30 della legge n. 183 del 2010, in quanto aveva “sindacato le valutazioni organizzative di competenza del datore di lavoro”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla datrice di lavoro, rigettando il relativo ricorso.
Secondo la Cassazione, infatti, la società non aveva fornito “elementi utili per contrastare l'affermazione contenuta in sentenza - fondata sulle risultanze della Consulenza Tecnica d’Ufficio e sulle affermazioni del lavoratore - secondo la quale esistevano altre mansioni compatibili con quelle proprie della qualifica del lavoratore”.
In proposito, si era pronunciata anche la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4920 del 03 marzo 2014, la quale aveva stabilito che “in tema di inidoneità fisica al lavoro, l'impossibilità di utilizzazione di un lavoratore in mansioni equivalenti, in ambiente compatibile con il suo stato di salute, deve essere provata dal datore di lavoro, sul quale incombe anche l'onere di contrastare eventuali allegazioni del prestatore di lavoro, nei cui confronti è esigibile una collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage in ordine all'esistenza di altri posti di lavoro nei quali possa essere ricollocato”.
Secondo la Cassazione, peraltro, il Giudice di secondo grado non avrebbe “fatto una valutazione sostitutiva delle prerogative organizzative esclusive del datore di lavoro”, limitandosi, del tutto legittimamente, ad operare “solo una verifica della legittimità e veridicità di quanto dallo stesso datore affermato”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, confermando la sentenza della Corte d’appello che l’aveva condannata a reintegrare il lavoratore nel proprio posto di lavoro.