Per la giurisprudenza, vige la necessità di garantire che alla corretta esecuzione delle indagini, non corrisponda una lesione ingiustificata e continuativa del diritto alla libertà personale ed individuale dell’individuo, sebbene indagato (art. 13 Cost.), nonché del diritto alla segretezza delle comunicazioni e della corrispondenza privata (art. 15 Cost.).
Il mezzo di ricerca della prova delle intercettazioni è stato per la prima volta disciplinato nel codice di procedura Penale del 1913, all’interno degli articoli 170, comma 3 e 238, comma 3, i quali prevedevano la possibilità di intercettare la corrispondenza telefonica, illo tempore non considerata segreta. Attualmente, il codice di procedura penale vigente disciplina lo strumento delle intercettazioni all'interno degli articoli 266 -271, i quali ne delimitano l’ambito applicativo, nonché i presupposti strutturali.
Secondo le disposizioni di legge, al fine di poter utilizzare lo strumento dell’intercettazione è necessaria la presenza di gravi indizi di reato, nonché l’assoluta indispensabilità delle stesse per la prosecuzione delle indagini (art. 267 del c.p.p.). Il legislatore ha predisposto suddetti requisiti stringenti al fine di proteggere il diritto alla privacy, nonché quello alla riservatezza del soggetto indagato: trattandosi di diritti costituzionalmente tutelati, questi meritano di essere sacrificati solo in presenza di situazioni di stretta necessità preventiva o repressiva (quale, appunto, la ricerca di un delinquente, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, alla luce dell' art. 27 Cost.).
A norma dell' art. 13 Cost., la libertà personale può essere sacrificata solo in presenza di un provvedimento espresso dell'autorità giudiziaria, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge: in materia di intercettazioni, dunque, occorre un provvedimento espresso della magistratura requirente (la quale opera nei soli casi previsti dalla legge), poi successivamente approvato dall'organo giudicante, al fine della loro validità.
Le intercettazioni possono essere di triplice natura, a seconda dello strumento utilizzato per il loro esercizio: telefoniche (in particolare, attuate previo collegamento di captatori telefonici, attraverso cui poter ascoltare le conversazioni tenute dall'indagato con i terzi); telematiche (ossia, predisposte attraverso l’accesso ai siti telematici utilizzati abitualmente da parte dei soggetti indagati); ovvero ambientali (ossia, poste in essere attraverso microspie, micro registratori, o rilevatori G.P.S., posizionati presso l’abitazione del sospettato di reato).
Orbene, la problematica circa la definizione del luogo di privata dimora (art. 266 del c.p.p., comma 2), si è posta in giurisprudenza proprio in materia di intercettazioni ambientali, le quali, appunto, necessitano dell’utilizzo di micro captatori da depositarsi nei luoghi abitualmente e privatamente frequentati dai soggetti indagati.
Sul punto, le Sezioni Unite penali hanno in passato affermato che “il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza; ciò in quanto il rapporto tra la persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente. In altre parole, la vita personale che vi si svolge, anche se per un periodo di tempo limitato, fa sì che il domicilio diventi un luogo che esclude violazioni intrusive, indipendentemente dalla presenza della persona che ne ha la titolarità, perché il luogo rimane connotato dalla personalità del titolare, sia o meno questi presente. Solo il requisito della stabilità anche se intesa in senso relativo, può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare un'autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità” (Cass. pen., sez. un., 28 marzo 2006, n. 26795).
Così che, sulla scia della pregressa giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. VI, 7 luglio 2015, n. 49286), nonché della sentenza delle Sezioni Unite dapprima citata, la pronuncia in esame ha confermato che con la nozione di “luogo di privata dimora” deve farsi riferimento a quello ove è possibile per ciascuno esercitare le proprie attività private, liberamente e legittimamente, senza alcuna turbativa da parte di terzi estranei (ossia, i luoghi ove è possibile esercitare il c.d. "ius excludendi alios", rilevante ai sensi dell’ 614 cp). In tali spazi, sebbene sia necessario garantire i diritti costituzionali alla riservatezza ed alla privacy (art. 14 Cost.), è tuttavia possibile derogare agli stessi attraverso la pratica delle intercettazioni, qualora ciò sia necessario per la prosecuzione delle indagini in materia penale.
Pertanto, come ricordato in passato dalla Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. I, 13 maggio 2010, n. 24161), è da escludersi che sia sussumibile nella nozione di “luogo di privata dimora” (ex art. 614 c.p.), l’ambiente, la zona ovvero la posizione ove sia consentito l’accesso ad un numero indiscriminato di soggetti. Non sono, dunque, da qualificarsi come “private dimore” i luoghi aperti al pubblico (si pensi, ad esempio, ai bar, o ai negozi). In suddetti luoghi, dunque, non è possibile per l’autorità giudiziaria procedere con il mezzo di ricerca della prova delle intercettazioni in materia ambientale, essendo violata non solo la privacy dell’indagato, bensì anche quella delle persone circostanti.
Sarà possibile per il soggetto indagato contestare in sede giudiziaria la legittimità delle intercettazioni ambientali ottenute in luoghi non di privata dimora, eccependone la validità dinanzi al Tribunale del riesame (qualora siano state applicate misure cautelari), ovvero per la prima volta in sede di giudizio in cassazione. L’illiceità delle intercettazioni effettuate in luoghi non conformi alla legge può, invero, essere rilevata ex officio dal giudice, ai sensi dell' art. 609 del c.p.p., comma 2.