Ma siamo sicuri di aver dato il consenso al trattamento dei nostri dati personali e che l’azienda possa legittimamente inviarceli?
Proprio su questa questione si è pronunciata la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9982 del 16 maggio 2016, la quale ha fornito alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Corte, un avvocato agiva in giudizio nei confronti di Telecom, chiedendo che la stessa fosse condannata ad interrompere “ogni illegittimo trattamento ed uso per finalità promozionali dei suoi dati personali e che la medesima società fosse condannata al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali arrecati alla sua vita lavorativa e sociale dai continui messaggi di contenuto promozionale e pubblicitario”.
Il Tribunale, tuttavia, doveva prendere atto del fatto che Telecom aveva posto fine a tale condotta e, pertanto, dichiarava cessata la materia del contendere, con riferimento alla prima delle domande proposte.
Quanto, invece, alla domanda risarcitoria, il Tribunale riteneva di rigettarla, accogliendo le argomentazioni svolte da Telecom.
In particolare, Telecom affermava “la legittimità del proprio comportamento sul presupposto dell’esistenza del consenso alla ricezione di quei messaggi da parte del ricorrente” e il Tribunale rilevava come il rapporto tra Telecom e l’avvocato in questione rappresentasse dei profili di ambiguità, dal momento che l’avvocato “non aveva assunto una precisa posizione né affermato con certezza di avere o non avere prestato il suo consenso, prospettando entrambe le eventualità”.
Dunque, Telecom riteneva di aver agito legittimamente, in quanto il soggetto in questione aveva prestato il consenso e, anche in sede di ricorso, non aveva preso una posizione chiara, non avendo lo stesso specificato se aveva o no prestato il consenso.
Giunti dinanzi alla Corte di Cassazione, la medesima riteneva di dover confermare il rigetto della domanda svolta dall’avvocato.
In particolare, la Corte rileva come “la prestazione del consenso al trattamento dei dati personali c.d. comuni non è soggetta al requisito della forma scritta, ma, a differenza che per i dati sensibili, può essere espressa anche oralmente purché venga documentata per iscritto”.
Ebbene, nel caso di specie, la Cassazione osserva come l’avvocato avesse del tutto infondatamente contestato “la validità di un consenso espresso in forma non scritta e trasposto nel sistema informatico interno alla Telecom Italia”.
In altri termini, va osservato che il consenso al trattamento dei dati personali, non deve essere necessariamente prestato per iscritto, dal momento che la forma scritta non è richiesta a pena di nullità dell’atto, ma solo ai fini probatori: ciò significa che il consenso è validamente manifestato anche se prestato solo oralmente, mentre la prova del consenso può essere data solo attraverso un documento scritto.
Nel caso di specie, invece, il soggetto in questione non aveva agito in giudizio nei confronti di Telecom affermando di non aver prestato alcun consenso, bensì di non aver prestato alcun consenso scritto, senza escludere, quindi, di averlo prestato in forma orale.
Pertanto, sulla base delle eccezioni sollevate dal soggetto, il Tribunale aveva del tutto correttamente rigettato la domanda risarcitoria svolta nei confronti di Telecom, con la conseguenza che la Corte di Cassazione non ha potuto fare altro che confermarla, rigettando il ricorso proposto.