Funzione e presupposti del divieto protettivo della minima unità culturale
La preoccupazione che ha ispirato questo articolo e i seguenti è quella di provvedere al « grave inconveniente, oggi non raro, per cui un fondo, per successivi trapassi e divisioni, finisce quasi per polverizzarsi senza che vi sia attualmente un mezzo per impedirlo, non bastando allo scopo il fatto che talvolta gli uffici catastali si rifiutino di prendere atto di alcune suddivisioni, perché la relativa particella non potrebbe essere indicata nella mappa senza che se ingrandisca la scala ».
Un precedente legislativo ispirato alla stessa finalità è costituito dalla legge 3 giugno 1940, n. 1078, sul divieto di frazionamento delle unità poderali assegnate ai contadini coltivatori diretti. Essa, però, ha un campo di azione ristretto sia perché è legata alla bonifica, sia perché si limita alle concessioni e assegnazioni in proprietà fatte da enti di colonizzazione o da consorzi di bonifica a contadini coltivatori diretti (art. 1).
le disposizioni in esame, invece, regolano la materia in termini generali. Esse hanno ad oggetto i terreni destinati a coltura e quelli suscettibili di coltura. Non tutti i terreni, dunque, neppure se posti in campagna. Occorre avere riguardo o alla destinazione attuale o alla potenziale attitudine del terreno, per poter applicare le norme in esame. E si capisce che bisognerà seguire in questa valutazione criteri in prevalenza oggettivi; tuttavia non è possibile prescindere del tutto da elementi soggettivi, perché non è sempre facile risolvere la questione attinente alla classificazione dei terreni.
È certo più agevole accertare l'attuale destinazione del terreno a cultura: almeno nel maggior numero dei casi. Ma, se non c'è un vincolo, nascente dalla legge o dall'atto amministrativo, è evidente che un proprietario qualsiasi può mutare la destinazione del terreno, a seguito del quale potrà venire meno il limite destinato a preservare la minima unità colturale. Ed è possibile che i successivi acquirenti di porzioni inferiori alla predetta unità colturale minima destinino a loro volta le particelle di loro proprietà a cultura. In questo caso, l'inconveniente che la legge mira ad eliminare si riproduce.
Più difficile, poi, è risolvere la questione, quando si tratta soltanto di accertare l'attitudine del terreno: e sia pure l'attitudine generica alla coltura e non quella specifica ad un dato tipo di coltura. Infatti, il proprietario può destinare il terreno alla costruzione di un villino, e in questo caso, evidentemente, il limite perde ogni ragione d'essere. Ma questo proposito è necessario prospettare qualche questione. Si supponga che qualcuno sia proprietario di un terreno rurale genericamente suscettibile di coltivazione e che egli lo trasferisca a più persone, in modo da dare luogo ad un frazionamento che comprometta la minima utilità culturale. L'atto di trasferimento sarebbe annullabile, ai sensi dell'art.848. Ma se il terreno venga di fatto destinato a scopi diversi dalla coltivazione, il vincolo dovrà venir meno e quindi dovrà venir meno il vizio dell'atto. L'atto deve ritenersi suscettibile di convalida, con riferimento alla destinazione effettiva del terreno. Ciò conduce a ritenere che in questa materia non tanto (o non soltanto) deve prendersi in considerazione la suscettibilità del terreno alla coltura, quanto l'effettiva sua destinazione. Anzi, finché non venga esercitata l'azione di annullamento, l'efficacia del vincolo tendente alla salvaguardia della minima unità colturale sarà legata all'effettiva destinazione del terreno. Per essere più precisi: l'azione di annullamento tendente a preservare la minima unità colturale, potrà essere paralizzata dall'effettiva destinazione del terreno a scopi diversi dalla coltivazione. Facendo ancora un passo avanti nell'interpretazione della norma in oggetto, si può dire che l'azione di annullamento ha come presupposto, al momento del suo esercizio, la destinazione del fondo alla coltura, o l'attitudine alla coltura, qualora l'attuale destinazione non escluda (in atto) la funzione culturale.
Una volta esercitata l'azione di annullamento con successo si viene a determinare una situazione definita: l'alienazione perde ogni efficacia, e può nascere qualche inconveniente pratico: così può accadere che venga tolta ai diversi acquirenti la possibilità, poniamo, di costruire un violino, solo perché essi non vi hanno tempestivamente provveduto. E se il precedente proprietario si era spogliato del terreno perché non aveva i mezzi per sfruttarlo e gli acquirenti lo avevano acquistato per destinatario a scopi diversi dalla coltivazione, il risultato pratico che si raggiunge è quello di impedire qualsiasi sfruttamento del terreno.
A meno che non si voglia dar peso, ad es., al fine dichiarato nell'atto di alienazione di destinare il terreno a scopo edificatorio, e riconoscere in tale dichiarazione il fondamento da cui deduce un'eccezione capace di paralizzare l'azione di annullamento. Tale rimedio, però, appare arbitrario, e non può ritenersi privo di inconvenienti. Arbitrario, perché non trova appiglio nella legge, non privo di inconvenienti, perché il fine dichiarato nell'atto di alienazione, non vincola le parti, e gli acquirenti potrebbero, ottenuto il rigetto della domanda di annullamento, destinare il terreno a scopi di coltura. E in questo caso sarebbero riusciti a paralizzare la domanda di annullamento, ottenendo, col suo rigetto, una condanna alle spese, e a far sorgere questione circa la proponibilità o meno di una nuova domanda di annullamento. Questa, infatti, potrebbe essere ostacolata dal giudicato: salvo che non si volesse ritenere che le sentenze emesse in questa materia siano insuscettibili di giudicato (come quelle relative agli alimenti legali, alla capacità ecc.), tesi infondata, perché tali sentenze accertano l'esistenza o inesistenza di un difetto dell'atto di alienazione. Il solo rimedio equo (che non sembra però previsto dalla legge) sarebbe quello di sospendere la pronuncia di annullamento, assegnando un termine per l'attuazione dello scopo prefissosi dagli acquirenti.
Ancora: nel caso in cui il terreno venduto a più proprietari sia da alcuni destinato alla coltura e da altri a scopi diversi, l'annullamento deve pronunciarsi anche contro questi ultimi? Parrebbe di no, se fosse possibile ricostituire una unità culturale con le porzioni destinate a cultura; di si, qualora anche le porzioni non destinate a cultura fossero invece tutte o parte necessarie a ricostituire una unità culturale. Ma gli inconvenienti pratici sarebbero piuttosto gravi, perché, in sostanza, si tratterebbe di costringere alcuni acquirenti, a destinare contro i loro interessi, le porzioni di terreno acquistate, alla coltura, mentre essi già li hanno destinati ad altro scopo.
Ambito di applicazione delle norme protettive
Il limite protettivo della minima unità colturale vige in rapporti ai trasferimenti di proprietà, divisioni, assegnazioni a qualunque titolo.
a) Quanto ai trasferimenti, si intende che siano compresi quelli tra vivi e quelli a causa di morte. Per i trasferimenti tra vivi, siano a titolo oneroso (benché non se ne parli nelle norme relative al contratto di vendita né in quelle relative alla permuta), siano a titolo gratuito (benché non se ne parli nelle norme relative al contratto di donazione).
In ordine ai trasferimenti a causa di morte, è necessario esporre qualche rilievo. In linea teorica, si può ammettere l'azione di annullamento soltanto nelle successioni (particolari o universali) testamentarie, perché solo qui vi è un atto (o una disposizione) da annullare. E tuttavia può sorgere anche qui qualche difficoltà. Supponiamo, infatti, che si abbia una istituzione di erede congiunta a favore di più persone, e che uno degli elementi attivi dell'asse sia costituito da un terreno destinato alla coltivazione o suscettibile di essere coltivato. In questo caso, è evidente che l'istituzione di erede, al cui oggetto, in seguito all'azione di annullamento, si sottragga una cosa determinata. E resta pure da stabilire come e a chi il terreno in esame debba essere assegnato.
Supposto che si tratti di disposizione a titolo particolare o di institutio ex re certa, e che oggetto della disposizione sia un terreno rispetto al quale si debba applicare la regola protettiva dell'unità colturale, quali saranno le conseguenze dell'annullamento? Nel primo caso, annullato il legato, la cosa dovrà attribuirsi all'erede (o agli eredi), e nel secondo caso, annullata l'istituzione testamentaria, si aprirà la successione legittima?
Ma i risultati potranno essere tali da far apparire (a parte l'iniquità di essi) il rimedio peggiore del male: infatti, gli eredi ai quali sarebbe, nei due casi previsti, da attribuire la cosa oggetto di legato o di istituzione ereditaria, potrebbero essere persino più numerosi dei destinatari originari della disposizione testamentaria.
Posto ciò, se si volesse almeno salvare il fine pratico a cui mira la legge, bisognerebbe ritenere che l'azione di annullamento fosse ammissibile solo nel caso in cui il suo esercizio potrebbe fare salva la minima unità colturale: che sarebbe una interpretazione restrittiva della norma, conforme alla sua finalità essenziale di interesse pubblico, ma in contrasto con le finalità specifiche della successione testamentaria. Rimarrebbe, infatti, nel campo dei rapporti di diritto privato, l'iniquità, poiché l'annullamento disposto nell'interesse pubblico si risolverebbe in un danno dei destinatari della disposizione testamentaria e in un correlativo vantaggio di altri: cosa che la legge certamente non vuole.