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Negata la modifica da full time a part time: c'è danno?

Lavoro - -
Negata la modifica da full time a part time: c'è danno?
Niente risarcimento del danno esistenziale per il lavoratore a cui non viene trasformato il rapporto di lavoro da full time a part time se non prova un nesso di causalità.
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 5221 del 7 marzo 2007, si è occupata di un interessante caso in materia di diritto del lavoro.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda proposta da una lavoratrice nei confronti di Poste Italiane s.p.a., sua datrice di lavoro, volta ad ottenere il risarcimento dei danni per non aver accolto la domanda di trasformazione del rapporto di lavoro da full time a part time.

La Corte d’appello, in particolare, escludeva la responsabilità di Poste Italiane ai sensi dell’art. 2087 del c.c., ritenendo, inoltre, insussistente il “il nesso di causalità tra danno lamentato e condotta omissiva aziendale”, dal momento che “la documentazione medica allegata dalla lavoratrice conteneva soltanto una diagnosi di astenia senza ulteriore elemento specifico che consentisse di ricondurre il predetto disturbo alla condotta omissiva dell'azienda”.


Ritenendo la sentenza ingiusta, la lavoratrice proponeva ricorso in Cassazione, deducendo che il giudice di secondo grado avrebbe dato una lettura restrittiva dell’art. 2087 codice civile, il quale prevede “l'obbligo del datore di lavoro non solo di adottare le misure di sicurezza previste in relazione all'attività svolta, ma anche di mantenere comportamenti atti a tutelare la dignità e la personalità morale del lavoratore”.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla ricorrente, osservando che “la responsabilità ex art. 2087 cod. civ. (…) è configurabile quando la lesione del bene tutelato derivi dalla violazione dell'obbligo che incombe al datore di lavoro di adottare idonee misure a tutela della salute del lavoratore subordinato e della sua personalità morale e di controllare e vigilare che esse siano osservate da parte dei lavoratori”.

Secondo la Cassazione, in particolare, la norma citata contiene pur sempre una misura antinfortunistica mentre, nel caso di specie, la violazione dedotta dalla ricorrente riguardava “doveri di contenuto diverso dell'azienda”, non riconducibili “alla tutela delle condizioni fisiche e della personalità morale dei dipendenti”.

Quanto al risarcimento del danno asseritamente patito dalla ricorrente, la medesima lamentava che il giudice di secondo grado avrebbe fatto riferimento al solo danno biologico senza prendere in considerazione quello esistenziale” e senza tenere in adeguato conto “l'insistenza mostrata dalla ricorrente con la proposizione di reiterate istanze avanzate in un breve lasso di tempo e dirette alla trasformazione del rapporto di lavoro a part-time, l'ostinato silenzio aziendale opposto anche all'iniziativa legale della ricorrente che perciò era stata costretta a promuovere l'azione giudiziale, l'assidua partecipazione della stessa alle udienze, tutti indici di un disagio e di un malessere che, causati dalla condotta scorretta ed in mala fede del datore di lavoro, avevano turbato la sfera esistenziale della dipendente”.

Secondo la ricorrente, infine, il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto in considerazione la certificazione medica allegata ed avrebbe omesso di eseguire una consulenza tecnica.

Secondo la Cassazione, tuttavia, anche tali censure apparivano infondate, dal momento che, nel caso di specie, non era stato prospettato dalla lavoratrice “alcun pregiudizio che valga ad integrare il danno esistenziale”, il quale consiste nel danno “di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile" che induce "a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno".

La ricorrente, infatti, si era limitata a lamentare "uno stato di malessere e disagio psicofisico e di essere stata costretta, a fronte delle ripetute istanze di trasformazione del rapporto di lavoro, rimaste senza esito, a promuovere l'azione giudiziale, partecipando poi assiduamente alle udienze, con un turbamento della sua sfera esistenziale”.

Quanto, infine, al mancato esperimento di una consulenza tecnica, la Cassazione rilevava come, in ogni caso, tale mezzo di prova non può essere utilizzato “per sopperire all'onere di allegazione e di prova incombente alla parte, ovvero per indagini esplorative”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla ricorrente, confermando integralmente la sentenza di secondo grado.


LA SENTENZA


Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 7 marzo 2007, n. 5221

Svolgimento del processo

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Venezia in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da D.G.D. nei confronti della sua datrice di lavoro Poste Italiane s.p.a., di risarcimento dei danni derivanti dal comportamento dell'azienda, che non aveva dato seguito, e neppure risposto, alla domanda di trasformazione del rapporto di lavoro da full time a part-time.

Esclusa la responsabilità ex art. 2087 cod. civ. del datore di lavoro, e pur condividendo la violazione addebitata alla predetta società degli obblighi di correttezza e buona fede, già ritenuta dal primo giudice, ha però ritenuto insussistente il nesso di causalità tra danno lamentato e condotta omissiva aziendale: la documentazione medica allegata dalla lavoratrice conteneva soltanto una diagnosi di astenia senza ulteriore elemento specifico che consentisse di ricondurre il predetto disturbo alla condotta omissiva dell'azienda, quale innanzi accennata.

Di questa sentenza la D.G. ha richiesto la cassazione con ricorso basato su tre motivi, poi illustrati con memoria.

La società intimata ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 cod. civ.. Critica la sentenza impugnata per avere dato una lettura restrittiva della norma denunciata, la quale prescrive l'obbligo del datore di lavoro non solo di adottare le misure di sicurezza previste in relazione all'attività svolta, ma anche di mantenere comportamenti atti a tutelare la dignità e la personalità morale del lavoratore.

La censura è priva di fondamento. Si deve infatti osservare che la responsabilità ex art. 2087 cod. civ., la quale, come è noto, costituisce una disposizione di chiusura del sistema antinfortunistico, è configurabile quando la lesione del bene tutelato derivi dalla violazione dell'obbligo che incombe al datore di lavoro di adottare idonee misure a tutela della salute del lavoratore subordinato e della sua personalità morale, e di controllare e vigilare che esse siano osservate da parte dei lavoratori. Si tratta pur sempre di misure antinfortunistiche, quali richieste dalle caratteristiche oggettive dell'attività di lavoro e dalle condizioni dei singoli lavoratori, mentre qui la violazione dedotta dalla ricorrente attiene a doveri di contenuto diverso dell'azienda, e niente affatto riferibili alla tutela delle condizioni fisiche e della personalità morale dei dipendenti.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 32 Cost. e art. 115 cod. proc. civ.. Si assume che la ricorrente aveva agito in giudizio per il risarcimento di tutti i danni patiti in conseguenza dell'illecita condotta datoriale, mentre la sentenza impugnata ha fatto riferimento soltanto al danno biologico, senza prendere in considerazione quello esistenziale, così trascurando gli elementi induttivi offerti, tra cui l'insistenza mostrata dalla ricorrente con la proposizione di reiterate istanze avanzate in un breve lasso di tempo e dirette alla trasformazione del rapporto di lavoro a part-time, l'ostinato silenzio aziendale opposto anche all'iniziativa legale della ricorrente che perciò era stata costretta a promuovere l'azione giudiziale, l'assidua partecipazione della stessa alle udienze, tutti indici di un disagio e di un malessere che, causati dalla condotta scorretta ed in mala fede del datore di lavoro, avevano turbato la sfera esistenziale della dipendente.

Il terzo motivo denuncia vizio di motivazione e critica la sentenza impugnata, perchè nel limitarsi a considerare la componente biologica del danno lamentato non ha valutato in modo adeguato la certificazione medica allegata in atti ed ha omesso di eseguire una consulenza tecnica di ufficio.

Anche questi due motivi, da trattare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati. La Corte territoriale si è pronunciata sull'unica voce di danno liquidata dal primo giudice, oggetto della domanda di appello e specificata (v. pag. 2 della sentenza qui impugnata) nel danno esistenziale lamentato dalla lavoratrice per il comportamento della società, liquidato in via equitativa, ed ha supportato la conclusione cui è pervenuta circa la mancanza di dimostrazione del nesso di causalità tra il suddetto danno e la condotta omissiva contestata, con argomentazioni chiare sull'iter logico seguito ed immuni da errori logico-giuridici.

Ha infatti osservato che la lavoratrice si era limitata a produrre in giudizio una documentazione medica ove era riportata solo una diagnosi di astenia verosimilmente riconducibile a stress - senza alcun ulteriore elemento che consentisse di ricollegare il predetto disturbo, quantomeno con rilevante probabilità, alla lamentata condotta omissiva dell'azienda.

Inutilmente la ricorrente richiama nelle memorie illustrative presentate Cass. sez. unite 24 marzo 2006 n. 6572 per sostenere che la prova del nesso causale poteva essere desunta anche in via presuntiva.

Senza dubbio, pure in ipotesi di danno esistenziale il giudice di merito può fare ricorso alle presunzioni semplici, in quanto esse costituiscono una prova completa su cui il medesimo giudice può basare, anche in via esclusiva, il proprio convincimento (cfr. in proposito, tra le tante anche Cass. 21 ottobre 2003 n. 11737), ma è necessario che a tale proposito la parte alleghi elementi di fatto i quali, per poter essere valorizzati come fonti di presunzione, devono presentare, come richiede l'art. 2729 cod. civ., i requisiti di precisione, gravità e concordanza, sì che da essi il giudice possa desumere secondo un criterio di normalità l'esistenza del fatto ignoto.

E le Sezioni Unite, intervenute sul contrasto di giurisprudenza verificatosi in tema di prova del danno esistenziale derivante da dequalificazione professionale del lavoratore per fatto ascrivibile al datore di lavoro, se cioè tale danno consegua di per sè al demansionamento, oppure sia subordinato all'assolvimento da parte del lavoratore dell'onere probatorio circa l'esistenza del pregiudizio, con la citata pronuncia avvertono che non è sufficiente prospettare l'esistenza della dequalificazione e quindi chiederne genericamente il risarcimento, "non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto".

Qui non risultano affatto allegati tali elementi, e in particolare non è stato prospettato alcun pregiudizio che valga ad integrare il danno esistenziale, consistente come specificato dalle Sezioni Unite in quello "(di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno". La ricorrente, infatti, si era limitata a denunciare (v. quanto esposto nel presente ricorso a pag. 9 e 10) "uno stato di malessere e disagio psicofisico" e di essere stata costretta, a fronte delle ripetute istanze di trasformazione del rapporto di lavoro, rimaste senza esito, a promuovere l'azione giudiziale, partecipando poi assiduamente alle udienze, con un turbamento della sua sfera esistenziale.

La D.G. neppure spiega quale l'errore di ragionamento in cui sarebbe incorso il giudice di merito nell'escludere il nesso causale tra l'astenia diagnosticata nei certificati medici e la mancata risposta dell'azienda alla richiesta di trasformazione del rapporto di lavoro, da tempo pieno a part-time.

Non va poi tralasciato che, in materia di presunzioni, è riservata al giudice di merito la valutazione discrezionale della sussistenza sia dei presupposti per il ricorso a tale mezzo di prova, sia dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione (cfr. fra le tante, Cass. 4 maggio 2005 n. 9225).

Nè, infine, è ammissibile la doglianza concernente il mancato espletamento di una consulenza tecnica di ufficio, che ad avviso della ricorrente il giudice di merito avrebbe dovuto disporre neldubbio sulla valenza probatoria della certificazione medica, non potendo tale mezzo essere utilizzato per sopperire all'onere di allegazione e di prova incombente alla parte, ovvero per indagini esplorative (v. Cass. 11 gennaio 2006 n. 212, Cass. 6 aprile 2005 n. 7097).

Il ricorso va dunque rigettato.

Ricorrendo giusti motivi in considerazione della controvertibilità della questione della prova del danno esistenziale prima della menzionata pronuncia delle Sezioni Unite, le spese del giudizio di legittimità devono essere integralmente compensate tra le parti.


P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente fra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2007.


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