Secondo il Giudice primae curae, la sussistenza di un contratto di comodato gratuito tra il condannato ed una delle comproprietarie convenute sarebbe stato del tutto ininfluente. Ciò poiché, stante il carattere eccezionale della norma di cui all’art. 1599 del c.c., che non può essere applicata ad istituti diversi dalla locazione, il contratto di cui sopra non sarebbe stato opponibile all’attore comproprietario. Avverso tale decisione era proposto appello, che, tuttavia, veniva respinto con conferma della decisione di primo grado. Il suddetto inquilino proponeva, allora, ricorso per Cassazione, deducendo, tra gli altri motivi, la violazione e falsa applicazione degli articoli 1102, 1103 c.c., nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c. Si lamentava, difatti, l’erronea applicazione dell’art. 1103 c.c., che, nell’ipotesi di comunione pro indiviso di un immobile, sancisce che ogni partecipante può disporre del proprio diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della propria quota.
Per tale ragione, essendo stato accertato in giudizio che l’amministrazione era proprietaria pro indiviso di parte dell’immobile, posto che la parte restante apparteneva alle due convenute, e che il ricorrente aveva goduto solo di parte del bene, a causa dello stato di abbandono della parte rimanente, appariva illogica tanto la condanna al pagamento dell’indennità di occupazione senza titolo, quanto quella al risarcimento del danno derivante dal mancato utilizzo di una indefinita porzione dell’immobile da parte dell’originario attore.
La Corte di Cassazione, valutando come fondata la doglianza di cui sopra, ha osservato che, nel giudizio di merito non fossero stati osservati i principi dettati dalle Sezioni Unite della medesima Corte, ravvisabili nella pronuncia n. 11135/2012. Quest’ultima, pur avendo ad oggetto la materia della locazione, stante la sua ratio decidendi, può oltremodo trovare applicazione in ambito di comodato.
Le Sezioni Unite, difatti, concludevano riconducendo la fattispecie alla disciplina della gestione di affari altrui, criticando tanto la tesi del mandato disgiuntivo presunto, quanto quella dell’estraneità degli altri comproprietari al contratto stipulato da taluno di essi (sposata dalla sentenza di merito impugnata nel caso di cui si discorre).
Alla luce di quanto osservato, il Supremo Consesso ha elaborato il seguente principio di diritto: “La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell’ambito della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all’art. 2032 c.c., sicchè, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’art. 1705 c.c., comma 2, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 c.c., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondenti alla rispettiva quota di proprietà indivisa”.